I pirati della Malesia/Capitolo XXVI - La rivolta

Capitolo XXVI - La rivolta

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Capitolo XXV - La nave dei forzati Capitolo XXVII - Il naufragio

Capitolo XXVI
La rivolta


Mentre nel frapponte i forzati preparavano la tremenda ribellione che tutto doveva abbattere, la vecchia fregata navigava tranquillamente nella spaziosa baia di Sarawack, dirigendosi verso il nord-est.

Spinta da una fresca brezza, che si manteneva abbastanza favorevole, soffiando regolarmente da terra, aveva già quasi compiuto la traversata di quel piccolo mare, avvistando la foce del Palo, poi s’era lanciata verso il nord per doppiare il capo Siriki e seguire le coste del sultanato di Borneo.

Quella rotta avrebbe potuto sembrare strana, allungando considerevolmente il percorso invece di diminuirlo, ma lo scopo di quella corsa verso le coste settentrionali del Borneo era giustificato. Essendo quella nave destinata a raccogliere tutti i forzati delle colonie indo-malesi soggette all’Inghilterra, doveva fare una punta anche a Labuan, per imbarcare anche colà di quei tristi ospiti destinati all’isola di Norfolk.

Se Sandokan e Yanez avessero potuto indovinare la vera rotta della fregata, avendo la probabilità di accostarsi alla loro isola, si sarebbero forse ben guardati dallo scatenare la ribellione così presto. Ignorando, e temendo anzi che la nave dopo il capo Siriki prendesse definitivamente il largo, decisero invece di precipitare gli eventi. Avendo appreso che già il Palo era stato oltrepassato e che anche la piccola cittadella di Reding era stata lasciata a poppa, risolsero di tentare senz’altro l’audace colpo di mano che doveva renderli padroni della nave.

La rivolta era stata ormai abilmente e segretamente organizzata. I trecento forzati, nessuno eccettuato, non avevano sollevato alcuna obbiezione agli arditi disegni dei due capi della pirateria e si erano dichiarati pronti ad impegnare la lotta suprema, che avrebbe reso loro la libertà.

Norfolk godeva troppo triste fama per non spingerli a tentare la lotta. Nessuno ignorava le torture fisiche e morali che li avrebbero attesi in quell’isola perduta fra le onde del Grand’Oceano, in mezzo alla schiuma dei forzati dell’Australia.

John Fulton, che esercitava realmente su quei trecento miserabili una grande influenza, dovuta alla sua statura gigantesca ed alla sua forza prodigiosa, aveva d’altronde minacciato di accoppare con un pugno chiunque non avesse preso parte al complotto o chi avesse osato svelare la congiura.

Quattro giorni dopo l’imbarco dei quattro pirati di Mompracem, tutto era ormai organizzato. I trecento furfanti, divisi in sei bande, avevano già nominato i loro capi, scelti fra gli uomini più vigorosi e noti per la loro indole risoluta e sanguinaria, e si erano già destinati i posti che dovevano invadere al primo segnale della ribellione, per dividere l’equipaggio e più facilmente opprimerlo.

— Sarà per questa notte, — aveva detto Sandokan al gallese che lo interrogava. — Avvertite tutti di tenersi pronti, poi vi darò le ultime istruzioni appena suonato il silenzio.

Il gigante aveva fatto passare la parola ai vicini perché la trasmettessero a tutti gli altri, poi quando la tromba di bordo comandò il silenzio, si sdraiò sul tavolato in modo però che la sua testa toccasse quella di Sandokan e di Yanez.

I trecento forzati s’erano pure coricati presso i loro anelli, ai quali stavano attaccate le catene, e fingevano di russare; di tratto in tratto però delle teste si alzavano lentamente ed i loro occhi si fissavano ansiosamente sul gruppo formato da Sandokan, da Yanez e dal gallese.

— Ascoltatemi, — disse la Tigre al gigante che fingeva di russare. — Voi siete capace di rompere le catene dei vostri compagni, è vero?

— Sarà un semplice giuoco per me.

— Cominciate dalla vostra intanto, poi spezzate quella di quel giovanotto magro che vi dorme accanto.

