I predoni del Sahara/Capitolo 24 - La Regina delle Sabbie
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24 - La Regina delle Sabbie
Mentre il marchese ed i suoi compagni si preparavano l'accampamento, El-Haggar ed il sahariano galoppavano verso il sud onde attraversare l'ultimo tratto di deserto che li separava dalla Regina delle Sabbie.
Deserto veramente non lo si poteva chiamare, perché quantunque il suolo fosse ancora coperto di dune sabbiose, gruppi di palmizi si vedevano dovunque e anche non pochi duar mostravano le loro tende brune con zeribe contenenti cammelli e montoni in gran numero.
Piccole carovane, cariche specialmente di sale, articolo molto ricercato a Tombuctu, sfilavano fra le dune, alcune dirette alla città, altre verso le borgate del Niger.
El-Haggar ed El-Melah procedevano senza parlare, cogli sguardi fissi verso il sud, per cercare di scoprire i Tuareg che avevano lasciato l'oasi qualche ora prima e che ormai parevano scomparsi.
“Sembra che siano molto frettolosi di giungere a Tombuctu,” disse El-Haggar, dopo qualche tempo. “Quella premura è molto sospetta.
“Cosa ne dici, El-Melah, tu che conosci quegli uomini e che sei amico di quel capo?”
“Non amico,” disse il sahariano, quasi con dispetto.
“Tuttavia tu lo conosci e puoi sapere che razza di briccone sia.”
“Lo ignoro.”
“Quanto sei stato presso la sua tribù?”
“Alcuni giorni,” rispose El-Melah con impazienza.
“A te aveva detto che se ne andava al nord, quando lasciò i pozzi di Marabuti, vero?”
“Mi parve.”
“Perché lo troviamo ora qui? Ecco quello che desidererei sapere.” Proseguirono per un'altra ora, senza che i mehari rallentassero la loro corsa indiavolata, poi El-Melah, che da qualche istante dava segni d'inquietudine, chiese a bruciapelo:
“Sono tutti kafir, quegli uomini bianchi?”
“Lo suppongo, quantunque abbiano recitato sempre le preghiere del Profeta,” rispose il moro.
“E osano entrare in Tombuctu?”
“Tu sai che non sono persone da aver paura.”
“L'ho veduto.”
Stette zitto un altro pò, quindi riprese con tono quasi minaccioso “Il francese ama l'ebrea, è vero?”
“Può darsi,” rispose El-Haggar. “Ti rincresce forse, El-Melah? Me l'hai chiesto in un certo modo!”
“Quell'ebrea è la più bella ragazza che io abbia veduto nel deserto,” continuò il sahariano, come parlando fra sé. “Il sultano di Tombuctu la pagherebbe ben cara se qualcuno gliela offrisse come schiava.”
“Che cosa vuoi concludere?” chiese El-Haggar guardandolo con sospetto.
El-Melah guardò a sua volta il moro, come se avesse voluto scrutargli l'anima, poi disse con uno strano sorriso:
“Voglio concludere che Tombuctu potrebbe essere pericolosa per quell'ebrea troppo bella.”
“Veglieremo attentamente sulla signorina Esther.”
Il sahariano fece col capo un segno affermativo e aizzò il mehari. Verso il tramonto, dopo una corsa furiosa di otto ore, El-Haggar ed il suo compagno videro improvvisamente apparire, sull'infuocato orizzonte, una linea imponente di minareti e di torri, le quali spiccavano vivamente sul purissimo cielo del deserto.
Qualunque altro l'avrebbe scambiato per un miraggio meraviglioso, non potendo credere che una città dovesse sorgere in mezzo a quella immensa pianura sabbiosa, ma El-Haggar ed il suo compagno non si lasciarono ingannare.
Tombuctu, la Regina delle Sabbie e del Sahara, la città misteriosa, la cui esistenza era stata messa in dubbio per tanti secoli dagli europei, stava dinanzi a loro, a meno di quattro miglia.
“Ci siamo,” disse El-Haggar. “Ancora una galoppata e entreremo.”
Tombuctu o Timbuctu, della quale si narrarono tante leggende meravigliose prima che Renato Caillé e Barth la visitassero, è situata ai confini meridionali del Sahara nel mezzo d'una pianura sabbiosa, a circa quattordici chilometri dal fiume Niger.
Questa città che come Roma, Atene e Tebe, ebbe un tempo le sue scuole di sapienti e di filosofi e che godette uno splendore incredibile nei secoli passati, è una delle più antiche. La sua fondazione data dal quarto secolo dell'Egira secondo alcuni, e secondo altri risale al 1214 dell'era cristiana. Pare però che esistesse anche molto tempo prima, secondo gli antichi storici egiziani, sotto il nome di Kupha o di Nigeria.
