I predoni del Sahara/Capitolo 23 - I Tuareg di Marabuti
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23 - I Tuareg di Marabuti
La carovana rimase due giorni nell'oasi di Eglif, per rimettersi delle fatiche sopportate nella lunga traversata e per completare le provviste d'acqua, essendo scarsi i pozzi nella regione meridionale del Sahara.
Il marchese ed Esther furono anzi tanto fortunati da ingrossare anche le provviste solide, avendo sorpreso uno struzzo ed un'antilope nei dintorni dell'oasi.
Il terzo giorno il marchese diede il segnale della partenza, frettoloso di attraversare la seconda metà del deserto e di giungere a Tombuctu, l'opulenta Regina delle Sabbie.
Una marcia di sette giorni li condusse, senza incidenti notevoli, ai pozzi d'Amul Taf, dove trovarono alcune famiglie sahariane che si dedicavano all'allevamento dei cammelli corridori, mestiere molto lucroso.
Questi allevatori sono abbastanza numerosi nel Sahara meridionale e occupano le oasi più importanti.
Sono tutti ricchi e posseggono numerosi branchi di mehari e anche di cammelli; ma danno la preferenza ai primi, vendendoli a prezzi molto alti sui mercati di Kabra, di Tombuctu e di El-Mabruk.
Per rendere i mehari agili e vigorosi, appena sono nati non li lasciano in libertà, per tema che le loro gambe s'inarchino e si rovinino. Li seppelliscono subito nella sabbia fino al ventre, onde il corpo non graviti, e ve li tengono per tre o quattro settimane, nutrendoli esclusivamente con latte e burro.
Al termine di quell'epoca permettono all'animale di trottare dietro alla madre, poi gli passano un anello al naso e cominciano ad educarlo.
Essendo il mehari molto più intelligente dei cammelli, si affeziona subito al suo padrone e si ammaestra facilmente, al punto che se in un combattimento il padrone rimane ucciso, non lo abbandona. Anzi gli si inginocchia accanto come per invitarlo a montare in sella e non lo lascia se non dopo essersi convinto della sua morte. Non fugge però. Ritorna al duar dell'estinto padrone per mostrare alla famiglia la sella vuota.
Il marchese ed i suoi compagni s'intrattennero un giorno fra quegli allevatori ospitalissimi, ben diversi dai Tuareg, lasciando presso di loro il negro raccolto ad Eglif, essendosi questo rifiutato di accompagnarli a Tombuctu a causa della sua estrema debolezza.
Toccando poi successivamente le piccole oasi di Trasase e di Grames, dopo una lunghissima marcia giunsero a Teneg-El-Hadsk, una delle ultime stazioni del deserto. Solamente poche giornate li dividevano ancora dalla Regina delle Sabbie.
L'influenza del Niger, il fiume gigante dell'Africa occidentale, si faceva sentire. L'aria non era più così secca, né così infuocata e anche fra le sabbie cominciavano ad apparire dei cespuglietti verdi. Si cominciavano poi a vedere delle bande d'uccelli, i quali s'affrettavano subito a fuggire verso il sud.
Qua e là le tracce delle carovane aumentavano. Si vedevano di frequente scheletri di cammelli e d'uomini, basti, casse sventrate, avanzi di fuochi; chissà quanti disgraziati erano morti in vista della Regina delle Sabbie, sulla porta della salvezza, sfiniti dalle privazioni e soprattutto dalla sete.
A Teneg-El-Hadsk erano già giunte due grosse carovane provenienti dalle rive del Niger, una diretta al Marocco con carichi di piume di struzzo e di avorio, l'altra nell'Algeria con gomma arabica e polvere d'oro delle miniere di Kong.
L'occasione era propizia per assumere informazioni circa la sorte toccata al disgraziato colonnello Flatters. Provenendo quelle carovane da Tombuctu, non dovevano ignorare se dei francesi erano stati colà condotti e venduti al sultano.
Con sua profonda meraviglia, il marchese provò invece un'amara delusione.
Flatters! Tutti ne avevano udito parlare, sia marocchini che algerini, ma nessuno aveva udito narrare che i Tuareg l'avessero condotto a Tombuctu.
“Che cosa ne pensate, Ben?” chiese il marchese, dopo aver interrogato tutti i capi delle due carovane, ottenendo sempre la medesima risposta. “Che io sia stato ingannato e che il colonnello sia stato veramente ucciso nel deserto?”
“Non disperiamo, marchese,” rispose l'ebreo. “Forse questi uomini, interamente occupati nei loro traffici, non si sono interessati della sorte toccata al povero colonnello.”
