I pirati della Malesia/Capitolo XXVII - Il naufragio

Capitolo XXVII - Il naufragio

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Capitolo XXVI - La rivolta Capitolo XXVIII - Salvi!

Capitolo XXVII
Il naufragio


La vecchia fregata era stata conquistata, ma a quale prezzo! Dei trecento forzati, centocinquanta erano rimasti sulla tolda orribilmente mutilati dalle scariche di mitraglia dei due pezzi del cassero, ed altri sessanta erano gravemente feriti.

Per di più la nave era ormai ridotta in uno stato così deplorevole, da non poter più servire. L’incendio era stato spento, però in quelle poche ore aveva prodotto dei guasti irreparabili.

La dispensa era stata quasi interamente distrutta, il quadro divorato, il cassero minacciava rovina, i madieri della poppa si erano screpolati ed in alcuni luoghi aperti e come se tutto questo non bastasse, gli alberi di mezzana e di maestra erano caduti.

Anche la prora aveva subito gravi danni a causa dei proiettili che avevano infilato la coperta. Il castello minacciava rovina essendo stati spezzati i puntali di sostegno, l’albero di bompresso aveva perduta la delfiniera e le murate erano state sfondate in vari punti a causa della caduta del maestro e della mezzana.

Lo spettacolo poi che offriva la tolda, sulla quale erano alcuni morti, era orrendo.

Sandokan, udendo le urla dei galeotti che annunciavano il principio di qualche festa rumorosa, si era slanciato in mezzo alla turba che stava per precipitarsi nel frapponte per mettere le mani sui barili di liquori destinati all’equipaggio, impugnando minacciosamente la scure:

— Ai feriti, canaglie!... — urlò.

Il gallese era accorso per prestargli man forte, stringendo una sbarra di ferro, arma più formidabile d’un pezzo d’artiglieria, per quelle braccia possenti. I galeotti risposero con una risata.

— Al diavolo i feriti!... — gridarono gli uni.

— Che muoiano!... — urlarono gli altri.

Poi tutti in coro vociarono:

— ‘’Gin?... Brandy?... Arak?’’... Beviamo camerati!... Viva la galera!... Largo!... Largo!...

La Tigre della Malesia aveva mandato una imprecazione:

— Chi non obbedisce, lo uccido!... — tuonò, sbarrando loro il passo ed alzando la scure.

— All’inferno quel negro!... — gridò un forzato. — Voglio vedere se m’impedirà di vuotare un barile d'arak!...

Un omaccio dallo sguardo obliquo, dai lineamenti angolosi e butterati dal vaiolo e che aveva sulla fronte una larga cicatrice dovuta forse ad un buon colpo di coltello, un vero tipo di malfattore incallito, s’avanzò verso Sandokan bestemmiando e tenendo in pugno uno di quei larghi coltellacci che gli americani chiamano bowìe-knife.

— O spillerò il tuo sangue o mi lascerai spillare l'arak!... — gridò.

— Indietro o t’uccido, — rispose Sandokan, fermando con un gesto il gallese che stava già per alzare la sua sbarra di ferro sul galeotto.

— Eh!... Mio bel selvaggio, non sono già un ragno da accoppare, — disse il galeotto sghignazzando.

— Ben detto, Paddes!... — gridò una voce fessa.

Il forzato si era gettato verso Sandokan, urlando:

— Largo! Voglio bere!...

Non aveva ancora finito, che stramazzava al suolo fulminato.

— Ai feriti!... — ripetè Sandokan con voce minacciosa. — Io vi ho dato la libertà e mi obbedirete!...

Fra i galeotti vi fu un istante di esitazione, ma vedendo l’attitudine risoluta della Tigre e del gallese e vedendo anche accorrere Yanez con Sambigliong e Tanauduriam, armati tutti di fucili, cedettero. D’altronde sapevano che senza il concorso di quegli uomini, i soli che potevano condurli alla costa, difficilmente avrebbero potuto levarsi da quella situazione non troppo allegra, malgrado la vittoria.

— Noi vi obbediremo, capo, — dissero alcuni. — Camerati! Pensiamo a quei poveri diavoli che stanno forse per spirare.

I forzati si dispersero per la tolda, rimuovendo i cumuli di cadaveri ed estraendo i loro compagni che gemevano disperatamente. Quei disgraziati furono portati nel frapponte dove erano state collocate le brande dell’equipaggio e curati alla meglio. Erano una sessantina e quasi tutti ridotti in condizioni così deplorevoli da non poter sperare nella loro guarigione, senza l’assistenza d’un medico.