Comunque sia, godette per lunghi secoli una grande celebrità come città misteriosa, fino al giorno in cui i sovrani di Fez e del Marocco se la resero tributaria, impossessandosene.
Non decadde però. Quantunque fosse perduta al di là del deserto, architetti di Granata l'abbellirono, costruendo uno splendido palazzo pel sultano ed essa rimase ancora per lungo tempo un deposito commerciale della più grande importanza, ricevendo carovane dal Marocco, dall'Algeria, dalla Tunisia e dalla Tripolitania di cui disperdeva poi le merci negli stati dell'Africa centrale.
Nel 1500, riacquistata l'indipendenza mercé una ribellione capitanata da un capo negro, risorse per qualche tempo, riguadagnando l'antico splendore, per poi decadere nuovamente nel 1670, epoca in cui fu soggetta ai re di Bambarra, e maggiormente nel 1826, in cui cadde sotto la dominazione dei Tuareg e dei Fellata, i formidabili predoni del deserto.
Oggi Tombuctu, quantunque occupi un'area immensa, non conta più di quindici o ventimila anime; le sue sette moschee, le sue vecchie torri, i suoi massicci bastioni, i suoi mercati, sono là a testimoniare la sua passata grandezza.
Le sue vie sono larghe tanto da potervi passare tre cavalli di fronte; ha poi delle case costruite con mattoni cotti al sole, con cortili interni e fontane; ha porticati ancora ammirabili che ricordano lo stile dei mori, bastioni e pozzi grandiosi, quantunque per la maggior parte guasti, una moltitudine di capanne che si popolano solamente all'arrivo delle carovane, sempre numerose in certe epoche dell'anno, e due grandi mercati destinati alla vendita degli schiavi1.
Tombuctu è ancora una città commerciale di molta importanza, pur avendo un territorio che non produce nulla affatto, nemmeno per nutrire la centesima parte della sua popolazione, a segno che nel 1805 riuscì facilissimo ai Tidiani di affamarla.
Riceve numerosissime carovane cariche di merci dagli stati dell'Africa settentrionale; oro e avorio dal Kong e dalle regioni dei Bambarra, e sale, derrata ricercatissima, che non si vende a meno di due lire al chilogrammo, dalle miniere di Tanunderma e da Bonshebur.
È poi una città dove il fanatismo, fino a qualche anno fa, imperava feroce. Nessun infedele vi poteva entrare sotto pena di morte, e nessun europeo poteva mettervi piede. Ciò non impedì però che Caillé prima e più tardi Barth, vestiti da mussulmani, vi potessero entrare a prezzo d'immensi pericoli.
Anche nel 1897 il luogotenente Caron, che aveva risalito il Niger con un battello a vapore montato da quattordici marinai fra europei ed indigeni, dovette accontentarsi di guardarla da lontano per non venire massacrato dai fanatici Tuareg e dai feroci kissuri del sultano.
El-Haggar ed El-Melah, dopo aver fiancheggiato gli enormi cumuli di rottami che formano delle vere colline intorno alla città, entrarono attraverso i bastioni diroccati. Era già sera.
Dopo un breve interrogatorio da parte delle guardie del sultano, incaricate di vigilare onde impedire l'entrata a qualsiasi infedele, si diressero verso un caravan-serraglio, specie di vasta tettoia destinata ai conduttori delle carovane e dove potevano avere un pessimo giaciglio mediante una tenue moneta.
“Ci occuperemo domani dei nostri affari,” disse El-Haggar, scendendo dal mehari.
Stavano per prepararsi la cena, quando videro entrare alcuni Tuareg che dovevano essere allora giunti a Tombuctu.
El-Haggar aveva riconosciuto il capo che aveva incontrato nei pozzi di Marabuti.
“Costoro devono averci attesi presso i bastioni e seguiti,” disse a El-Melah.
“Non occuparti di loro,” rispose il sahariano. “Non pensano a noi e abbiamo torto ad inquietarci.”
“Sarei stato più contento di non rivederli qui.”
Amr-el-Bekr, il capo di quel gruppo di Tuareg, pareva che non avesse fatto alcuna attenzione. Si era ritirato in un angolo della vasta tettoia assieme ai quattro uomini che lo accompagnavano, e dopo aver scaricato i mehari degli otri e dei sacchetti contenenti le provviste, tutti si erano sdraiati sui loro tappeti fingendo di dormire.
El-Haggar ed il sahariano si prepararono la cena, diedero da mangiare ai loro animali, poi si stesero su due angareb2 mettendosi a fianco i fucili e cercarono d'imitare i Tuareg, i quali pareva si fossero realmente addormentati.
Il moro, che si sentiva spossato da quella lunga corsa, non tardò a russare.
El-Melah invece vegliava. Di quando in quando alzava la testa per assicurarsi che il compagno dormiva, poi quando gli parve giunto il momento opportuno, lasciò senza far rumore l'angareb e scivolò verso l'angolo occupato dai Tuareg.