“Eppure io so che il governo dell'Algeria aveva promesso dei premi ai carovanieri che avessero potuto fornire notizie sulla spedizione,” disse il marchese.
“Quando noi saremo a Tombuctu faremo delle ricerche scrupolose, marchese, e sapremo la verità. Se è vero che il colonnello è stato condotto al sultano, qualcuno lo avrà veduto di certo entrare in città coi Tuareg.”
“Che disillusione se invece fosse stato ucciso nel deserto!” esclamò il corso, con amarezza.
“Vi rincrescerebbe aver fatto questo lungo viaggio inutilmente?” chiese Esther, la quale assisteva al colloquio.
“Oh no!” esclamò vivamente il corso, guardandola negli occhi. “No, Esther, ve lo giuro!”
La giovane lo comprese e sorrise, mentre una viva fiamma le animava gli sguardi.
“No, non è possibile,” esclamò poi abbassando gli occhi. “Sarebbe un sogno troppo bello...”
“Esther,” disse il corso con voce grave, “se questo sogno si realizzasse? Se io vi amassi davvero?”
“Voi, marchese, amare una ebrea, una donna che nel Marocco si disprezza?”
“La Corsica e la Francia non sono il Marocco, Esther. Il destino mi ha gettato sulla vostra strada, ho imparato ad apprezzarvi e ad ammirarvi e credo che nessun'altra donna potrebbe diventare, meglio di voi, la compagna della mia vita.”
Aveva appena pronunciato quelle parole quando udì presso di sé una rauca imprecazione.
Si volse vivamente e vide sdraiato presso la tenda El-Melah. La faccia del sahariano era contratta e manifestava una collera terribile.
“Che cosa fate qui?” domandò il marchese, aggrottando la fronte.
“I Tuareg,” rispose il sahariano.
“Quali Tuareg?” chiese il corso.
“Quelli che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti. Stanno entrando ora nell'oasi.”
“Che ci abbiano seguito?” si domandò il marchese, con ira.
“La presenza di quei predoni non mi piace affatto.”
“Che osino assalirci fra tanta gente?” chiese Esther.
“No di certo, perché i marocchini e gli algerini s'unirebbero a noi per respingerli. Qui siamo come fra compatrioti.”
“Che vadano anch'essi a Tombuctu? Che cosa ne dici, El-Melah?” Il sahariano non rispose. Guardava Esther in modo strano, mentre un brutto sorriso gli increspava le labbra.
“Ebbene, non mi hai udito, El-Melah?” chiese il marchese, impazientito. “Che quei Tuareg si dirigano anch'essi a Tombuctu?”
“Ah! Sì, lo suppongo,” rispose il sahariano, quasi distrattamente.
“Con Ben vado ad assicurarmi chi siano. Tu, El-Melah, non lascerai Esther durante la mia assenza e aspetterai il ritorno dei beduini e di El-Haggar, che sono andati ad acquistare dei viveri.”
Il sahariano fece un gesto d'assenso e si sdraiò al suolo, a quattro passi dalla giovane ebrea, la quale si era seduta presso la tenda, all'ombra d'un bellissimo palmizio. Il viso del giovane non si era ancora rasserenato, né i suoi sguardi si erano ancora staccati dall'ebrea. Anzi una fiamma cupa balenava entro quegli occhi nerissimi, mentre la fronte gli si aggrottava sempre più.
“Signora,” disse ad un tratto, risollevandosi. “Che cosa va a cercare a Tombuctu il marchese?”
Esther alzò il capo che teneva appoggiato ad una mano, e guardò con stupore il sahariano.
“Perché mi fai questa domanda, El-Melah?” chiese.
“Io vi ho seguito fin qui senza aver ancora potuto conoscere chiaramente i vostri progetti e prima di entrare in Tombuctu desidererei sapere lo scopo che vi guida. La Regina delle Sabbie è pericolosa per gl'infedeli; voi giuocate la vita.”
“Andiamo a cercare il colonnello Flatters. Credevo che tu lo sapessi, El-Melah.”
Un sorriso beffardo spuntò sulle labbra del sahariano.
“Non valeva certo la pena di venire fino qui a cercare un uomo che forse è morto e che è ben lontano da Tombuctu.”
“Sai qualche cosa tu?” chiese Esther.
Il sahariano crollò il capo, poi disse come parlando fra sé:
“Lasciamolo cercare.”
“Chi?”
“Il francese.”
“Non ti comprendo, El-Melah.”
“Chissà, forse potrà trovare anche qualche cosa d'altro a Tombuctu. Signora, è vero che il marchese vi ama?”
