I predoni del Sahara/Capitolo 26 - L'hid-el-kebir

Capitolo 26 - L'hid-el-kebir

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26 - L'hid-el-kebir


Mentre il marchese ed i suoi compagni facevano i loro progetti, El-Melah aveva lasciato inosservato l'abitazione dell'ebreo, dirigendosi frettolosamente al mercato degli schiavi, dove era certo di ritrovare il capo Tuareg. Voleva compiere i suoi sinistri disegni più presto che gli fosse possibile, onde non destare qualche sospetto e mettere in guardia i due europei ed i loro amici.

Tradirli era cosa facile. Bastava avvertire il comandante dei kissuri per farli subito arrestare, con poca probabilità che uscissero più mai vivi da Tombuctu, ed intascare il premio della delazione.

Non voleva però far arrestare anche Esther, sulla quale aveva altri disegni. Era quindi necessario indurre gli europei e Ben a lasciare la casa per farli prendere altrove.

“Amr mi consiglierà,” si diceva il miserabile. “Anche egli ha interesse che il francese scompaia per non attirare più tardi qualche grossa bufera sulla sua tribù. Se il marchese sapesse chi sono stati gli uccisori della missione Flatters, o lo sospettasse, io sarei il primo a subire la punizione.”

Così monologando, giunse sulla piazza del mercato, in quell'ora pochissimo frequentata, essendo già chiusa la vendita degli schiavi. Amr-el-Bekr, come aveva promesso, lo aspettava sdraiato sotto una tettoia, col cibuc in bocca ed una tazza di caffè dinanzi.

Alcuni dei suoi uomini stavano seduti poco lontani fumando e chiacchierando.

Scorgendo El-Melah, il predone si era subito alzato.

“Già di ritorno!” esclamò.

“Ci siamo tutti.”

Gli occhi nerissimi del Tuareg mandarono un lampo.

“Devo andarli a denunciare?” chiese.

“Adagio, mio caro. Non voglio far arrestare anche la donna, te lo dissi già.”

“Mi accorderò col comandante dei kissuri per lasciarli entrare nel palazzo del sultano.”

“E invece del colonnello?”

“Troveranno le guardie,” concluse il Tuareg con un sorriso crudele. “Ci sarò anch'io coi miei guerrieri.”

“Ed io intanto porterò via la donna.”

“Quanti uomini ti sono necessari?”

“Quattro mi basteranno, perché m'incarico io di mandare via i beduini che rimarranno a guardia dei cammelli.”

Si strinsero la mano e si lasciarono.

Mezz'ora dopo El-Melah si presentava al marchese.

“Signore,” gli disse, “io non ho perduto il mio tempo.”

“Che cos'hai da raccontarmi?” chiese il signor di Sartena.

“Che mentre voi vi occupavate della casa, io mi sono occupato del colonnello. Non avete notato la mia assenza?”

“No, El-Melah.”

“Domani durante la cerimonia dell'hid-el-kebir, voi vedrete e forse libererete il colonnello.”

“Possibile!”

“Ho tutto combinato col mio amico, il quale ci manderà un notabile di Tombuctu per condurci nel palazzo del sultano. Voi approfitterete dell'assenza dei kissuri per introdurvi a fare il colpo senza correre troppi pericoli. Questa sera il colonnello sarà avvertito di tenersi pronto e d'attendervi.”

“Dici il vero, El-Melah?” domandò il marchese che non riusciva a frenare la gioia.

“L'uomo è fidato e mi è troppo amico per mentire.”

“E non vi saranno le guardie del sultano?”

“No, perché prenderanno parte alla cerimonia, onde scortare il loro signore.”

“È domani il primo giorno dell'hid-el-kebir?”

“Sì, e qui si festeggia coll'egual pompa di Fez e di Mazagan. Voglio però darvi un consiglio.”

“Quale?”

“Di non condurre con voi la sorella del signor Ben,” disse il furfante. “La presenza d'una donna potrebbe tradirvi.”