Ciò fatto, quei furfanti, ai quali doveva essere quasi sconosciuta la parola umanità, si slanciarono in tutte le direzioni per saccheggiare la nave, cercando soprattutto dei liquori e dei viveri. Sandokan ritenne inopportuno intervenire, non ignorando che avrebbe dovuto ricorrere a nuove violenze, col pericolo di venire sopraffatto da quell’orda di canaglie.

D’altronde aveva da occuparsi della nave, la quale cominciava ad andare attraverso alle onde, minacciando di rovesciarsi sui fianchi.

Il mare durante il combattimento era diventato più agitato e minacciava di farsi più cattivo, a causa del vento caldo che soffiava dal sud, aumentando di violenza.

Larghe ondate, colle creste spumeggianti, s’inseguivano e si accavallavano con sordi muggiti, sollevando impetuosamente lo scafo della vecchia fregata ed imprimendogli tali scosse, da compromettere seriamente la sua stabilità e da far temere che anche l’albero di trinchetto, privo dell’appoggio degli altri due, finisse col rovinare.

Qualche lampo balenava verso l’est, mostrando enormi nuvoloni che il vento spingeva, a tutta corsa, verso l’ovest, e di quando in quando il tuono rombava cupamente nelle profondità del cielo.

Sandokan, aiutato dal gallese, da Yanez, dai due pirati e da alcuni volonterosi, aveva spinto in mare l’albero maestro per rialzare un po’ il babordo della fregata, poi aveva fatto imbrigliare le vele di pappafico e del contra pappafico, onde non forzare troppo l’albero, accontentandosi di mantenere spiegata quella di trinchetto e del parrocchetto.

Anche sul bompresso aveva fatto spiegare due fiocchi ed a poppa, con un pennone assicurato nella scassa della mezzana, aveva fatto issare una vela di gabbia per dare alla nave una maggiore stabilità.

— Sperate di condurre la fregata alla costa? — gli chiese il gallese.

— Lo credo, — rispose Sandokan, — avremo da lottare forse, tuttavia noi raggiungeremo egualmente le sponde del Borneo.

— Sapete dove ci troviamo?...

— Di fronte al capo Siriki, suppongo.

— Un approdo pericoloso, mi hanno detto.

— Pieno di scogliere, ma a noi ormai poco importa che la nave si sfasci. Accontentiamoci per ora di toccare la terra! Più tardi vedremo che cosa ci converrà fare.

— E l’equipaggio non ci attenderà per darci addosso?

— Non m’inquieta; siamo ancora troppo numerosi per temerlo.

— Che si sia diretto verso la costa?

— Di questo sono certo. Il mare si fa sempre più cattivo e le scialuppe non hanno buon giuoco quando le onde infuriano. Ah!... Ecco quei furfanti che ritornano. Si ubriachino pure; ci saranno meno d’impaccio.

Urla di gioia s’erano udite nel frapponte. I galeotti avevano certamente scoperta qualche botte di liquore e dei viveri e si preparavano a festeggiare la riacquistata libertà con una festa, che doveva probabilmente terminare in una ubriacatura generale.

— Lasciateli fare, — disse Sandokan vedendo che Sambigliong e Tanauduriam si erano affrettati ad afferrare i fucili. — Seguitemi a poppa e occupiamoci della nave.

— E che cosa conti di fare di tutta questa gente? — chiese Yanez. — Io comincio ad averne abbastanza della loro compagnia.

— Al momento opportuno ce ne sbarazzeremo, — rispose Sandokan. — Non ho alcuna intenzione di condurmeli a Mompracem: preferisco i miei tigrotti.

— Gettiamoli contro James Brooke.

— E credi tu che essi mi obbediranno? Appena a terra ci lasceranno.

— Non saremo certamente noi che ci opporremo, fratello mio!

In quel momento i forzati irrompevano sulla tolda come una banda di dannati. Portavano trionfalmente quattro barili di ‘’gin’’ scovati in fondo alla cala, una botte di vino di Spagna e un ammasso di biscotti, di prosciutti, di salami, di formaggi e di lardo, sfuggiti miracolosamente all’incendio.