— Lo volete?

— Lo esigo, poiché quel giovanotto mi è necessario. Avete avvertito gli altri di tenersi pronti alle nostre grida?

— Sì, signore: appena udranno echeggiare nel frapponte il grido: «al fuoco!...» saranno tutti in piedi, pronti ad agire.

— Rompete le catene.

Il gallese piegò le gambe, poi passando ambo le mani sotto il ventre, onde non farsi scorgere dalla sentinella che vegliava all’estremità del frapponte, con un colpo secco spezzò gli anelli della catena.

— E’ fatto, — disse, conservando la sua posa.

— Il compagno, ora.

John Fulton guardò prima la sentinella. Attese che volgesse le spalle, poi curvandosi rapidamente sul giovanotto che gli stava a fianco, gli ruppe la catena, dicendogli poi: — Avvicinati al capo.

Il giovane forzato non s’era mosso. Guardava cogli occhi socchiusi la sentinella che risaliva la corsia del frapponte; appena però lo vide ritornare verso la prora, strisciò silenziosamente verso Sandokan.

— Mi ascolti? — gli chiese la Tigre.

— Sì, capo, — rispose il giovanotto.

— Ho bisogno di te.

— Sono pronto a tutto.

— Il tuo corpo può passare pel pertugio che comunica colla dispensa del cuciniere? Essa si trova sotto il quadro.

Il forzato alzò la testa ed i suoi sguardi, che somigliavano a quelli d’un gatto, si fissarono su di una stretta apertura destinata a dare aria alla dispensa del cuciniere.

— Con un po’ di fatica, passerò, — disse poi.

— Hai un acciarino?

— No.

— Fortunatamente Yanez possiede tutto il necessario.

Frugò nelle tasche del portoghese, il quale fingeva pure di dormire, vi prese un acciarino ed un pezzo di esca e diede tutto al giovanotto.

— Che cosa devo fare? — chiese questi, sorpreso.

— Una cosa semplicissima, — rispose Sandokan, — incendiare la dispensa.

— Dite? — chiese il forzato che credeva di aver udito male.

— Dar fuoco alla nave.

— Ma bruceremo anche noi, capo.

— Non occuparti di ciò, per ora: obbedisci e null’altro.

— Non discuto, però vi è la sentinella.

— Aspetta che ti volga le spalle ed agisci subito.

— Sta bene.

Il furfante stette immobile, tenendo però sempre gli sguardi sul marinaio che passeggiava all’estremità del frapponte, col fucile in ispalla.

Attese che girasse sui talloni, poi, strisciando come un serpente, attraversò lo spazio che lo divideva dal pertugio. Per alcuni istanti fu veduto contrarsi come se facesse degli sforzi disperati, poi scomparire sotto il quadro.

— È riuscito? — chiese Yanez con voce soffocata.

— Sì, — risposero Sandokan ed il gallese.

Passarono alcuni minuti in angosciosa aspettativa. Il marinaio era tornato fino a metà del frapponte; ma pareva che non si fosse accorto della mancanza del giovanotto, formando, quei trecento corpi, quasi una massa sola.

Nel momento che riprendeva le mosse, il forzato apparve alla bocca del pertugio. Scivolò fuori con celerità incredibile e raggiunse il gruppo formato dai quattro pirati e dal gallese, mormorando con tono giulivo:

— È fatto.

— Avvampa il fuoco? — chiese Sandokan.

— Ho acceso due casse di lardo ed ho sfondato un barile di petrolio.

Aveva appena pronunciato quelle parole che un’ondata di fumo nero e pesante irruppe dal pertugio, distendendosi pel frapponte.

Fra i forzati stesi al suolo e tutti vigilanti, si manifestò un leggero movimento accompagnato da un cupo cigolìo di catene.

La sentinella, sospettando qualche cosa d’insolito, si era bruscamente voltata. Una lingua di fuoco era comparsa allora attraverso il pertugio, allungandosi smisuratamente verso il soffitto ed illuminando vivamente il frapponte.