“Non avevo già alcuna intenzione di esporla ad un simile pericolo. La lasceremo sotto la guardia di Tasili e dei beduini.”

“Tasili vi può essere utile, signore,” disse El-Melah, a cui non garbava la presenza del moro.

“È vecchio e non potrebbe esserci di molto aiuto,” rispose il marchese. “E poi dei beduini non mi fido.”

“Farete come vorrete signore,” disse il sahariano celando il suo dispetto.

Il giorno seguente, dopo la colazione, Ben, il marchese, Rocco, El-Haggar ed El-Melah, lasciavano la casa per recarsi all'appuntamento. La coraggiosa giovane avrebbe desiderato prendere parte alla pericolosa impresa e trovarsi, in caso d'un combattimento o d'una brutta sorpresa, a fianco del marchese e del fratello.

El-Melah si era messo alla testa del drappello per guidarlo al mercato, dove l'attendeva il messo del capo Tuareg.

Il miserabile non era però tranquillo. Forse un pò di rimorso gli si era infiltrata nell'anima e trovava egli stesso troppo infame ciò che stava per commettere contro coloro che l'avevano salvato dalla morte.

Evitava gli sguardi del marchese, non rispondeva che a monosillabi e procurava di tenersi coperto il viso per non lasciar scorgere il suo pallore e la sua agitazione.

Le vie di Tombuctu, di passo in passo che s'avvicinavano ai quartieri più centrali, diventavano più affollate. Fellata, arabi, Tuareg e negri si precipitavano verso la vasta piazza della grande moschea, per assistere al passaggio del sultano e della sua corte.

Tutti avevano indossato i loro costumi di gala; gli ampi mantelli bianchi o rigati coi cappucci infioccati; i turbanti più o meno di seta trasparente; le tuniche scarlatte trapunte in oro od in argento; le cinture di cuoio zeppe d'armi, di pelle gialla o bruna, e le fasce scintillanti di pagliuzze, di stellette, di lustrini.

Giunto il drappello sulla piazza del mercato, la quale era quasi sgombra, trovandosi lontana dalla grande moschea, un uomo vestito riccamente, con un caic candidissimo a strisce di seta, una casacca adorna di ricami d'oro e gli alti stivali di pelle rossa a punta rialzata, si fece incontro a El-Melah, dicendogli:

“Tu devi essere l'uomo che io aspetto. Ti chiami El-Melah?”

“Sì, sono io,” rispose il sahariano.

“Il tuo amico mi manda da te.”

El-Melah girò un rapido sguardo verso le tettoie e vide subito Amr-el-Bekr seminascosto fra le colonne.

“Il furbo,” pensò.

“Vuoi venire?” chiese il complice del Tuareg.

“Una parola, prima,” disse il marchese, facendosi innanzi. “Scopri il volto onde io ti veda.”

L'arabo, poiché sembrava tale, si levò la fascia che portava sul viso come usano gli abitanti delle regioni meridionali del Sahara e mostrò un volto giovane ancora, colore del pan bigio, con due occhi piccoli, nerissimi, dal lampo vivido.

“Chi sei tu?” chiese il marchese.

“Un notabile di Tombuctu che ha relazioni alla corte del sultano.”

“Conosci tutti gli schiavi che vi sono nel palazzo?”

“Sì.”

“Hai veduto un uomo bianco?”

“Una sola volta, di sera, perché non lascia quasi mai le stanze del sultano.”

“Sai chi è quell'uomo?”

“Un colonnello francese, mi hanno detto,” rispose l'arabo, prontamente.

“E tu affermi che io potrò vederlo?” chiese il signor di Sartena, con commozione.

“E anche salvarlo, se tu vuoi, perché approfitteremo dell'assenza del sultano e dei suoi capitani.”

“Se tu riuscirai io ti darò mille talleri.”

“Accetto,” rispose l'arabo.

“Quando potrò vedere il colonnello?”

“Ora non è il momento; aspettiamo che il sultano e le sue guardie si trovino nella moschea. Intanto potremo assistere ad una parte della cerimonia.”

“Sia,” rispose il marchese.

