I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il naufragio della Dordogna
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IL NAUFRAGIO DELLA DORDOGNA
La fronte del capitano s'era abbuiata, mentre i suoi occhi si erano fissati con visibile ansietà su una piccola nube nera che saliva l'orizzonte, gonfiandosi a vista d'occhio, come se fosse spinta da un vento impetuosissimo.
Eppure una calma assoluta regnava da parecchi giorni sull'Atlantico meridionale, senza che la più leggera brezza rinfrescasse nemmeno le notti, che non erano meno soffocanti dei giorni.
– Avremo tempesta – disse come parlando fra sé. – Buon per noi che la Dordogna è un solido piroscafo che ha provato le onde e spero che giungeremo egualmente a Bahia, senza perdere né un uomo, né un attrezzo.
Un giovanotto appena venticinquenne dall'aria intelligentissima e svegliata, che stava in quel momento appoggiato alla murata, osservando curiosamente una banda di pesci volanti, udendo le parole del capitano, aveva alzata la testa, dicendo:
– Non è da spaventarsi, signor Burdot. In caso di pericolo io telegraferò in Europa e qualcuno verrà di certo in nostro aiuto. Ormai abbiamo stazioni telegrafiche per la trasmissione delle notizie in Francia, in Ispagna, in Inghilterra e anche negli Stati Uniti. Ah! La gran bella invenzione la telegrafia senza fili! Quanto genio ha avuto quel Marconi!
– Già – disse il capitano. – Mi scordavo che voi avete a bordo un impianto perfetto e che, volendolo, potete comunicare col mio armatore.
– Sì, signor Burdot, – disse il giovane – e quando voi vorrete, daremo nostre notizie alle stazioni d'Europa e d'America.
– Pel momento non corriamo alcun pericolo, signor Marau. Non vi nascondo però, che un uragano violentissimo si prepari. Lo udite?
Uno strano crepitìo, che pareva prodotto dal laceramento d'una immensa pezza di tela, aveva bruscamente interrotta la loro conversazione.
– Ecco il vento che comincia a lanciarci addosso le prime raffiche – disse il capitano, increspando la fronte. – Prendiamo le nostre precauzioni e facciamo scendere i passeggieri onde non intralcino le manovre.
– Permettete che io rimanga in coperta, presso il mio apparecchio.
– Avete il mio consenso, signor Marau. Macchinista – gridò poi accostandosi all'apparecchio telefonico installato sul ponte di comando. – Aumentate a tredici nodi!
La Dordogna era uno dei più bei piroscafi della Compagnia di navigazione di Bordeaux, e faceva il servizio coi porti dell'America meridionale.
Era uscita dalla Gironda sette giorni prima, con duemila tonnellate di merce destinate ai porti brasiliani ed argentini e duecentoventi passeggieri fra i quali il signor Marau, incaricato di andare ad impiantare una stazione di telegrafia senza fili a Buenos-Ayres per conto della compagnia inglese.
La navigazione fino allora era stata felicissima e la massima allegria era regnata a bordo del magnifico transatlantico, non ostante il calore intenso che l'aveva continuamente accompagnato dopo il passaggio del tropico.
I concerti e le danze s'erano succeduti tutte le sere nel grandioso salone di prima classe e anche le partite di bigliardo, poiché il tempo s'era mantenuto sempre calmo, anzi perfino troppo tranquillo.
Quella nube nera però, comparsa così improvvisamente e gravida di minaccia, era venuta a gettare un profondo turbamento nell'animo del capitano, il quale conosceva per pratica la violenza degli uragani equatoriali. Anche i marinai, a cui non era sfuggita quella nube, s'erano guardati l'un l'altro con una certa ansietà.
Un vento caldissimo che soffiava dalle coste d'Africa, che pareva uscisse da un gigantesco forno scaldato a bianco, cominciava a soffiare ad intervalli increspando sempre più la superficie sconfinata dell'Atlantico.
Il capitano, che non voleva impicci in coperta e che prevedeva già una furiosa tempesta, aveva fatti rientrare sotto coperta i passeggieri, comandando di chiudere le porte ed i boccaporti, poi aveva fatto legare con doppi cavi tutte le scialuppe onde i colpi di mare non le portassero via, e raddoppiare il personale delle macchine.