Un urlo era sfuggito dalle labbra del marinaio.

— Al fuoco!

Quasi subito la voce tuonante della Tigre della Malesia echeggiò come un colpo di cannone:

— In piedi!... Al fuoco!... Al fuoco!...

A quel secondo grido aveva risposto un immenso urlo rauco, selvaggio, a cui aveva tenuto dietro un rombo assordante di catene.

I forzati erano balzati in piedi come un solo uomo pronti ad impegnare la lotta suprema. I loro volti avevano assunta un’espressione di ferocia spaventevole: le tigri, fino allora tremanti sotto i colpi del gatto a nove code, si risvegliavano, lasciando libero corso alle passioni sanguinarie.

Vedendo le fiamme avvampare a poppa della nave, avevano già cominciato a torcere le catene per spezzarle, urlando ed imprecando.

Al grido d’allarme della sentinella, gli uomini di guardia della coperta si erano precipitati nel frapponte. Erano una ventina, alcuni armati di scuri, qualcuno di fucile, ma i più inermi.

Vedendo i forzati in piedi, si erano affrettati ad indietreggiare, credendo che si trattasse d’una rivolta. Scorgendo però le fiamme irrompere sotto il quadro, non esitarono più e si slanciarono verso poppa passando addosso ai forzati che giacevano ancora al suolo.

Era quello il momento atteso da Sandokan.

— Addosso a costoro! — aveva urlato.

Poi si era scagliato innanzi seguito dal gallese, da Yanez, da Sambigliong, da Tanauduriam e dal giovanotto.

La sentinella, che si trovava a metà del frapponte, vedendo rovinarsi addosso quei cinque uomini, aveva puntato risolutamente il fucile.

Il colpo partì ed il giovane magro che in quel momento si era gettato dinanzi al gallese, impugnando un pesante pezzo di legno, cadde col cranio fracassato.

Sandokan con un balzo da tigre era piombato sul marinaio afferrandogli l’arma e il gallese alzava il suo formidabile pugno, una vera mazza da fucina.

Il marinaio, colpito al capo, si accasciò su se stesso sotto il colpo, poi stramazzò al suolo.

Intanto i trecento forzati avevano afferrati, quasi al volo, gli uomini di guardia che balzavano sopra quella distesa di corpi umani senza curarsi dove mettevano i piedi.

— Al soccorso!...

Un urlo che si ripercosse nel frapponte e nelle profondità della stiva, salutò quella prima vittoria.

Mentre le fiamme, da nessuno domate, avvampavano con crescente furia, trovando un facile alimento fra le materie grasse delle dispense, i lardi, gli olii ed i barili di petrolio già scoppiati, i forzati colle scuri strappate agli uomini di guardia, spezzavano rapidamente le catene.

Non erano trascorsi venti secondi che già duecento uomini si trovavano in piedi, liberi dalle infami catene che per tanti mesi avevano strette le loro gambe. Pochi Istanti ancora ed anche gli altri dovevano trovarsi pronti alla lotta.

Le armi erano scarse, non possedendo che il fucile della sentinella, una diecina di daghe, alcune scuri e una mezza dozzina di pistole, ma il numero doveva supplire.

Sandokan, Yanez, il gallese ed i due malesi, il primo armato d’una scure, il secondo del fucile della sentinella, e gli altri di daghe, si erano messi alla testa della colonna dei forzati liberi dalle catene, per slanciarsi in coperta.

— Avanti! — aveva urlato Sandokan.

Stavano per avventarsi verso la scala di prora, mentre altri cercavano di sfondare, a colpi di scure, la grata di ferro del boccaporto centrale, quando alcune scariche terribili echeggiarono all’estremità del frapponte.

Quaranta marinai, armati di fucili e di scuri e guidati dal capitano della nave e da uno dei suoi ufficiali avevano fatto irruzione nel frapponte, aprendo immediatamente il fuoco.

Urla di furore e di morte, accolsero la loro comparsa. Alcuni forzati, colpiti dal piombo, caddero, insanguinando le tavole del salone, ma gli altri si scagliarono come una fiamma irresistibile trascinati dalla Tigre della Malesia, la cui voce echeggiava senza posa urlando:

— Avanti! La nostra salvezza sta sul ponte!