Era tutto quanto avevano potuto trovare e si preparavano a consumare ogni cosa, senza preoccuparsi dell’indomani. La dispensa era stata distrutta dal fuoco, divorando molti viveri di bordo necessari per quella lunga navigazione: la prudenza avrebbe insegnato a economizzare le provviste, ma nessuno vi pensava.

In un baleno quei furfanti improvvisarono delle tavole, accesero un gran numero di torce e di lampade che fissarono alle murate e appesero ai cordami e cominciarono a bere e mangiare fra urla, risa, bestemmie, brindisi, senza darsi alcun pensiero delle onde che cominciavano ad assalire brutalmente la vecchia nave, né dell’uragano che si avanzava minaccioso.

Divoravano come lupi a digiuno e attingevano senza posa nei barili già sfondati, alternando bicchieri di ‘’gin’’ a bicchieri di vino, urlando a piena gola, bisticciandosi e ruzzolando talvolta nel sangue che s’era raggrumato lungo le murate, non avendo trovato più sfogo attraverso gli ombrinali.

Yanez, Sandokan, il gallese ed i due tigrotti di Mompracem, radunati a poppa attorno alla barra del timone, assistevano impassibili a quella mostruosa orgia.

Tutta la loro attenzione si concentrava su di una costa che avevano veduta disegnarsi vagamente alla luce dei lampi verso l’est e che ignoravano se appartenesse ad un’isoletta o al Borneo.

L’avevano scorta un solo istante, ma a Sandokan ed a Yanez era bastato per misurare la distanza e rilevarne la direzione.

— Può essere il capo Siriki, — aveva detto il portoghese, — o qualcuna delle isolette che lo coprono verso il settentrione.

— Lo suppongo anch’io, — aveva risposto Sandokan.

— All’alba noi possiamo giungervi; il vento ci spinge verso il nord, ma governeremo in modo da giungere su quella sponda.

— Non sarà facile, Yanez; colle poche vele che possiamo tenere spiegate, il timone agisce male, e per di più l’onda diventa sempre più forte.

— Tanto peggio per quegli ubriaconi.

— Signori, — disse in quel momento il gallese, — il vento aumenta ed il trinchetto dà tali scosse da temere che rovini. Le sartie di babordo sono già atterrate.

— Se cade lo surrogheremo con dei pennoni, — rispose Sandokan. — Andate a prora con Sambigliong e Tanauduriam; io e Yanez ci occuperemo del timone.

— E quei disgraziati che continuano a bere mentre forse stiamo per naufragare?

— Lasciateli fare, John; sarebbe pericoloso opporsi.

— Bel momento se le scialuppe dell’equipaggio tornassero!...

— Non inquietatevi per quelle; forse hanno raggiunto la spiaggia. Ehi, Yanez, governa sempre sotto il vento!...

Mentre i quattro pirati di Mompracem ed il gallese si occupavano di condurre la nave alla costa, i forzati continuavano l’orgia.

Alcuni avevano organizzata una festa da ballo improvvisando un’orchestra diabolica colle pentole e coi tegami del cuoco di bordo e danzavano all’impazzata, urtandosi e atterrandosi.

Altri invece, resi furiosi dall’eccessivo bere, si bisticciavano, si battevano e si minacciavano coi coltelli e colle scuri, imprecando; ed altri ancora non avevano trovato di meglio che improvvisare un tavolo da gioco, per derubarsi a vicenda dei denari che avevano rubato nelle casse dei marinai, nel quadro di poppa, nelle cabine degli ufficiali.

Buon numero però, vinti dall’ebbrezza, russavano già sul tavolato della tolda, lungo le murate, sul castello di prora o sotto il cassero, rotolando in mezzo ai cadaveri, sotto gli sbandamenti della vecchia fregata.

Una nave che fosse passata a breve distanza, si sarebbe certamente guardata dall’avvicinarsi, temendo di aver da fare con una banda di spiriti infernali, sorti dalla profondità del mare, con qualche vecchia carcassa naufragata.

Mentre l’orgia ferveva, la tempesta aumentava. Le onde si succedevano alle onde, incalzandosi con maggior furia e con crescenti muggiti. Giungevano le une dietro alle altre, accavallandosi e urtando rabbiosamente i larghi fianchi della fregata. Il vento non rimaneva indietro e lo si udiva fischiare con maggior rabbia attraverso il sartiame e fra le vele del trinchetto, minacciando di far rovinare l’albero.

