I predoni del Sahara/Capitolo 22 - L'assalto dei Tuareg

Capitolo 22 - L'assalto dei Tuareg

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Capitolo 22 - L'assalto dei Tuareg
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22 - L'assalto dei Tuareg


Rocco ed Esther, vedendo il marchese e Ben tornare a corsa sfrenata su un solo cavallo, erano accorsi in loro aiuto, temendo che l'animale, oppresso dal doppio peso e dalla stanchezza, si lasciasse raggiungere dai Tuareg.

Il destriero però, oltre ad essere robustissimo, era ancora pieno di vigore, ed essi aggiunsero senza troppi sforzi la carovana, rifugiandosi in mezzo ai cammelli.

“Marchese!” gridò Esther, con voce alterata. “Siete stato ferito?”

“No, quei bricconi non mi hanno toccato, rassicuratevi,” rispose il corso. “Tirano o troppo alto o troppo basso, non sono perciò molto da temersi.”

“Un pò più su e la palla non vi risparmiava, marchese,” disse Ben.

“Padrone,” disse Rocco. “Se ci fermassimo qui e facessimo alcune scariche con tutti i nostri fucili? Siamo in otto, e anche ammesso che i beduini ed El-Melah non siano valenti bersaglieri, si potrebbe infliggere una buona lezione a quei bricconi.”

“L'idea mi sembra buona,” rispose Ben. “Se i banditi ci assaltano mentre siamo in marcia, produrranno un tale disordine fra i nostri cammelli, da metterci a mal partito.”

“Fate inginocchiare gli animali dietro a questa duna,” comandò il marchese, dopo una breve riflessione. “Proviamo ad arrestare quelle canaglie.”

Una montagnola di sabbia somigliante ad un'onda, formata certamente dal simun, si estendeva su una lunghezza di oltre cento metri, con una elevazione di sette od otto.

Era un ottimo bastione, sufficiente ad arrestare i proiettili dei banditi che avevano così poca penetrazione.

Il marchese, dopo aver fatto sdraiare gli animali, fece occupare dai suoi uomini la cresta, raccomandando a tutti di non far fuoco che al suo comando. Non scarseggiavano di munizioni, avendone due casse, tuttavia egli non voleva sprecarle inutilmente, essendo esse troppo preziose nel deserto.

I predoni, credendo che la carovana avesse continuato la sua marcia al di là della duna, s'avvicinarono al galoppo su quattro colonne, offrendo un magnifico bersaglio.

Quando furono a cinquanta passi, il marchese gridò “Fuoco!”

Quattro mehari e tre uomini caddero a destra ed a sinistra, scompigliando le colonne e facendo cadere l'uno sull'altra parecchi altri animali che non avevano avuto il tempo di evitare i banditi.

Parecchi Tuareg, spaventati, si sbandarono urlando e scaricando a casaccio le armi; ma cinque, i più valorosi di certo, proseguirono la corsa, balzando sulla cresta e puntando le lance.

Il marchese, che aveva subito ricaricato l'arma, ne fulminò uno quasi a bruciapelo, mentre Ben ed Esther facevano cadere due altri mehari.

Rocco, vedendo un predone, che era stato scavalcato a pochi passi, gli si scagliò addosso impugnando il fucile per la canna. “Muori cane!” urlò.

Il Tuareg però, agile come una scimmia, si sottrasse al colpo e si gettò addosso al sardo a corpo perduto, impugnando un jatagan dalla lama lucente affilata come un rasoio.

“Guardati, Rocco!” gridò il marchese, il quale, aiutato da El-Haggar e dai beduini, stava azzuffandosi cogli altri, mentre Esther, Ben ed El-Melah facevano fuoco su quelli che si erano dispersi, per impedire loro di radunarsi.

Il sardo lasciò accostarsi il predone, poi con un salto fulmineo abbrancò l'avversario, lo sollevò come se fosse una piuma, facendogli scricchiolare le costole in una stretta formidabile, e lo scagliò alcuni metri lontano, costringendolo a fare un meraviglioso salto mortale.

La caduta fu così impetuosa, che il Tuareg rimase disteso senza moto.

Gli altri, vedendo volteggiare in quel modo il loro compagno, non ne vollero sapere altro. Convinti della superiorità dei loro avversari, si precipitarono giù dalla duna, fuggendo come antilopi e gettando perfino le armi per essere più leggeri.

La rotta era completa.