Ad un tratto, urla di terrore rimbombano dietro alle colonne d’assalto, poi si odono degli spari. Sandokan, Yanez, ed il gallese, credendo di venire assaliti alle spalle, si arrestano e guardano verso il quadro.

Quelle scariche non partivano dagli alloggi degli ufficiali, bensì dalla grata di ferro del boccaporto centrale. Alcuni marinai dalla coperta fucilavano i disgraziati che tentavano, a colpi di scure, di spezzare le sbarre per irrompere sulla tolda anche da quella parte.

— Morte e sangue! — urlò la Tigre, — se non sbaragliamo gli uomini che ci stanno di fronte, siamo perduti.

Realmente la situazione dei forzati stava per diventare disperata. Moschettati dinanzi e disopra, col fuoco alle spalle che avvampava spaventosamente guadagnando già il quadro degli ufficiali e le pareti del frapponte, ed il fumo che diventava sempre più denso non trovando sfoghi sufficienti, correvano il pericolo di morire tutti o sotto le palle, o arrostiti vivi o soffocati.

Fortunatamente tutte le catene erano state allora spezzate e un’altra massa d’uomini si era precipitata in soccorso della prima colonna.

— All’assalto!... — tuona la Tigre della Malesia.

Quei torrenti umani, resi feroci dalle crudeli perdite subite e dal fumo che li investe da ogni parte, si scagliano con impeto irresistibile.

Nessuno può ormai frenare quei trecento uomini pazzi di rabbia e anelanti alla libertà: sono eguali e forse anche più tremendi dei tigrotti di Mompracem.

In due colonne urtano i quaranta marinai che si sono raggruppati all’estremità del frapponte.

Le scariche si succedono alle scariche e fanno dei grandi vuoti fra gli assalitori, per la maggior parte inermi.

Che cosa importa se molti rimangono distesi al suolo, nuotanti nel sangue? Gli altri piombano sui marinai ed impegnano, in mezzo al fumo ed alle scintille che ingombrano il frapponte e che li minacciano alle spalle, una lotta disperata. Combattono a colpi di pugno, d’unghie, a calci, a morsi, incoraggiandosi con urla feroci.

La scure di Sandokan ed il braccio del gallese hanno già aperto un varco nella massa dell’equipaggio.

— Avanti!... Ancora uno sforzo! — urla la Tigre della Malesia.

L’assalto è così impetuoso, così irresistibile, che i quaranta marinai vengono travolti. Cercano di raggrupparsi alla base della scala e di respingere quella marea umana a colpi di baionetta, ma le armi vengono strappate loro di mano da centinaia di braccia, e sono costretti a rimontare precipitosamente la scala, lasciando parecchi camerati al suolo, gravemente feriti.

Sandokan, vedendo il passo libero, si slancia sulla gradinata. Anche il gallese ha potuto impadronirsi d’una scure e lo segue, agitando quella formidabile arma, mentre Yanez, Sambigliong e Tanauduriam, tutti tre armati di fucile, bruciano le loro cariche per allontanare i marinai che si trovano sopra la grata di ferro del boccaporto centrale.

I forzati, ormai scatenati e ormai certi della vittoria, s’affollano dietro ai loro capi ed irrompono sulla coperta della fregata, urlando.

L’oscurità è completa sulla nave, giacché sono stati spenti i fanali di prora ed anche quello di poppa. Per di più il cielo è coperto da fitte masse di vapori, le quali impediscono alla luce degli astri di specchiarsi in mare e di spandere un po’ di chiarore.

Il tempo è minaccioso. Un vento caldissimo fischia attraverso il sartiame della vecchia nave e la infinità di corde delle manovre correnti, mentre il mare mugge sordamente e le onde percuotono, con fragore, la carena.

I forzati si sono fermati. I loro occhi, ancora abbagliati dalle fiamme che divorano il quadro, non distinguono più nulla.

