I predoni del Sahara/Capitolo 25 - La casa del vecchio Nartico
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25 - La casa del vecchio Nartico
Sette ore dopo, con grande stupore del marchese e di Rocco e con viva gioia di Ben e di Esther, El-Haggar ed i suoi due compagni, dopo una corsa furiosa, giungevano all'oasi di Teneg-El-Hadsk.
Festeggiato il vecchio Tasili, il quale rivedendo i padroncini piangeva di gioia, il marchese, in preda ad una viva commozione per le liete novelle recate, interrogò lungamente il traditore sulla sorte toccata al colonnello.
El-Melah aveva già preparato la sua storia.
“«Da un Tuareg suo amico aveva avuto l'assicurazione che il colonnello era stato condotto a Tombuctu da una banda di predoni, gli stessi che avevano assalito e distrutto la spedizione, e venduto come schiavo al sultano.»
“«Quel suo amico,» egli disse, «aveva anzi assistito alla vendita del disgraziato francese sulla piazza del mercato e gli aveva perfino precisato la somma offerta dagli agenti del sultano: quattro libbre di polvere d'oro, dieci denti d'elefante e trecento talleri; una somma enorme in una città dove gli schiavi negri si pagano quattro o cinque libbre di sale.»”
“Noi lo libereremo,” disse il marchese, “dovessimo dar fuoco a Tombuctu o far prigioniero il sultano.”
“M'incarico io di ciò,” disse Rocco, che tutto credeva possibile.
“Non commettete imprudenze, signore,” rispose El-Melah, serio, “Il sultano ha molti kissuri bene armati.”
“E tu, Tasili,” interrogò Esther, “non hai udito parlare d'un colonnello francese venduto schiavo?”
“No, padrona,” rispose il vecchio moro. “D'altronde il fellata che mi aveva comperato dai Tuareg non mi lasciava quasi mai uscire dalla sua casa, né parlare con chicchessia.”
“Che cosa facevi in quella casa?”
“Macinavo orzo da mane a sera.”
“Oh! Mio povero Tasili! E ti avrà anche maltrattato quel padrone?”
“Non mi risparmiava le legnate, ve lo assicuro,” rispose il vecchio, sforzandosi di sorridere.
“Se mi farete conoscere il vostro ex padrone, gli farò sentire il peso dei miei pugni,” disse Rocco, indignato. “Trattare così un povero vecchio!”
Poco dopo il marchese e Ben condussero Tasili sotto una tenda per essere più liberi e non aver testimoni. Intanto Rocco e Esther si posero a preparare un pranzetto per festeggiare il vecchio servo.
“Hai potuto rivedere la casa abitata da mio padre?” chiese Ben.
“Sì, un giorno, approfittando dell'assenza del mio padrone, sono andato a visitarla,” rispose Tasili.
“È ancora disabitata?”
“Sì, perché prima di lasciare Tombuctu per avvertirvi della morte di vostro padre, l'ho fatta diroccare in modo da renderla quasi inabitabile.”
“Non sarà stato toccato il tesoro?”
“È impossibile, padrone. L'ho rinchiuso in una cassa cerchiata di ferro e calato nel pozzo del giardino, a parecchi metri di profondità, quindi ho coperto tutto con sabbia e sassi.”
“È considerevole quel tesoro?” chiese il marchese.
“Vostro padre aveva accumulato cinquecento libbre d'oro, oltre a parecchie pietre preziose.”
“Si fa fortuna presto a Tombuctu,” disse il marchese ridendo.
“Ha impiegato vent'anni ad accumulare quella sostanza,” rispose Tasili.
“Ammiro la vostra fedeltà. Un altro, al vostro posto, si sarebbe impadronito del tesoro e invece di tornare al Marocco ad avvertire gli eredi se ne sarebbe andato al Nuovo Mondo.”
“Tasili è il fiore dei servi,” rispose Ben.
Il vecchio sorrise senza rispondere.
“Marchese, quando partiamo?” chiese Ben.