Cominciava ad annottare e la nube nera s'avanzava sempre con una rapidità incredibile, mentre il caldo diventava così soffocante che i marinai sudavano come si trovassero fra le caldaie della camera delle macchine.
Gli ultimi raggi di sole convergevano poi sul ponte del transatlantico con tale intensità, da produrre una irradiazione intollerabile.
– La finirà male – borbottava il capitano scuotendo la testa e mordendosi i baffi. – Questa calma non è naturale. Scoppierà una di quelle tempeste da farci saltare come acrobati. Speriamo nella robustezza dello scafo e nella potenza delle nostre macchine.
Il cielo si oscurava sempre, eppure il mare si manteneva ancora calmo. Un folto velo di vapore ormai l'aveva invaso, formando una immensa cupola.
Cosa sorprendente! Quel velo, nero come il catrame, alle sue estremità non posava sul mare.
Una linea bianca, circolare, gli serviva come di frangia.
L'atmosfera poi era così satura di elettricità che sulle punte degli alberi e alle estremità dei pennoni si vedevano apparire serpenti di fuoco e pennacchi fosforescenti.
Soprattutto sull'apparecchio della telegrafia senza fili, che il signor Marau aveva collocato sul cassero, si vedevano miriadi di scintille danzare sulle due bocce del risuonatore e sulla grossa bobina1 del ricevitore.
Eppure, tutto intorno alla Dordogna regnava una calma profonda ed un silenzio profondo.
Il viso del bravo capitano si abbuiava sempre più e le sue inquietitudini aumentavano sempre.
Anche i marinai, che pur delle tempeste ne avevano provato su tutti gli oceani, apparivano terrorizzati.
Verso le nove, quel cupolone nero s'abbassò quasi improvvisamente, posando i suoi margini sulla superficie del mare.
A quel contatto, sembrò che l'acqua prendesse fuoco come se fosse composta di petrolio. Ribolliva come una immensa pentola e fumava tutto in torno alla nave.
Era una immensa evaporizzazione che montava asfissiante e bollente.
Ad un tratto una enorme massa liquida cadde sulla Dordogna. Non era pioggia che precipitava dalla nube nera, era una vera cateratta la quale in pochi minuti inondò siffattamente la tolda, da far affondare la nave per più di mezzo metro sotto quel peso improvviso.
Quella tromba d'acqua durò un'ora e forse più. In alto, nell'immensa vôlta della cupola, s'udiva ad imperversare la tormenta con mille urli e mille strida che aumentavano sempre.
Eppure fra il tumulto degli elementi di quando in quando regnava – fenomeno assolutamente strano – un improvviso silenzio.
La sonorità delle nuvole che circondavano la nave, serrandosela addosso, era tale, che le grida dei marinai e del capitano si propagavano ad incredibili distanze e poi, come se urtassero contro invisibili pareti, venivano rimandate e prodigiosamente ingrossate, come se qualche burlone di demonio si prendesse il gusto di ripeterle.
Un terrore superstizioso s'era impadronito dei nove uomini che formavano l'equipaggio. Nessuno aveva mai assistito ad un simile fenomeno, eppure, come abbiamo detto, erano vecchi naviganti che ne avevano veduto di belle su tutti i mari del globo.
Intanto la Dordogna, spinta da un vento indemoniato che s'era scatenato tutto d'un colpo, fuggiva verso ponente, con una rapidità fantastica.
La calma che regnava qualche ora prima sull'Atlantico s'era spezzata. L'oceano era diventato burrascosissimo e onde spaventevoli lo percorrevano, trastullando il piroscafo in così cattivo modo, che certi momenti il timone non governava più.
Tuonava orrendamente e lampi lividi solcavano la nube nera, fendendola in tutte le direzioni.
Il capitano ed il suo secondo aggrappati alla ruota, tentavano con sforzi disperati di tenere la Dordogna sulla buona rotta, poiché sapevano di trovarsi nei paraggi dei pericolosi isolotti di San Paolo, che sorgono quasi in mezzo all'Atlantico e che costituiscono un gravissimo pericolo per le navi che dall'Europa vanno nell'America meridionale, non essendovi alcun faro che le indichi.