Sandokan, Yanez ed il gallese, che si sono riuniti, si slanciano innanzi, ma non incontrano alcuna resistenza. L’equipaggio sembra scomparso.

— Dove sono fuggiti costoro? — si chiede Sandokan inquieto.

— Guarda a poppa! — grida in quel momento Yanez.

Delle forme umane cominciano a delinearsi confusamente attraverso il fumo che irrompe dalla grata di ferro del boccaporto centrale. Sì, i marinai della fregata si sono radunati là sul cassero, dietro ai due pezzi d’artiglieria, per tenere il timone e per poter meglio dominare la coperta.

Sembra che non abbiano però pensato al pericolo che li minaccia sotto i piedi. Il quadro deve ormai ardere sotto di loro ed i puntelli possono, da un istante all’altro, cedere e travolgerli tutti fra le fiamme che sibilano nella dispensa.

— Avanti! — grida Sandokan. — Essi sono là in faccia a noi.

Sta per scagliarsi, quando Yanez bruscamente lo fa cadere sulla tolda.

Un istante dopo due lingue di fuoco, si sprigionano a destra ed a manca del cassero, illuminando la notte ed una grandine di mitraglia spazza la coperta da poppa a prua.

Urla terribili fanno eco alle detonazioni dei due pezzi di artiglieria.

Degli uomini balzano indietro ed innanzi mandando gemiti e rantoli, poi cadono atrocemente mutilati.

Sandokan si è rialzato colla scure in pugno.

— Grazie, Yanez, — dice. Poi la sua voce tuona:

— All’assalto!...

I forzati non esitano, comprendendo che se tardano pochi istanti la mitraglia farà strage di tutti loro e si rovesciano innanzi, risoluti ad espugnare anche l’ultimo rifugio dell’equipaggio. Ad un tratto il loro slancio viene arrestato da un ostacolo imprevisto. Una gigantesca lìngua di fuoco irrompe attraverso la grata del boccaporto centrale e si espande per la coperta. La grande vela dell’albero maestro e quella della gabbia che erano rimaste spiegate s’incendiano formando una fiammata mostruosa. La tela cade a brandelli, bruciando i volti ed i capelli dei forzati della prima linea.

— Indietro! — grida Sandokan.

Nel medesimo istante i due pezzi del cassero tuonano con fracasso orrendo, facendo tremare la vecchia fregata ed un altro turbine di mitraglia attraversa la cortina di fuoco e massacra le prime falangi degli assalitori.

I fucili dell’equipaggio raggruppati a poppa fanno eco alle due cannonate e le palle sibilano in tutte le direzioni, aumentando la strage.

I forzati mandano urla di belve feroci, agitano pazzamente le armi, ma si vedono impotenti contro quel nemico che è difeso anche dal fuoco che continua a irrompere dal boccaporto, formando una barriera insuperabile.

— In ritirata! — tuona la Tigre della Malesia.

Gli assalitori si ripiegano confusamente verso prora, lasciando la coperta seminata di morti e di moribondi. Si affollano sul castello, mentre quelli che hanno la fortuna di possedere un fucile si celano dietro l’albero di trinchetto e dietro l’argano tentando di rispondere, alla meglio, alla grandine di palle che l’equipaggio manda senza misericordia.

La distanza non basta a salvare quell’ammasso di persone che si pigia alla estremità della nave. Il piombo nemico trova buon giuoco fra quei corpi riuniti ed i morti ed i feriti si accumulano dovunque.

Sandokan, Yanez e il gallese, riparati dietro l’argano, si consigliano rapidamente sul da farsi.

La situazione di quei duecento uomini, — non erano ormai di più avendo subite perdite crudeli, — sta per diventare disperata. L’equipaggio tiene ormai un posto inespugnabile e la nave sta per bruciare interamente.

— Che cosa facciamo? — domanda il gallese.

— Bisogna resistere a qualsiasi costo, — rispose Sandokan.

— La nave arde rapidamente, — disse Yanez.

— Mettiti alla testa di cento uomini e tenta di arrestare i progressi dell’incendio. Vi sono due pompe qui e nella camera dell’equipaggio i mastelli e le secchie non devono mancare.