L'arabo, dopo aver scambiato uno sguardo con El-Melah, si mise alla testa del drappello e prese una viuzza laterale che era quasi deserta.

Dopo aver percorso varie strade, sbucarono in un'ampia piazza, alla cui estremità si ergeva una moschea di vaste dimensioni, cinta da una muraglia altissima e sormontata da quattro minareti esilissimi ed eleganti.

Una folla enorme aveva occupato tutto lo spazio disponibile, non lasciando nel mezzo che uno stretto passaggio destinato al corteo del sultano. Proprio in quel momento, fra un fracasso assordante di noggare, specie di tamburi assai rumorosi, s'avanzava il corteo del sultano. Precedeva un drappello numeroso di kissuri, bellissimi negri, scelti fra le più coraggiose tribù del Niger, tutti di alta statura, con torsi da ercoli, con caic candidissimi che formavano immense pieghe ondeggianti, con giganteschi turbanti a mille colori, casacche verdi ricamate in oro, ampi calzoni rossi e alti stivali muniti di speroni guerniti di punte lunghe parecchi pollici.

Cavalcavano splendidi destrieri di sangue arabo e portavano lunghi fucili a pietra e lance, ed al fianco, appesi ad un grosso cordone di seta, jatagan scintillanti, dalla lama ricurva.

Seguivano i tamburini ed i trombettieri, pure con sfarzosi costumi, poi mulatti con caic di lana bianca e caffettani variopinti, quindi soldati vestiti come i marocchini, colle gambe nude, la tunica scarlatta con maniche ampie e ricamate, la cintura di cuoio ed i tarbus rossi di forma conica.

Dietro veniva il sultano, montato su un magnifico cavallo bianco, riccamente bardato alla turca, con gualdrappa ricamata ed infioccata e staffe corte, fiancheggiato da paggi che reggevano immensi ombrelli verdi o che gli facevano vento con fazzoletti di seta.

Indossava un caic di seta bianca, ed aveva il volto quasi interamente coperto, non lasciando vedere che due occhi nerissimi e mobilissimi. Poi venivano altri soldati, capitani, paggi e ulemi e mollah, specie di sacerdoti, e marabuti in gran numero.

Appena il corteo fu entrato nella moschea, sulla cima della spaziosa gradinata si vide comparire un imano seguito da un montone assai grasso e da un negro mezzo nudo, di statura gigantesca.

“Che cosa sta per succedere?” chiese il signor di Sartena.

“Non avete mai assistito alla cerimonia dell'hid-el-kebir?” chiese Ben.

“No.”

“Sicché ignorate che cosa significa.”

“Assolutamente.”

“È la festa della buona carne.”

“E perché si chiama così?”

“Perché oggi in tutte le case mussulmane si uccide un montone e si mangia la sua carne a crepapelle. È una festa che dura otto giorni.”

“Avrà però qualche significato religioso.”

“Sì, ma è talmente confuso che gli stessi ulemi non saprebbero darvi una spiegazione sufficiente. Sembra però che col hid-el-kebir si voglia ricordare il sacrificio di Abramo e di Isacco... Eh! guardate e state attento a quello che succede. Si sta sgozzando il montone destinato a figurare sulla tavola del sultano.”

L'imano con un rapido colpo di coltello aveva scannato il povero animale e l'aveva gettato sulle spalle dell'erculeo negro.

Subito urla furiose si erano alzate fra la folla e una tempesta di sassi era volata addosso al negro, il quale si era messo a correre a perdifiato senza abbandonare l'animale.

“Perché lo trattano così?” chiese il marchese, stupito.

“Per incitarlo a correre,” rispose Ben Nartico. “Dalle sue gambe può dipendere la rovina della sultania.”

“Che frottole mi raccontate?”

“Sono verità, marchese. Il negro deve portare il montone al palazzo del sultano e giungervi prima che le carni si siano raffreddate, meglio poi se saranno ancora palpitanti.”

“E se arrivasse troppo tardi?”