– Parola da marinaio, – diceva il secondo mordendo rabbiosamente un pezzo di sigaro – non ho mai veduta una tempesta simile, capitano. Se la Dordogna se la cava senza malanni, sarà un vero miracolo. Udite che muggiti! Si direbbe che il diavolo metta in moto tutti gli arnesi delle sue fucine infernali.
– Lasciate il diavolo e tenete aperti gli occhi, signor Burdenass – rispondeva il capitano. – Se urtiamo contro gl'isolotti di San Paolo andiamo tutti a bere a crepapelle e siamo quasi in trecento a bordo.
– Apro gli occhi, signore, perché preferisco bere, per molti anni ancora, del buon Bordeaux.
– Vedete nulla a levante?
– Non scorgo che onde.
– Eppure quelle scogliere devono essere poco lontane.
– Mandiamo qualcuno sull'alberetto maestro.
– Date ordine a due gabbieri2 di mettersi in osservazione sulle coffe – disse il capitano. – E noi apriamo gli occhi. Se questi cavalloni aumentano sempre, vuol dire che si ripercuotono su un bassofondo e che quelle tristi isolette ci sono più vicine di quanto supponiamo.
Lasciò la ruota ai timonieri di guardia e salì sul ponte di comando puntando il cannocchiale verso levante, ossia dalla parte ove lo minacciava maggiormente il pericolo.
La Dordogna fuggiva a tutto vapore, balzando sulle onde. Torrenti di fumo uscivano dai suoi due camini e le sue poderose macchine muggivano cupamente facendo scricchiolare i fianchi della nave.
Aveva percorso un altro miglio, volta a volta sommersa dalle tremende ondate.
– Terra dinanzi a noi! A levante!
– Ecco le scogliere! – esclamò il capitano diventando pallido. – Cerchiamo di evitarle!
I marinai si erano slanciati alle murate, pronti a manovrare per girare al largo da quelle temute isolette.
Il mare in quel luogo era terribile. Montagne di acqua si rovesciavano sulla Dordogna, sollevandola come se fosse una piuma o rovesciandola nei cavi delle onde e sbattendola così impetuosamente che l'equipaggio penava a tenersi in piedi.
Dei colpi di mare poi, di quando in quando saltavano sulla tolda3 allagandola da una murata all'altra, e portando via tutti gli oggetti che non erano stati assicurati colle corde.
Alla luce dei lampi, anche il capitano ed il suo secondo avevano scorto un gruppo di alte scogliere, che si spingeva verso levante. Erano quelle di San Paolo.
Il momento era terribile, tanto più che la nave non sempre obbediva all'azione del timone. Bastava un colpo falso di barra4 per mandarla a fracassarsi sulle rocce.
Il vento, come se fosse invidioso della rabbia del mare, aumentava pure. Aveva raggiunto la velocità dei grandi uragani e minacciava di spezzare gli alberi della disgraziata nave. Già uno straglio5 era stato sventrato e quindi portato via e anche le rande,6 spiegate per aiutare il timone e quantunque ridotte, potevano correre egual sorte.
Al sud, quando le nubi si alzavano, si scorgevano ad intervalli gli aridi profili delle scogliere flagellati orribilmente dalle onde.
– Signore! – gridò il secondo che cominciava a perdere la calma. – Riusciremo noi ad evitarle? Le onde ci spingono in quella direzione e le macchine sono impotenti a resistere.
– Non so nulla – rispose il capitano che vedeva scemare, con spaventevole velocità, la distanza che lo separava dalle scogliere. – Se ci salviamo sarà il caso di accendere due ceri alla Madonna di Lourdes.
Le macchine funzionavano rabbiosamente per vincere la forza poderosissima delle onde ma le due eliche di poppa girando di frequente nel vuoto in causa delle spaventevoli orzate che subiva la nave, non funzionavano che ad intervalli.
Il transatlantico, sbattuto di qua e di là, quasi senza direzione, veniva fatalmente spinto contro quelle maledette scogliere.