I predoni fuggivano in tutte le direzioni, frustando i mehari, senza più occuparsi di quelli che erano stati scavalcati e che correvano disperatamente fra le dune per mettersi al coperto dalle palle di Ben, di Esther e di El-Melah.

“Cessate il fuoco!” comandò il marchese. “Se tornano dopo questa seconda lezione, li uccideremo tutti.”

“Spero che non ne avranno più la voglia, signore,” disse El-Haggar. “Tuttavia affrettiamoci a raggiungere Eglif. Nel trambusto i cammelli si sono urtati gli uni gli altri e hanno guastato parecchi otri. Se non siete stanchi, ripartiamo.”

Rocco e Ben s'impadronirono di due mehari che si erano coricati presso gli estinti padroni, come per invitarli a risalire in sella, e la carovana, sicura ormai di non venire più inquietata, si rimise in cammino, ansiosa di frapporre molta distanza fra sé e quegli ostinati predoni.

La notte li sorprese a venti miglia da Eglif. Avevano marciato tutta la giornata, non facendo che due brevissime soste per mangiare un boccone.

Non ritenendosi ancora sicuri, si arrestarono solamente poche ore, ripartendo dopo la mezzanotte, non ostante i lamenti acuti dei cammelli, lamenti che straziavano gli orecchi e che muovevano a compassione.

I due beduini però li fecero subito tacere tappando loro barbaramente le nari con gli stracci, tempestandoli di legnate distribuite senza misericordia e colmandoli di maledizioni interminabili.

I sahariani, cosa strana, mentre hanno mille attenzioni pei mehari, trattano invece i cammelli con una brutalità inaudita.

Mentre ai primi danno quanto hanno di meglio delle loro provviste, perfino del burro e dello zucchero, mentre li tengono puliti e non li caricano mai pesantemente, ai secondi non risparmiano né legnate, né maltrattamenti, né ingiurie.

È però vero che il mehari è più nobile, più affezionato al padrone e che costa dieci volte di più, mentre il diemel è testardo, cattivo e anche vendicativo, tentando sovente di mordere i suoi conduttori.

Alle quattro del mattino, la carovana, che era preceduta da El-Haggar e dal marchese, montati sui due mehari presi ai Tuareg, scopriva alcuni gruppi di palme intristite, colle foglie ingiallite e pendenti.

“Eglif!” esclamò il moro.

“Laggiù deve trovarsi Tasili, il servo di Ben,” disse il marchese.

“Non scorgo alcuna tenda fra quelle palme,” aggiunse il moro.

“Che gli sia toccata qualche disgrazia o che stanco di aspettarci sia partito pel sud?” si chiese il marchese.

“Può essersi spinto verso Amul-Taf,” disse il moro.

“Un'altra oasi?”

“Sì, lontana due giorni di marcia e migliore di questa.”

In quel momento Ben li raggiunse.

“Nell'oasi non si vede alcuna tenda, né alcun cammello,” gli disse il marchese.

“Forse Tasili sarà andato in cerca di selvaggina,” rispose Ben. “Voi sapete che presso i pozzi non manca.”

Alzò il fucile e lo scaricò in direzione delle palme.

La detonazione si propagò fra le dune rumoreggiando e si spense senza eco nei lontani orizzonti, senza ricevere risposta.

“Tasili non si trova più qui,” disse il marchese, dopo alcuni istanti d'attesa.

“Che sia stato sorpreso dai Tuareg e assassinato?” esclamò Ben, impallidendo. “Perdita grave, perché lui solo sa dov'è sepolto il tesoro nascosto da mio padre.”

“Andiamo a vedere,” disse El-Haggar. “Se è stato assalito, troveremo le tracce dei Tuareg.”

Eccitarono i mehari ed il cavallo e si spinsero innanzi, mentre la carovana s'avanzava lentamente attraverso le dune che in quel luogo erano molto alte.

Pochi minuti dopo si trovavano sul margine dell'oasi.

Era molto più piccola di quella di Marabuti ed in via di deperimento a causa della scarsità d'acqua del sottosuolo. Non si componeva che di poche dozzine di palmizi quasi intristiti e di pochi cespugli ormai disseccati. Solamente presso il pozzo, che si trovava nel centro, vegetavano ancora rigogliosamente quattro o cinque datteri, ormai privi di frutta.

Fu precisamente presso quelle piante che Ben ed i suoi compagni trovarono delle tracce che confermavano i loro sospetti sulla sorte toccata al fedele servo.