Verso il sud lampeggiava sempre ed il tuono rombava sordamente. Sandokan s’era messo alla ribolla del timone assieme a Yanez, mentre il gallese, Tanauduriam e Sambigliong manovravano la velatura.

Quale fantastico aspetto doveva offrire quella grande nave quasi totalmente disalberata, in balìa delle onde, tutta illuminata da quelle fiaccole e da quelle lampade e montata da quell’orda di ebbri che pareva deridessero l’ira del mare e del cielo, e le cui urla si confondevano coi muggiti minacciosi delle onde insidianti l’enorme preda!... Ad un tratto però le urla, le imprecazioni, i canti cessarono bruscamente. Un’ondata, più alta delle altre, aveva sorpassato la murata di babordo e si era spezzata sulla tolda, rovesciando le tavole e gli uomini e spegnendo le fiaccole e le lampade.

Solo in quel momento quegli ebbri s’accorsero del pericolo che correva la fregata. Alle urla di gioia ed agli schiamazzi era seguito un immenso grido di terrore.

Quelli che ancora si reggevano sulle gambe, si erano alzati, guardando con spavento le onde che balzavano fino alle murate, muggendo paurosamente.

Tutti gli sguardi si erano fissati ansiosamente sulla Tigre della Malesia, la cui figura giganteggiava sul cassero, alla luce di due fiaccole. Il formidabile uomo sfidava serenamente l’uragano e guidava intrepidamente la vecchia nave, senza che un muscolo del suo volto fosse alterato.

I suoi occhi non si staccavano dalla bussola e le sue mani non abbandonavano la ribolla, nonostante i violenti rullii dello scafo.

Yanez, seduto presso di lui, su di un mastello rovesciato, guardava tranquillamente le onde che lambivano le murate.

Un grido immenso s’alzò fra i forzati, diventati tutto d’un colpo pazzi di terrore.

— Salvateci!...

Sandokan non rispose. Aveva alzato gli sguardi e li teneva fissi verso l’est, dove alla luce d’un lampo aveva veduto il mare rompersi con estrema violenza. Un galeotto si slanciò sul cassero, gridandogli:

— Salvateci, signore!...

Sandokan lo guardò di traverso, dicendogli:

— Va a bere! Il tuo posto non è qui...

— La nave sta per affondare, signore.

— Ed i pescicani nuotano intorno a noi, — disse Yanez, ridendo beffardamente.

— Hanno fame.

— Noi non vogliamo morire! — gridò il forzato, impallidendo.

— Ebbene, prendi la ribolla e guida tu la nave, — rispose Sandokan.

— Ma... Signore!

— Vattene al diavolo! — urlò Sandokan, furioso.

— Sì, va a digerire il tuo gin, — aggiunse Yanez.

Il galeotto credette opportuno non insistere e fece ritorno fra i compagni dicendo:

— Camerati, prepariamoci al grande tuffo.

— Se si deve andare, beviamo finché scoppiamo! — gridò una voce.

— Ben detto, Burthon!

— Così i pescicani si ubriacheranno quando verranno a mangiarci! — urlò un altro.

Uno scoppio di risa accolse quest’atroce scherzo.

— Sì, beviamo ancora! — urlarono tutti.

Stavano per riprendere l’orgia, quando una seconda, poi una terza, quindi una quarta onda si rovesciarono sulla nave, spazzando la coperta da bordo a bordo.

— Tenetevi fermi! — aveva gridato Sandokan.

La fregata ondeggiava spaventosamente, come se fosse stata presa da un immenso vortice. Ora la sua prora si alzava come se dovesse, col bompresso, sfondare le nubi; ora invece era la poppa che sorgeva bruscamente dalle onde e che poi ricadeva con un cupo rimbombo, che si ripercuoteva nelle profondità della stiva.

I forzati, travolti dalle onde che invadevano incessantemente la coperta, ruzzolavano in tutte le direzioni, urtandosi confusamente gli uni cogli altri, mentre i morti, trascinati da quel torrente impetuoso che si precipitava, a seconda del beccheggio, verso poppa e verso prora, rotolavano, trabalzavano.

Alcuni, sollevati fino alle murate o trascinati verso le spaccature prodotte dalla caduta dell’albero maestro, erano già stati portati fuori dai bordi.