Non vi era ancora giunto, quando vide alzarsi un uomo.
“Sei tu, Amr?” chiese El-Melah.
“Sono io,” rispose il capo dei Tuareg. “Dove sono gl'infedeli?”
“Sono rimasti nell'oasi.”
“Hanno qualche sospetto?”
“No, almeno finora. Sai perché l'uomo bianco che ti ha minacciato si è spinto fino qui?”
“No.”
“Per cercare il colonnello Flatters.”
Una rauca bestemmia uscì dalle labbra del predone.
“Sa che siamo stati noi...”
“Silenzio, Amr,” disse El-Melah, mettendogli una mano sulla bocca.
“Quell'uomo è pericoloso per noi?”
“Può diventarlo perché è un francese.”
“Un francese!” esclamò il Tuareg, stringendo i denti. “Se lo avessi saputo prima l'avrei ucciso nel deserto.”
“Avresti perduto il premio che il sultano concede a chi gli consegna un kafir.”
“È per questo che li hai lasciati venire fino qui?”
“Sì, Amr,” disse El-Melah. “A te gli uomini, a me la donna.”
“Ah! Vi è anche una donna!”
“Bella come un'urì del paradiso di Maometto.”
“Che cosa vuoi fare di costei?”
“Rubarla al francese e venderla al sultano.”
“Sei furbo tu, per essere un algerino, El-Aboid...”
“Taci! Qui mi chiamo El-Melah.”
“Ah! Hai cambiato nome.”
“E anche pelle. Se il francese avesse saputo chi sono io ed a chi si deve il massacro della spedizione, non sarei certo più vivo.”
“Quando verrà qui il francese?”
“Fra una settimana; m'incarico io di condurlo.”
“Ti aspetterò,” rispose il Tuareg. “Quanti sono i kafir?”
“Due europei ed un ebreo.”
“Il sultano pagherà cari i due primi perché da molto tempo desidera avere degli schiavi dalla pelle bianca. In quanto all'ebreo, lo farà bruciare come una bestia malefica.”
“Tu non gli dirai che è il fratello della giovane,” disse El-Melah, con tono quasi minaccioso.
“Mi accontenterò d'intascare il prezzo del tradimento.”
“Tu ora devi dirmi una cosa.”
“Parla.”
“Sono giunti qui dei tuoi compatrioti con tre uomini presi nell'oasi di Eglif, fra i quali uno molto vecchio?”
“Mi pare d'aver udito parlare di ciò.”
“Il vecchio mi è necessario per indurre i kafir a venire qui. Se è stato venduto, ricompralo o rubalo al suo padrone.”
“Prima di domani sera sarà qui, te lo prometto. Conosco tutti i miei compatrioti e non mi sarà difficile scovare il vecchio che tu cerchi.”
“Dove ti rivedrò?”
“Al mercato degli schiavi.”
“Buona fortuna,” disse El-Melah. Strisciò lungo la parete e tornò all'angareb dove El-Haggar non aveva cessato di russare.
L'indomani, quando si svegliarono, i Tuareg erano scomparsi insieme coi loro mehari.
“Dividiamoci il lavoro; io mi occuperò di appurare quanto vi è di vero riguardo al colonnello,” disse El-Haggar.
“Ed io cercherò quel Tasili che tanto preme all'ebreo,” disse l'altro.
“Ci rivedremo a mezzodì per la colazione in questo medesimo luogo.”
“Sì, El-Haggar, e speriamo di essere fortunati nelle nostre ricerche.”
Il sahariano aspettò che il moro si fosse allontanato, poi salito sul suo mehari si cacciò fra la folla che ingombrava i dintorni della tettoia. Tutte le vie erano piene di cammelli, di mehari, di cavalli, di asini carichi d'ogni sorta di mercanzie, di mercanti marocchini, algerini, tunisini e tripolitani, di negri delle rive del Niger, di Tuareg del deserto, di bellissimi Bambarra e di Fellata, chi avvolti in ampi caic e con immensi turbanti, chi vestiti sfarzosamente come tanti sultani e chi quasi nudi o nudi affatto.
Tutte le piazze erano state convertite in bazar, dove si vedevano accumulate montagne di merci africane ed europee e derrate d'ogni specie, perché Tombuctu ha bisogno di tutto, perfino della legna che deve essere trasportata dal Niger.
Si vedevano cumuli enormi di datteri, di fichi secchi, di miglio, di orzo, di pistacchi, di patate, mescolati confusamente, e cumuli di cedri e di limoni trasportati con grandi stenti dalle città dell'Africa settentrionale. Poi ammassi di stoffe, di saponi, di candele, di chincaglierie francesi, di casse di zucchero, di scatole ripiene di coralli, di gingilli, ed in mezzo a tutto ciò vere colline di sale, preziosa derrata che si vende quasi a peso d'oro quando scarseggia e che serve anche come moneta, dandosene cinque o sei libbre per uno schiavo nel fiore degli anni.