— Le pompe sono esposte al fuoco dell’equipaggio, Sandokan.

— Farai portare in coperta delle botti, del legname, degli ostacoli infine che possano servire per formare una barricata.

— E noi? — chiese il gallese.

— Appena domato il fuoco, ritenteremo l’attacco.

— Non abbiamo che una ventina di fucili, signore.

— Il numero supplirà alla deficienza delle armi. D’altronde credo che l’equipaggio non resisterà a lungo.

— E perché, signore?

— Il fuoco ha ormai invaso il quadro e se i marinai si ostineranno a rimanere sul cassero, finiranno col precipitare nella fornace che arde sotto i loro piedi. Orsù, innalziamo una barricata.

Mentre Yanez, alla testa di cento uomini muniti di secchi e di mastelli, affrontava coraggiosamente il fumo e le fiamme del frapponte, per domare l’incendio che ormai minacciava di distruggere l’intera nave, Sandokan ed il gallese, aiutati dagli altri, gettavano una barricata fra l’albero di trinchetto e quello maestro.

Questa impresa non era però facile, poiché i due pezzi di artiglieria di quando in quando spazzavano la coperta e dall’albero maestro, già tutto in preda alle fiamme, cadevano corde e pezzi di tela infiammata e pezzi di coffa e di crocette.

Anche la moschetteria dell’equipaggio causava perdite considerevoli. I cadaveri ormai non si contavano più; vi erano gruppi di morti nei luoghi più esposti al tiro delle artiglierie.

Malgrado i tiri incessanti dei difensori ed il fuoco, i forzati, incoraggiati da Sandokan e dal gallese, riuscirono ad innalzare la barricata, accumulando pennoni, travi, botti, brande, casse, catene ed ancore.

Una ventina di uomini, quelli che avevano avuto la fortuna d’impadronirsi dei fucili, subito la occuparono ed aprirono il fuoco contro il cassero. Quelle scariche non dovevano però ottenere grandi effetti, poiché la cortina di fuoco ed i turbini di fumo irrompenti dal boccaporto impedivano di distinguere i marinai che si trovavano raccolti a poppa.

Per di più il crescente rollìo della nave, rendeva assai malagevole la mira. Durante la lotta, il mare s’era fatto cattivo e grosse ondate venivano ad infrangersi contro i larghi fianchi della fregata, spostando bruscamente lo scafo.

Anche il vento era aumentato. Raffiche impetuose si rovesciavano sull’alberatura, fischiando fra i cordami e scombussolando le vele dell’albero di trinchetto che non erano state imbrigliate né orientale.

Quei colpi di vento, invece di spegnere il fuoco che divorava le manovre dell’albero maestro, lo alimentavano. Ormai la gigantesca antenna fiammeggiava, lasciandosi dietro un turbine di scintille.

Il mare, illuminato da quella fiammata, scintillava tutto all’intorno, assumendo riflessi infuocati che le onde rompevano senza posa.

L’equipaggio intanto, nonostante la tenacia dei forzati ed il fuoco che divorava il quadro, non cedeva. Quantunque fosse ormai convinto di non poter più domare la rivolta, continuava a difendersi col coraggio della disperazione, cercando d’infliggere agli assalitori perdite disastrose.

Ormai non si preoccupava più della nave, che sapeva bene di non poter riconquistare. Anzi cercava di demolirla, di renderla inservibile, di cacciarla possibilmente sott’acqua, colla speranza di annegare, come bestie feroci, l’orda dei galeotti.

I due pezzi del cassero non tacevano un solo minuto. Consumata la mitraglia, tiravano a palla fracassando le murate, sfondando il castello di prora, danneggiando gli alberi, mandando sossopra la camera comune dell’equipaggio rigurgitante di forzati.

Tre volte la Tigre della Malesia, furiosa di vedersi tenuta in iscacco da quei quaranta marinai, poiché di più non dovevano essere, aveva tentato di lanciare le sue colonne all’assalto del cassero, ma la cortina di fuoco che sempre irrompeva dal boccaporto, nonostante gli sforzi di Yanez e dei suoi uomini per combatterla, le aveva arrestate.