“Questa sera. Sono impaziente di entrare in Tombuctu e di vedere il colonnello. Che peccato che sia solo! È strano però che i Tuareg abbiano trucidato tutti gli altri e risparmiato lui solo.”
“Sarà stato l'unico a cadere vivo nelle mani di quei predoni.”
La voce di Rocco interruppe la loro conversazione:
“Il pranzo è in tavola! Vedrete che meraviglie!”
Il sardo e Esther avevano fatto dei veri prodigi per festeggiare degnamente la liberazione del vecchio moro e la lieta novella recata da El-Melah.
Oltre aver saccheggiato le casse dei viveri, erano ricorsi anche alle due carovane per averne burro, formaggi, zucchero, orzo e frutta secche ed una magnifica lepre che un arabo aveva ucciso nel deserto.
I profumi che uscivano dalle pentole erano così squisiti che per un momento il marchese credette di trovarsi in qualche albergo della Corsica o della Francia, anziché ai confini del deserto.
La minuta era davvero splendida e svariata. Orzo al latte, arrosto di montone, lepre al Bordeaux, un'ottarda in salsa verde, pasticcio di datteri, frutta secche e aranci al Marsala.
La serata passò lietamente, in compagnia dei capi carovanieri invitati a prendere il caffè.
Alle undici tutti i cammelli erano pronti alla partenza.
Il marchese e Ben si posero all'avanguardia sui due mehari e mezz'ora dopo la carovana abbandonava l'oasi, inoltrandosi nel deserto. A mezzodì dell'indomani i minareti di Tombuctu e le cupole delle moschee, indorate dal sole, si delineavano all'estremità della pianura sabbiosa.
“Non una parola che non sia araba,” disse Ben al marchese. “Se vi sfugge una frase in francese siete perduto, ricordatevelo.”
“Non temete, Ben,” rispose il signor di Sartena. “Parlerò arabo come un vero algerino e pregherò come un ardente mussulmano.” Nondimeno il marchese internamente non si sentiva tranquillo; ma ciò lo attribuiva alla commozione di entrare in quella misteriosa città che era stata la meta sospirata di tanti audaci viaggiatori durante l'ultimo secolo, molti dei quali erano stati uccisi dal fanatismo dei Tuareg prima ancora di poter mirare, e da lontano, le cupole ed i minareti delle moschee.
Attraversati i bastioni la carovana, in bell'ordine, fece la sua entrata per la porta del settentrione. I kissuri, bellissimi uomini, armati di lunghi fucili a pietra e di jatagan che davano loro un aspetto brigantesco, dopo averli interrogati uno ad uno sulla loro provenienza e aver constatato che i cammelli erano carichi di mercanzie, li lasciarono proseguire, credendoli in buona fede mercanti marocchini.
Fu però per gli europei e anche pei due ebrei un momento di viva emozione. Il menomo sospetto sulla loro vera origine e sulla loro religione sarebbe stato più che sufficiente per perderli, essendo rigorosamente vietato l'ingresso a Tombuctu ai non mussulmani, soprattutto agli europei.
“Dove andiamo?” chiese il marchese a El-Haggar quand'ebbero oltrepassato la porta.
“Vi sono dei caravan-serragli qui,” rispose il moro.
“Non saremmo liberi,” disse Tasili. “Andiamo ad accamparci nel giardino del mio padrone. La casa è diroccata, questo è vero, però alcune stanze sono ancora abitabili.”
“Sì, andiamo alla dimora di mio padre,” disse Ben. “Desidero ardentemente vederla.”
“E poi il tesoro è là,” aggiunse Tasili a bassa voce.
Attraversarono parecchie vie ingombre di mercanti e di animali, aprendosi il passo con molta fatica, e guidati dal vecchio moro si diressero verso i quartieri meridionali della città, i quali erano i meno frequentati, i meno popolati, e anche i più diroccati, avendo molto sofferto dagli assalti dei Tidiani che avevano assediato la città nel 1885.