Urla di terrore sfuggivano dai petti dei marinai i quali si credevano ormai perduti. Due soli uomini conservavano ancora una certa calma: il capitano ed il signor Marau, il quale non aveva abbandonato il suo apparecchio, pronto a lanciare alle stazioni telegrafiche d'Europa e di America la notizia dell'imminente disastro.
Ad un tratto il transatlantico, dopo una beccheggiata7 terribile che gli fece immergere nelle onde la prora intera, si rovesciò bruscamente su un fianco.
Subito si udì uno scroscio violentissimo che si ripercosse in tutte le sale e le cabine della nave, seguito da un clamore spaventevole.
I duecentoventi passeggieri che si trovavano rinchiusi nelle sale, urlavano a squarciagola:
– Affondiamo!
– Aprite!
– L'acqua! L'acqua!
Nel medesimo istante il primo macchinista compariva in coperta, pallido come un morto.
– Signore! – gridò, slanciandosi verso il capitano. – L'acqua invade la sala delle macchine.
– Si spengono i fuochi? – chiese il capitano.
– Non ancora ma la chiglia8 deve essersi spezzata.
– Resistete finché avrete l'acqua alla cintola.
La Dordogna era rimasta un momento immobile, poi una montagna d'acqua l'aveva risollevata portandola lontana dalle scogliere di San Paolo.
Non affondava ancora, tuttavia doveva aver subìto dei guasti forse irreparabili.
Uno squarcio doveva essersi prodotto sotto la linea d'immersione e l'acqua era cominciata ad entrare. Pericolo immediato non vi era. La Dordogna, come tutte le navi moderne era stata costruita a scompartimenti, quindi poteva galleggiare ancora e parecchie ore.
Vi era quindi tutto il tempo possibile per preparare il salvataggio dei duecentoventi viaggiatori e dei trenta marinai che formavano l'equipaggio.
Il capitano lasciò che il piroscafo si allontanasse dalle scogliere per paura che le onde lo sfracellassero del tutto, poi fece aprire i boccaporti onde i passeggieri potessero salire.
Un torrente umano si rovesciò sulla coperta gridando, singhiozzando, strillando. Le donne specialmente, rese pazze dalla paura, producevano una confusione tale, che i marinai non riuscivano più ad udire i comandi del capitano e degli ufficiali.
– Calma! Calma! – gridavano invano i marinai. – Non vi è pericolo!
Le loro grida si perdevano fra le urla delle donne, gli strilli dei ragazzi, le imprecazioni degli uomini.
Ed intanto l'oceano, lungi dal calmarsi, pareva che aumentasse la sua rabbia.
Colpi di mare si rovesciavano sopra le murate atterrando quella massa di persone terrorizzate e frantumando le scialuppe, gran parte delle quali ormai erano scomparse. Il capitano aveva chiamati gli ufficiali per decidere sul da farsi.
La Dordogna, quantunque incominciasse a fare acqua, non affondava che lentamente, nondimeno bisognava affrettare il salvataggio di tutte quelle persone, cosa tutt'altro che facile con quelle ondate.
Le poche scialuppe rimaste non avrebbero potuto resistere a quelle onde.
– Facciamo una zattera – disse il nostromo che era il più vecchio di tutti e che godeva molta considerazione anche fra l'ufficialità. – Demoliamo la coperta che è di legno e prepariamo una gigantesca piattaforma. Mi sono salvato già tre volte sulle zattere e anche la quarta spero che non mi porterà sfortuna.
Il consiglio fu accettato ad unanimità e fu dato l'ordine all'equipaggio di provvedere rapidamente alla costruzione dell'immensa zattera.
Pochi momenti dopo, i marinai armati di scuri demolivano furiosamente tutte le parti in legno della nave, fra una confusione enorme che aumentava di momento in momento.
I passeggieri il cui terrore era ben lungi dal calmarsi, intralciavano il lavoro dell'equipaggio. Credendo che la nave dovesse scomparire prima della costruzione della zattera, cercavano d'impadronirsi delle due scialuppe che i colpi di mare avevano risparmiate. Dapprima pregarono, poi minacciarono, alcuni anzi si erano armati di manovelle coll'intenzione di servirsene.