“Cattivo augurio, sia nel sultano, sia per gli abitanti. Oh, ma non dubitate! Il negro, per non venire lapidato, giungerà in tempo. Andiamo, marchese. Non aspettiamo che il sultano torni al suo palazzo.” L'arabo aveva già fatto segno di mettersi in marcia.

Il drappello si aprì il passo con spinte e pugni e si cacciò in una viuzza laterale che era ingombra solamente d'asini e di cammelli. Avevano appena percorso poche dozzine di passi, quando Rocco, che veniva ultimo, s'accorse che ne mancava uno: El-Melah.

“Signore,” disse, appressandosi al marchese. “Il sahariano si è smarrito fra la folla.”

“Eppure poco fa era presso di me,” rispose il signor di Sartena.

“L'ho veduto anch'io,” disse Ben. “Dove si sarà cacciato costui?”

“Lo ritroveremo di certo presso il palazzo,” disse il marchese. “El-Melah conosce Tombuctu e non si smarrirà.”

Per nulla inquieti dell'assenza del miserabile, non avendo alcun sospetto su di lui, proseguirono la via, ripassando per la piazza del mercato che era stata occupata da alcuni Tuareg, quindi attraversate parecchie altre strade giunsero dinanzi alla kasbah o palazzo del sultano.

Era una costruzione molto elegante di stile moresco, con porticati, cupolette, terrazze, torricelle esilissime e meravigliosamente lavorate e fiancheggiata da due padiglioni ad un solo piano, le cui finestre s'aprivano a due metri dal terreno.

Solamente dinanzi alla entrata principale si vedevano due kissuri in sentinella; tutte le altre erano chiuse e senza guardie.

“Dove si trova il colonnello?” chiese il signor di Sartena, il cui volto era trasfigurato da una estrema ansietà.

L'arabo indicò uno dei due padiglioni che era sormontato da un minareto dove in quel momento stava affacciato, sotto la cupoletta, un marabuto, forse per pregare o per godersi di lassù il panorama di Tombuctu.

“Là,” disse.

“Ma la porta è chiusa,” osservò Ben.

“La finestra è aperta.”

“Entreremo da quella?”

“Sì.”

“Sarà solo, il colonnello?”

“Sì, perché è stato avvertito del vostro arrivo.”

“Andiamo!” esclamò il marchese, slanciandosi innanzi.

La piazza che si estendeva dietro la kasbah era deserta, quindi non correvano pericolo di venire scoperti.

Attraversarono velocemente lo spazio, si assicurarono d'aver tutti la rivoltella ed il pugnale e si radunarono sotto la finestra le cui persiane erano semiaperte.

Il marchese stava per aggrapparsi al davanzale, quando si volse, dicendo:

“El-Melah?”

“Non si vede,” rispose Ben, dopo aver lanciato uno sguardo sotto i palmizi che ombreggiavano la piazza.

“Che sia rimasto presso la moschea? Bah! Faremo senza di lui.” Il marchese, aiutato da Rocco, scavalcò lesto il davanzale, impugnò la rivoltella e balzò nella stanza.

Essendo la persiana mezzo calata, ed avendo egli gli occhi ancora abbagliati dal sole, subito non distinse nulla.

Dopo qualche istante però s'avvide di trovarsi in una bellissima sala col pavimento di mosaico e le pareti coperte da stoffe fiorate.

Tutto all'intorno vi erano divani di marocchino rosso e nel mezzo una fontanella il cui getto manteneva là dentro una deliziosa frescura. In quel frattempo Rocco e Ben erano pure entrati.

“Dov'è il colonnello?” chiese l'ebreo.

“Eccomi,” rispose una voce in lingua francese.

Un uomo di alta statura, avvolto in un ampio caic che lo copriva tutto, e col capo coperto da un turbante che gli nascondeva quasi interamente il volto, era comparso sulla soglia d'una porta nascosta da una tenda.

Il marchese stava per slanciarglisi contro colle braccia aperte, quando al di fuori si udì El-Haggar urlare:

“Tradimento! I kissuri.”