Alcuni più audaci erano bensì riusciti ad attraversarla, passando come un uragano o come salamandre in mezzo a quella vampata, e tutti erano caduti, prima di poter giungere sotto il cassero, fulminati dalle scariche dell’equipaggio.

La lotta durava già da due ore, quando tutto d’un tratto il fuoco dei marinai, dopo essere scemato gradatamente di intensità, cessò.

Temendo una sorpresa od un improvviso assalto, Sandokan aveva chiamato in coperta tutti gli uomini disponibili, per essere pronto a respingere qualsiasi attacco.

Passarono però alcuni minuti senza che il temuto assalto accadesse. Il fuoco non era più stato ripreso; anzi un silenzio assoluto regnava verso poppa.

— Che cosa si preparano a fare? — si chiese Sandokan, con inquietudine.

Si avanzò fino all’albero maestro sfidando la pioggia di scintille che cadeva dai pennoni, ma non potè scorgere nulla a causa del fumo che irrompeva dal boccaporto e che il vento spingeva verso poppa.

Stava per slanciarsi in mezzo ai turbini di fumo, quando il gallese gli si slanciò dietro, gridandogli:

— Indietro, signore!... L’albero sta per cadere!...

Sandokan in due salti balzò dietro la barricata. L’albero maestro, privo ormai delle sartie e dei paterazzi e consunto alla base dalle fiamme irrompenti dal boccaporto centrale, un istante dopo rovinava con immenso fracasso addosso alle murate di babordo, tuffando in mare l’alberetto ed i pennoni di pappafico e di contra pappafico.

La fregata, sotto quell’urto improvviso, si piegò sul fianco, mentre le murate cadevano sfracellate, ma subito si risollevò conservando solamente un leggero sbandamento.

L’albero di mezzana, del pari consunto alla base, essendo ormai stata distrutta la scassa dal fuoco che ardeva nel quadro, rovinava pure mezzo minuto dopo. Disgraziatamente invece di cadere verso l’una o l’altra delle murate, piombava lungo la tolda abbattendo coi suoi pennoni una dozzina d’uomini e spezzando di colpo le manovre del trinchetto.

Senza curarsi delle urla dei feriti, Sandokan ed il gallese si erano slanciati verso il cassero. Attraversarono correndo i turbini di fumo che uscivano ancora dal boccaporto e si arrestarono alla base della gradinata.

— Sono fuggiti!... — aveva gridato Sandokan.

Era vero. L’equipaggio, approfittando dell’inazione forzata dei ribelli e della cortina di fuoco che lo copriva, aveva messo in mare le scialuppe calandole verso poppa, poi, tenendosi riparato dalla massa della nave, aveva preso il largo. Prima però di abbandonare la nave aveva inchiodati i due cannoni ed ammainata la bandiera.

Sandokan ed il gallese salirono rapidamente il cassero e si curvarono sulla murata poppiera.

Alcuni punti luminosi, ormai molto lontani, brillavano in mezzo alle tenebre, verso il sud.

— Cercheranno di raggiungere la costa, — disse Sandokan.

— E noi? — chiese il Gallese.

— E noi faremo altrettanto, se sarà possibile, — rispose la Tigre della Malesia.

— Se sarà possibile!..

— Questa nave è ormai finita ed il mare monta.

— Non sperate di poter domare l’incendio?...

— Credo che Yanez sia già a buon punto, ma che importa? Non possiamo contare che sull’albero di trinchetto e sulle nostre braccia, giacché i galeotti non s’occuperanno di certo della nave né delle manovre.

— Non credo vi siano marinai fra di loro, pure spero che ci aiuteranno, — disse il gallese.

— Lo vedremo più tardi, — rispose Sandokan. Poi alzando la voce tuonò:

— La nave è nostra!... L’equipaggio è fuggito!...

Un urlo immenso fu la risposta, poi una voce gridò:

— Ai barili!... Bisogna festeggiare la vittoria.

— Sì, ai barili!... — risposero cento voci. — Beviamo.