Al suolo giacevano una tenda tutta strappata, otri sventrati, una lancia da Tuareg spezzata in due, la carcassa d'un asino ormai spoglia delle carni, delle funi e dei bossoli di cartucce vuoti.

Presso il pozzo, che era quasi interrato, si vedevano ancora gli avanzi di un fuoco e sassi anneriti che dovevano aver servito da camino a Tasili ed ai suoi uomini.

“I Tuareg sono venuti qui e hanno portato via il vostro servo,” disse El-Haggar all'ebreo.

“Sì,” disse Ben, con voce strozzata. “Quei maledetti lo hanno assalito.”

“Vedo parecchie tracce qui,” disse El-Haggar. “Seguiamole.” Attraversarono l'oasi e sulle sabbie videro ancora impresse numerose orme di mehari e di cammelli le quali si dirigevano verso il sud. “Che l'abbiano condotto a Tombuctu?” si chiese il moro. “Queste tracce che il simun non ha cancellato si prolungano verso il mezzodì.”

“È già una fortuna.”

“Era accompagnato da una scorta il vostro Tasili?” chiese il marchese.

“Sì, da tre sahariani di Tabelbalet,” rispose Ben.

“Fedeli?”

“Lo credo.”

“I Tuareg usano fare dei prigionieri?”

“Sì,” rispose El-Haggar, “e li vendono come schiavi a Tombuctu.”

L'ebreo intanto era salito su una duna e guardava attentamente verso il sud, riparandosi gli occhi con ambe le mani. Che cosa cercava? Sperava forse di vedere ancora i rapitori del fedele servo di suo padre?

“Cosa osservate, Ben?” chiese il signor di Sartena.

“Mi pare d'aver scorto un uomo scivolare in mezzo alle dune e poi nascondersi.”

“Andiamo a scovarlo, Ben,” disse il marchese, risalendo sul mehari.

I suoi compagni lo imitarono e si slanciarono fra le dune. Percorsi cinquecento passi videro un essere umano, spaventosamente magro, colla pelle nera e incartapecorita, malamente coperto da uno straccio, che fuggiva a rompicollo attraverso le sabbie.

“Ehi! fermati o faccio fuoco.” gridò il marchese in arabo. “Noi non siamo Tuareg.”

Il negro s'arrestò sulla cima d'una duna, sgranando i suoi occhi che parevano di porcellana e alzando le scarne braccia come per implorare grazia.

“Chi sei?” chiese il corso, raggiungendolo.

“Non mi uccidete,” pregò quel disgraziato con voce tremante.

“Noi non facciamo alcun male ai galantuomini. Perché sei fuggito?”

“Vi credevo Tuareg, signore.”

“Sei solo?”

“Solo, signore. Gli altri sono stati portati via dai ladri del deserto.”

“Che sia uno degli uomini di Tasili?” esclamò Ben.

“Tasili!” gridò il negro. “Voi lo avete conosciuto?”

“Siamo qui venuti per cercarlo.”

“Ma allora voi siete le persone che egli aspettava.”

“Tu eri con Tasili?” domandò Ben.

“Sì, signore.”

“È vero che i Tuareg lo hanno fatto schiavo?”

“Sì, e l'hanno condotto al sud per venderlo a Tombuctu, assieme ai due miei compagni.”

“Quando siete stati sorpresi?” chiese il signor di Sartena.

“Tre settimane or sono, verso sera,” rispose il moro. “Io potei fuggire, ma Tasili ed i miei due compagni furono subito atterrati e legati e all'indomani caricati sui cammelli e portati via.

“Essendomi poi di notte avvicinato al campo dei Tuareg, dai loro discorsi appresi che erano diretti a Tombuctu e che contavano di vendere i prigionieri su quel mercato.”

“Povero Tasili!” esclamò Ben, con dolore. “Ah! Ma noi lo ritroveremo.”

“Sì, Ben,” aggiunse il marchese, “e poi vi è necessario. Torniamo nell'oasi e rimettiamo un pò in gambe questo disgraziato che mi pare moribondo.”

“Sono tre settimane che non vivo che di datteri, signore,” rispose il negro. “E anche quelli sono finiti e lo stomaco è vuoto da quattro giorni.”

Quando tornarono all'oasi, la carovana era già giunta ed i beduini avevano rizzato le tende intorno al pozzo.