“Sì, El-Melah.”
“E voi?” chiese il sahariano, figgendole in viso uno sguardo acuto come la punta d'uno spillo.
“Ciò non ti può interessare,” rispose Esther, il cui stupore aumentava.
“Desidererei sapere se lo lascereste per un altro uomo che pure vi ama e forse più del marchese.”
“El-Melah,” esclamò la giovane alzandosi. “Il sole del deserto ti ha sconvolto il cervello? Ne avevo il dubbio, ora ne ho la certezza.”
“Sì, deve esser così,” rispose il sahariano, con un accento strano. “Il sole del deserto deve aver guastato il cervello di El-Melah.”
S'alzò girando intorno alla tenda; poi tornò a sdraiarsi, tenendosi il capo stretto fra le mani.
“Quel povero giovane è pazzo,” disse Esther.
In quel momento il marchese tornava con Rocco, El-Haggar e Ben. Tutti e tre parevano assai preoccupati ed inquieti.
“Che cosa avete?” chiese Esther, movendo loro incontro.
“I Tuareg che sono passati per di qua sono gli stessi che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti,” rispose Ben. “Vanno a Tombuctu.”
“Che abbiano qualche progetto su di noi?” chiese Esther.
“Tutto si può attendere da quegli uomini,” disse El-Haggar. “Se essi hanno un sospetto che voi non siete mussulmano, ci possono fare arrestare dalle guardie del sultano e anche uccidere.”
“Eppure non possiamo rimanere qui ora che abbiamo attraversato il deserto. Io non me ne tornerò se non quando avrò la certezza che il colonnello è morto o che si trova prigioniero del sultano.”
“Ed io se prima non avrò raccolto l'eredità di mio padre,” disse Ben.
“E trovato Tasili,” aggiunse Rocco. “Senza quell'uomo non potrete certo riacquistare il tesoro.”
“Ascoltatemi,” disse in quell'istante El-Haggar. “A me, come mussulmano, non è vietata l'entrata in Tombuctu e nessun pericolo può minacciarmi. Volete che io segua quei Tuareg per cercare di scoprire le loro intenzioni e cercare Tasili? Fra tre o quattro giorni io sarò di ritorno e allora agirete.”
“E ti occuperai di sapere se il colonnello è vivo od è stato ucciso?”
“Ve lo prometto, marchese. Conosco parecchie persone a Tombuctu e andrò ad interrogarle.”
“E ne conosco anch'io,” disse El-Melah, alzandosi.
“Vuoi partire con El-Haggar?” chiese il signor di Sartena. “Tu che conosci quei Tuareg puoi sapere, meglio d'ogni altro, che cosa sono venuti a fare a Tombuctu.”
“Se lo desiderate io parto,” rispose il sahariano, con vivacità.
“Vi concederemo una settimana di tempo. Se non vi vedremo ritornare, qualunque cosa debba succedere, noi verremo a Tombuctu,” disse il marchese.
“Siamo d'accordo,” rispose El-Haggar.
I loro preparativi furono lesti. Caricarono sui due mehari dei viveri, s'armarono di fucili e di jatagan e salirono in sella.
“Prima che il sole tramonti noi entreremo nella Regina delle Sabbie,” disse El-Haggar. “Abbiate pazienza e non lasciate questa oasi. In caso di pericolo io o El-Melah torneremo subito e vi rifugerete subito nel deserto.”
“Và e che Dio sia con te,” risposero Ben ed il marchese.
Mentre però s'allontanavano, El-Melah continuava a volgersi indietro ed Esther provava ancora l'impressione di quello strano sguardo che le procurava una specie di malessere che non sapeva spiegarsi.
Quando i due corridori scomparvero in mezzo alle dune, la giovane provò un vero sollievo. “Che uomo strano è quel Melah,” mormorò. “Che sia veramente pazzo?”
Il marchese ed i suoi compagni intanto si erano occupati a prepararsi l'accampamento, onde passare quella lunga attesa nel miglior modo possibile.
Rizzarono le due tende assicurandole con numerose funi e disposero le casse ed i bagagli all'intorno, formando una specie di barriera; poi con sterpi e foglie innalzarono una zeriba destinata a contenere i cammelli e gli altri animali, precauzione indispensabile con tanta gente che occupava l'oasi in attesa del momento opportuno per mettersi in marcia verso il nord.
“Ora armiamoci di pazienza ed aspettiamo,” disse il marchese, quando il campo fu pronto. “El-Haggar ritornerà, ne sono certo, e forse accompagnato da Tasili.”