Gli ufficiali però non si lasciavano intimorire e colle rivoltelle in pugno guardavano le scialuppe e cercavano di respingere verso prora quella massa tumultuante, onde non interrompesse il lavoro dell'equipaggio.
Frequenti risse avvenivano, che l'autorità del capitano non riusciva sempre a domare. Alcuni passeggieri, si erano gettati già parecchie volte addosso agli ufficiali, urlando come forsennati:
– Mettete in mare le scialuppe! Non vogliamo annegare, canaglie!
La paura li rendeva irragionevoli e non volevano capire che quelle imbarcazioni non avrebbero potuto resistere un solo istante a quei colpi di mare.
Intanto il lavoro ferveva. I marinai lavoravano alacremente inchiodando tavole e legando pennoni e travi e barili, tratti dalla stiva e vuotati del loro contenuto.
La Dordogna resisteva sempre ma a poco a poco la sua stiva si riempiva d'acqua. I fuochi erano già stati spenti ed il personale delle macchine aveva dovuto fuggire precipitosamente in coperta, per non morire annegato.
All'alba la zattera era pronta. Era una piattaforma immensa che occupava tutta la poppa del transatlantico eppure a malapena poteva contenere forse tutte quelle persone.
Essendosi il mare un po' calmato, il capitano aveva dato ordine di lanciarla, quando grida di spavento s'alzarono fra i passeggieri che si erano pigiati a prora:
– Affondiamo! Affondiamo!
La Dordogna si era improvvisamente piegata verso prora e s'abbassava rapidamente. Le barriere degli scompartimenti dovevano aver ceduto sotto l'enorme pressione dell'acqua e la nave, resa ad un tratto pesantissima, affondava.
In mezzo al tumulto indescrivibile che successe, fra le urla ed i pianti delle donne, le chiamate disperate dei fanciulli, i comandi degli ufficiali, si udì il signor Marau a gridare con voce tuonante:
– Imbarcate la macchina telegrafica! È la nostra salvezza!
Il capitano aveva udita quella voce ed aveva subito compresa l'importanza di quel grido.
Fece lanciare la zattera che era stata issata cogli argani fino alla murata, trattenendola con grosse gomene onde i cavalloni non la portassero via, poi con quattro marinai si slanciò verso l'apparecchio Marconi, che era stato collocato precipitosamente in una cassa.
– L'affido a voi – disse ai marinai. – La nostra salvezza dipende da questa macchina.
Poi organizzò il salvataggio, gridando:
– Le donne prima, poi i fanciulli, ultimi gli uomini!
Era impossibile regolare la discesa di tutta quella gente. I passeggieri non badando più né alle minacce dei marinai, né alle preghiere degli ufficiali, si erano precipitati all'impazzata verso le murate, calpestando donne e fanciulli.
Chi si calava per le gomene, chi saltava in mare; e scomparivano per sempre o venivano schiacciati dalla zattera che le onde spingevano volta a volta contro il fianco della nave.
L'imbarco avveniva fra una confusione impossibile a narrarsi. Era una pioggia di persone che cadeva sulla zattera fra urla che assordavano, fra gemiti e pianti disperati.
Tuttavia, dopo cinque minuti non restava più nessuno sul transatlantico, ma quanti dovevano mancare all'appello! I fanciulli erano quasi tutti scomparsi e molte madri li cercavano invano.
Il capitano che era stato l'ultimo a scendere, fece tagliare le gomene e l'immensa zattera, carica quasi da affondare, da un'onda fu portata al largo.
La Dordogna, quello splendido piroscafo che formava l'orgoglio dei suoi armatori, agonizzava.
L'acqua si era già precipitata attraverso le aperture di poppa e la nave affondava a vista d'occhio, barcollando e girando su se stessa.
Si udirono degli scoppi formidabili, poi si videro volare in aria dei rottami. Le macchine erano saltate sotto la brusca invasione delle acque.
Il transatlantico oscillò un'ultima volta, poi scomparve fra un vortice di spuma.