Poi risuonò un colpo di pistola seguito da un urlo di dolore. Contemporaneamente l'uomo che avevano creduto il colonnello si sbarazzava del caic ed impugnando un largo jatagan si scagliava sul marchese urlando:

“Arrendetevi!”

I due isolani e l'ebreo erano rimasti così stupiti da quell'inaspettato cambiamento di scena, che non pensarono subito a fuggire. D'altronde era ormai troppo tardi; al di fuori si udivano già le urla dei kissuri del sultano.

Rocco, preso da un terribile impeto di rabbia, si era scagliato sul preteso colonnello.

“Prendi canaglia!” urlò.

Gli scaricò in pieno petto due palle, gettandolo a terra moribondo, poi spinse il marchese e Ben verso una porticina che s'apriva in un angolo delle pareti.

“Fuggiamo per di là,” disse.

Nel medesimo momento alcuni kissuri armati di pistole e di jatagan irrompevano nella sala mandando urla furiose.

I due isolani e l'ebreo chiusero rapidamente la porta e vedendo dinanzi a se stessi una scaletta, vi si slanciarono, montando i gradini a quattro a quattro.

Quella scala, stretta e tortuosa, metteva sulla cima del minareto che già avevano osservato prima di entrare nel padiglione e che s'innalzava sull'angolo destro della piccola costruzione, dominando la kasbah del sultano e la piazza.

Era una specie di torre, molto sottile, come sono tutti i minareti delle moschee mussulmane, e che a trenta metri dal suolo terminava in una cupoletta rotonda, dove il muezzin del sultano andava a lanciare la preghiera del mattino e della sera.

La scaletta però invece di essere esterna era interna, una vera fortuna pei fuggiaschi, diversamente avrebbero corso il pericolo di venire subito moschettati dai kissuri che avevano invaso la piazza.

Giunti alla cupoletta essi si trovarono dinanzi al marabuto che avevano già veduto affacciato pochi momenti prima.

Il santone, vedendo comparire quei tre uomini armati di pugnali e di rivoltelle, e coi visi sconvolti, cadde in ginocchio, gridando:

“Grazia! Io sono un servo devoto di Allah! Non uccidete un santo uomo!”

“Per le colonne d'Ercole!” esclamò il marchese. “Ecco un uomo che ci darà dei fastidi.”

“Anzi sarà per noi un prezioso ostaggio,” disse Ben.

“Cosa devo fare?” chiese Rocco.

“Legarlo per bene e lasciarlo in pace.”

Il sardo si levò la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e legò strettamente il disgraziato senza che questi, mezzo morto dalla paura, osasse protestare.

Il marchese e Ben si erano intanto affacciati al parapetto della cupola. Più di cinquanta kissuri armati di vecchi fucili a pietra, di lance, di pugnali e di scimitarre, si erano radunati dinanzi al padiglione, urlando e minacciando.

Sotto la finestra giaceva un uomo colla testa fracassata: era l'arabo che aveva guidato il drappello promettendo la liberazione del disgraziato Flatters.

“Che sia stato El-Haggar a ucciderlo?” chiese Ben.

“Non lo so, né mi curo di saperlo, almeno per ora,” rispose il marchese. “Occupiamoci invece di cercare un modo qualsiasi per salvare le nostre teste.”

“Signore,” disse Rocco, “vengono!”

“I kissuri?”

“Sì, marchese, hanno atterrato la porta.”

“E quelli della piazza si preparano a fucilarci,” disse Ben. “Ci hanno veduti.”

“Rocco, prendi il marabuto e minaccia di farlo cadere sulla piazza.”

“Subito, signore.”

L'ercole afferrò il santone, il quale mandava urla da far compassione anche ad una belva, lo sollevò fino al parapetto e poi lo spinse fuori tenendolo sospeso per un braccio, mentre il marchese gridava con voce tuonante:

“Se fate fuoco, lo lasciamo cadere!”

“Attenti alle vostre teste,” aggiunse Rocco. “Il santone precipita e vi assicuro che nemmeno Maometto lo salverà.”