Dovunque si commerciava, fra un gridio assordante, fra uno strepito indiavolato, fra un via vai continuo d'animali che accrescevano il baccano e la confusione, non ostante gli sforzi dei kissuri, gli splendidi soldati del sultano, per mantenere un po' d'ordine.
El-Melah, dopo aver faticato non poco ad aprirsi il passo fra quella folla tumultuante che si lasciava urtare e anche schiacciare i piedi dai cammelli, dai cavalli e dagli asini, piuttosto che interrompere gli affari, sì diresse verso il mercato degli schiavi, il quale si estende su una vasta piazza coperta da tettoie.
I Tuareg, suoi amici, non erano ancora giunti, ma la piazza era occupata da una folla non meno fitta di quella che ingombrava le vie. Negri d'ogni razza, bambarras, baraissa, rivieraschi del Niger, massina, bakhuni, kartani, fellani, uomini già vecchi, o nel fior dell'età, ragazzi, maschi e femmine, tutti nudi perché si potessero meglio giudicare i loro pregi ed i loro difetti, s'accalcavano sotto le tettoie, muti, tristi, vergognosi della loro miserabile condizione.
Si palpavano, si osservavano diligentemente, sì facevano correre o sollevare pesi perché sviluppassero i loro muscoli, si guardavano in bocca per giudicare la loro dentatura, o si facevano lottare fra di loro per misurarne la forza. Per lo più i padroni erano Tuareg, quei terribili predoni che mettono a ferro ed a fuoco tutti i dintorni di Tombuctu per procurarsi schiavi e per saccheggiare.
El-Melah attraversò tutte le tettoie, sperando di scoprire il suo amico, ma invano.
Fece sdraiare il mehari all'ombra d'un palmizio, gli si sedette accanto, accese la pipa e attese pazientemente.
Il sole non era ancora a metà del suo corso, quando vide giungere Amr seguito da un vecchio moro di sessant'anni, di statura alta e ancora robustissimo, non ostante l'età.
Lo trascinava schiavo con una corda legata ai polsi, dandogli violenti strappate e caricandolo d'insulti.
Vedendo El-Melah, gli si appressò dicendogli:
“È questo l'uomo che cercavi?”
“Non lo so,” rispose il sahariano; “ma ora lo sapremo.” Esaminò il vecchio, poi disse:
“Tu sei il servo di Ben Nartico, il fratello di Esther, è vero?”
Il moro udendo quei nomi trasalì e guardò El-Melah con profondo stupore.
“Non sei tu Tasili?” continuò il sahariano.
“Come lo sai tu?” chiese il vecchio con voce tremante.
“È lui,” disse il Tuareg. “Mi hanno detto che quest'uomo si chiama Tasili e che è stato catturato nell'oasi di Eglif.”
“È vero,” confermò il moro.
El-Melah lo liberò dalla corda, dicendogli:
“Tu sei libero e sono pronto a condurti dai tuoi padroni.”
“Da Ben e dalla signorina Esther?” gridò il vecchio, con profonda commozione.
“Sì,” rispose El-Melah.
“Quando potrò rivederli?”
“Domani.”
Fece ad Amr un segno d'addio, dicendogli in lingua sahariana: “Al mercato fra due giorni.”
“T'aspetto,” rispose il capo, con un sorriso d'intelligenza. El-Melah ed il moro attraversarono le vie affollate, conducendo per la briglia il mehari, e giunsero nel caravan-serraglio nel momento in cui entrava anche El-Haggar.
“Chi è questo vecchio?” chiese la guida.
“Sono stato più fortunato di te, El-Haggar,” disse il sahariano. “Cosa hai saputo tu del colonnello?”
“Nulla finora.”
“Ebbene, io ho trovato ed ho condotto Tasili, il servo dell'ebreo, ed ho saputo anche che il colonnello Flatters si trova come schiavo nel palazzo del sultano.”
“Tu sei un uomo meraviglioso!” esclamò El-Haggar guardandolo con ammirazione.
“E questo non è tutto,” proseguì El-Melah, con un perfido sorriso. “Ho anche saputo che i Tuareg che ci hanno seguito hanno continuato il loro viaggio verso Sarajanco, al di là del Niger, dove si trovano i loro duar.”
“Allora la nostra missione è finita.”
“Possiamo tornare presso il signor marchese. Hai delle monete tu?”
“Il padrone mi ha dato della polvere d'oro.”
“Andiamo a comperare un mehari per questo vecchio e partiamo senza perdere tempo. Prima del tramonto noi saremo nell'oasi.”