– Povera nave! – esclamò il capitano che aveva gli occhi umidi. – Non credevo che dovesse finire così miseramente al suo sesto viaggio! Che cosa accadrà ora di noi che siamo così lontani dalle coste americane ed africane? Chi verrà a salvarci?
– Delle navi fra poco partiranno dai porti più vicini e verranno a cercarci, signore – rispose una voce dietro di lui.
Era il signor Marau che così parlava.
– Il mio apparecchio è stato salvato, signore, – disse il giovane ingegnere – e fra un'ora in Europa ed anche in America si saprà che la Dordogna è affondata e che noi ci troviamo su una zattera.
– Siete certo di poter corrispondere, signor Marau? – chiese il capitano.
– Il telegrafo senza fili Marconi ha fatto le sue prove le quali hanno dato risultati meravigliosi. Date ordine a tutti di rimanere silenziosi ed io lancerò il telegramma. Datemi la latitudine e la longitudine.
Il capitano tracciò su un foglietto di carta, con una matita, alcune cifre ed alcune lettere.
Il signor Marau lesse:
«Dordogna naufragata oggi 24 agosto del 1902 a 2° 11' lat. nord e 34° 5' long. est presso scogli San Paolo. Andiamo attraverso l'oceano su una zattera. Accorrete in nostro aiuto».
– Fra un quarto d'ora le stazioni telegrafiche europee ed americane lo riceveranno – aggiunse il giovane.
Ordinò il silenzio più assoluto e mise in movimento l'apparecchio, trasmettendo il telegramma. Quantunque la zattera si trovasse lontano duemilacinquecento miglia dalla stazione più vicina, era certo che sarebbe giunto a destinazione e fors'anche che sarebbe stato registrato dai ricevitori degli Stati Uniti oltre che da quelli europei.
Un profondo silenzio regnava sulla zattera. Tutti si erano radunati intorno al trasmissore telegrafico, chiedendosi con meraviglia come il dispaccio avrebbe potuto giungere in Europa senza alcun filo e senza aver a disposizione la gomena telegrafica transatlantica.
Tutti avevano udito a parlare della meravigliosa scoperta del grande italiano e più non dubitavano della riuscita.
Il signor Marau, curvo sull'apparecchio, guardava attentamente il registratore.
Era passata una mezz'ora quando il campanello elettrico lo avvertì che il dispaccio giungeva. Le onde herziane,9 malgrado la immensa distanza, erano arrivate fino in mezzo all'Atlantico.
Era la stazione inglese, impiantata da Marconi sulla costa della Cornovaglia, che rispondeva:
«Appreso disastro. Telegrafato al capo di Buona Speranza ed a Fernambuco. Vapori partiranno immediatamente vostra ricerca. Comunicate sempre direzione zattera e latitudine».
Un grido di stupore e di gioia aveva salutata la comunicazione di quel dispaccio che aveva, per la maggior parte dei passeggieri, del miracoloso ed un evviva strepitoso si era alzato.
– Evviva Marconi! Evviva il signor Marau!
Il giovine ingegnere, vivamente commosso, fece segno a tutti di zittire, quindi rivolgendosi al capitano, gli chiese:
– Signor Burdot, una nave che lasciasse fra qualche ora Fernambuco, che deve essere il porto più vicino, quanto impiegherebbe a giungere qui?
– In quaranta o quarantadue ore potrebbe giungere e raccoglierci – rispose il capitano.
– Allora stringiamoci la cintura dei pantaloni – gridò un marinaio. – Quaranta ore si possono resistere senza morire di fame.
Quella frase gettata là, aveva spento, come una doccia gelata, l'entusiasmo che aveva invaso i passeggieri.
– Perché dici ciò, Marnet? – chiese il capitano rivolgendosi al marinaio.
– Perché, comandante, nella confusione nessuno ha pensato ad imbarcare dei viveri. Non abbiamo nemmeno un biscotto a bordo.
– Quaranta ore passeranno presto – disse il signor Marau. – Spero fra poco di sapervi dire anche il nome delle navi mandate in nostro soccorso.