Il mare rigonfiava, si contorceva, muggiva, lanciava ondate spaventevoli in tutte le direzioni.

Yanez si era alzato dicendo:

— Che cosa succede, Sandokan?

— Siamo in mezzo agli scogli, — aveva risposto la Tigre della Malesia, con voce tranquilla.

— Ci fracasseremo.

— Lo temo, fratello; il timone non governa più!

Il gallese, Tanauduriam e Sambigliong li avevano allora raggiunti.

— Signore, — disse il marinaio. — Siamo in mezzo agli scogli.

— Lo so, — rispose Sandokan.

— Ed il trinchetto, sta per rovinare.

— Lascialo cadere, John.

— Ma la costa è lontana, signore.

— Non può distare più di venti miglia, John; l’ho scorta ora alla luce d’un lampo.

— E come la raggiungeremo se la nave si sfascia fra questi scogli? Non vi è che il piccolo canotto a bordo, appena sufficiente per tre o quattro persone.

— Basterebbe per noi, — disse Yanez.

— E questi poveri diavoli? No, non dobbiamo abbandonarli, — disse Sandokan. — Ci hanno aiutato a liberarci, e noi cercheremo a nostra volta di aiutarli.

— Quegli ubriaconi! Meriterebbero un bel tuffo in fondo al mare.

— Senza di loro noi saremmo in viaggio per Norfolk.

— Questo è vero.

— Cerchiamo dunque di non mostrarci ingrati. Ah!

La vecchia nave, sollevata dalle onde che si frangevano furiosamente in mezzo alle scogliere, aveva provato una scossa così violenta, da credere che la chiglia avesse toccato qualche basso fondo.

Yanez ed il gallese si erano slanciati a prora, dove Sambigliong e Tanauduriam, aiutati da alcuni forzati meno ebbri degli altri, stavano spiegando la trinchettina ed un contro fiocco per cercare di far virare la nave.

A duecento passi dalla nave si scorgevano confusamente delle alte scogliere, disposte su una doppia linea, e più lontano altre, ma di dimensioni più gigantesche, apparivano, formando come un piccolo arcipelago d’isolotti.

Il mare, trovandosi dinanzi quegli ostacoli, infuriava tremendamente. Montagne d’acqua si precipitavano, con impeto irresistibile, contro quell’arcipelago e rimbalzavano con muggiti assordanti, spaventevoli, producendo quei pericolosi flutti di fondo così temuti dai naviganti.

La nave, spinta dal vento, nonostante gli sforzi di Sandokan e dei suoi compagni, veniva trascinata verso quelle scogliere. Aveva ormai imboccato quella specie di canale aperto fra quel caos d’isolotti, senza toccare fino allora, ma non doveva andare molto lontana.

I forzati, consci finalmente del grave pericolo che correvano, avevan perduto la loro spavalderia, dinanzi alla morte imminente, e cominciavano ad aver paura.

Quelli che ancora si reggevano sulle gambe si erano affrettati a mettersi a disposizione di Yanez e del gallese. Gli altri invece urlavano come se già avessero l’acqua alla gola ed imploravano soccorso. Più nessuno pensava a vuotare i barili, che correvano all’impazzata per la coperta.

Ad un tratto, in mezzo ai muggiti delle onde, ai fischi stridenti del vento ed alle urla di terrore di tutti quegli uomini, si udì echeggiare la tuonante voce di Sandokan.

— Badate! — aveva gridato. — Stiamo per fracassarci!...

La fregata spinta dalle onde correva fra le scogliere, rollando e beccheggiando. I marosi urlavano sui suoi fianchi e superando le murate, già sgangherate e mezze divelte, irrompevano in coperta tutto atterrando sul loro passaggio.

D’improvviso si udì un rombo spaventevole e la nave scricchiolò dalla chiglia alla cima del trinchetto. L’albero, già malfermo, rovinò in coperta con orribile fracasso.

Poi avvenne un secondo urto più tremendo del primo, che si ripercosse cupamente nella stiva, e la povera nave, sventrata di colpo dalle punte rocciose che le erano entrate nella carena, si rovesciò sul tribordo appoggiandosi contro una roccia, mentre una grande ondata spazzava la coperta, sfracellando contro le murate venti o trenta uomini.

In mezzo alle urla di spavento dei poveri diavoli che venivano travolti dalle onde, si udì la voce della Tigre gridare ancora:

— Badate! La nave si è spaccata!