Dopo una buona ora, il moro si arrestava dinanzi ad una casa di forma quadra, sormontata da tre cupolette molto slanciate, e costruita con mattoni seccati al sole.
Parte del tetto era stata diroccata e anche le pareti mostravano larghi crepacci.
Dietro si estendeva un giardino incolto, pieno di sterpi e ombreggiato da un gruppo di palme, cinto da una muraglia ancora in ottimo stato.
“È questa la dimora di mio padre?” chiese Ben, non senza commozione.
“Sì, padrone,” rispose Tasili.
Fecero entrare i cammelli nel giardino, il quale era tanto ampio da contenerli comodamente tutti, poi il marchese, Esther, Ben e Tasili visitarono l'abitazione.
Come tutte le case di Tombuctu abitate da persone agiate, questa nell'interno aveva un cortiletto circondato da un porticato con colonne di mattoni, ed una fontana nel mezzo.
Le stanze, in numero di quattro, erano ancora abitabili, quantunque legioni di ragni e di scorpioni le avessero invase.
Fecero portare le casse sotto il porticato e diedero ordine ai due beduini di sbarazzare le stanze dai loro incomodi abitanti, soprattutto dagli scorpioni, insetti molto pericolosi, i cui morsi talvolta riescono mortali alle persone.
“Andiamo a vedere il pozzo,” disse il marchese.
“Non facciamo però capire ai beduini e nemmeno agli altri che là dentro si nasconde un tesoro,” disse il prudente e sospettoso moro. “Sarebbero capaci di denunciarvi per impossessarsene.”
“Conosciamo quei messeri,” rispose il marchese. “Quantunque finora non ci abbiano dato alcun motivo di lagnarci di loro. Vuoteremo il pozzo di notte e durante la loro assenza.”
Il pozzo dove Tasili aveva seppellito le ricchezze accumulate dal suo padrone si trovava nel mezzo del giardino, fra quattro palme dûm d'aspetto maestoso.
Aveva un parapetto basso, formato da mattoni seccati al sole, e non misurava più di due metri di circonferenza.
Le sabbie ed i sassi erano stati gettati in così gran copia dal vecchio moro, che giungevano a due metri sotto il livello del suolo.
“Quanto dovremo scavare?” chiese il marchese.
“Dodici metri,” rispose il moro.
“Altro che le casseforti! L'impresa sarà dura, ma la fatica sarà ricompensata largamente. A quanto stimate le ricchezze rinchiuse nella cassa?”
“A due milioni di lire, signore.”
“Sarà necessario però cercare un'altra via per ritornare al Marocco.”
“Ci pensavo anch'io,” rispose l'ebreo. “È una ricchezza troppo vistosa per esporla ai pericoli del deserto.”
“Volete un consiglio?”
“Parlate, marchese.”
“Scendiamo il Niger fino ad Akassa. Le barche non mancano sul fiume; ne compreremo una e ce ne andremo da quella parte.”
“Assieme a voi, è vero, marchese?” chiese Ben, guardandolo fisso e sorridendo.
“Sì,” rispose il signor di Sartena, che lo aveva compreso. “Assieme a voi ed a vostra sorella.”
“Queste ricchezze non appartengono a me solo,” proseguì Ben; “e guardate da due uomini che hanno fatto le loro prove nel deserto contro i Tuareg, giungeranno più facilmente al mare.”
“Le difenderemo contro tutti, Ben, ve l'assicuro.”
“Io la mia parte, voi quella di mia sorella. Vi conviene, marchese?”
“Tacete e fermiamoci qui, per ora.”
Ben prese la destra del marchese e gliela strinse con commozione.
“Che il sogno si avveri,” disse, “ed io sarò il più felice degli uomini, come mia sorella sarà la più felice delle donne.”
“L'amo,” disse il marchese, semplicemente. “È il destino che ci ha fatto incontrare.”
“Ed il destino si compia,” rispose Ben con voce grave.