Infatti poco dopo il mezzodì la stazione di Cornovaglia inviava un secondo telegramma così concepito:
«Zattera della Dordogna. Partito a dieci ore mattino incrociatore brasiliano Pereira da Fernambuco vostra ricerca e incrociatore inglese Tundere da capo Buona Speranza. Coraggio!».
La salvezza era dunque assicurata mercé la grande invenzione di Marconi. La fiducia, per un istante scossa dal brutto annuncio dato dal marinaio, tornava nell'animo di tutti.
La burrasca era cessata. Solo delle grosse ondate di quando in quando investivano la zattera facendola balzare violentemente e gettando sossopra uomini, donne e fanciulli.
Il signor Marau ogni tre ore annunciava alla stazione inglese della Cornovaglia la rotta della zattera che certo doveva poi venire trasmessa al Pereira ed al Tundere, forniti probabilmente anche loro di apparecchi Marconi.
Quantunque la fame e soprattutto la sete avessero cominciato a farsi sentire, nessuno si lamentava. La speranza di venire presto raccolti sosteneva tutti; perfino i fanciulli non chiedevano né pane né acqua.
La notte trascorse in continue ansie, non essendo giunto più alcun dispaccio, eppure tutti erano convinti che il Pereira si avvicinasse forzando i fuochi.
L'indomani ancora nulla. Una viva ansietà si era impadronita dei disgraziati naufraghi, raddoppiata dalle prime torture della fame e della sete.
Le donne ed i fanciulli soprattutto cominciavano a soffrire assai e delle voci lamentevoli s'alzavano di quando in quando, rompendo il silenzio che regnava sulla zattera:
– Acqua! Acqua!
A mezzodì il signor Marau che non aveva mai abbandonato l'apparecchio, mandò un grido di trionfo. Il registratore aveva tracciato un dispaccio.
«Da bordo del Pereira ore 10 antimeridiane, lat. 1° 15 sud. long. 348° 17. Pregasi naufraghi della Dordogna rispondere apparecchio Marconi posizione zattera».
Il capitano aveva ascoltato attentamente la comunicazione del giovane ingegnere.
Era mezzogiorno, il momento opportuno per rilevare la posizione del sole. Fece rapidamente il calcolo, avendo avuto tempo di salvare i suoi istrumenti nautici, poi disse all'ingegnere:
– Il Pereira non è che a centosessanta miglia da noi ed in questo momento deve attraversare l'equatore. Comunicate la nostra latitudine e la nostra longitudine. Se tutto va bene questa sera, prima della mezzanotte, noi saremo salvi.
La speranza era rinata in tutti. Dodici ore erano lunghe ma si potevano ancora sopportare.
Quantunque la distanza fosse ancora relativamente enorme, tutti gli sguardi si tenevano fissi verso il sud-est, credendo sempre di veder sorgere da un momento all'altro la prora dell'incrociatore brasiliano.
Anche le dodici ore passarono, fra un'ansia incredibile ed i lamenti dei fanciulli che si sentivano straziare le viscere dalla fame. A mezzanotte meno un quarto un marinaio gridò:
– Fanali a sud!
Due punti luminosi erano comparsi sulla nera linea dell'orizzonte ed ingrandivano a vista d'occhio. Era una nave e correva in direzione della zattera.
Grida altissime s'alzarono fra i naufraghi, per attirare l'attenzione dei salvatori i quali potevano passare accanto alla zattera senza vederla.
– Aiuto! Aiuto! Naufraghi!
Si udì un colpo di cannone, poi un altro. L'incrociatore rispondeva alle grida dei naufraghi. Venti minuti dopo una grossa nave si accostava alla zattera e gettava in mare le scialuppe. Era l'incrociatore brasiliano. Avendo la zattera percorso solamente qualche miglio durante quelle ventiquattro ore, il comandante del Pereira non aveva avuto alcuna difficoltà a raggiungerla.
I naufraghi furono imbarcati, poi la nave riprese la sua corsa verso le coste del Brasile, giungendo a Fernambuco felicemente.
La scoperta del grande italiano aveva così salvato quasi duecento e più naufraghi, destinati certo a perire miseramente di fame in mezzo all'Atlantico.