I naufraghi del Poplador/9. L'abbordaggio
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9.
L'ABBORDAGGIO
La notte era bella, l'oceano tranquillo e terso come uno specchio, l'aria dolce, rinfrescata di quando in quando da una leggerissima brezza, carica dei profumi delle piante crescenti sulle coste dell'isola.
Nella trasparente profondità del cielo splendevano vivamente migliaia e migliaia di astri; ad oriente una pallida luce andava diffondendosi, annunciando il prossimo apparire dell'astro notturno e facendo spiccare vivamente l'imponente massa delle montagne californiane e delle isole; ad occidente giganteggiava il vascello, coi suoi altissimi alberi, le sue antenne e le sue due lanterne, rossa l'una verde l'altra, che riflettevansi vagamente nei neri flutti. I soli rumori che si udivano erano il monotono sbattere dei remi, il lontano fragore della risacca che rompevasi contro le scogliere, il grido degli uccelli costieri che s'affrettavano a raggiungere i loro nidi e la melanconica canzone di un marinaio che s'alzava dalla prua della nave.
Le tre scialuppe, a breve distanza l'una dall'altra, s'avanzavano con precauzione, senza quasi produrre rumore, lasciandosi a poppa una scia gorgogliante che talvolta diventava luminosa. I loro equipaggi, curvi, col coltello fra i denti e le dita sul grilletto dei fucili, fissavano con occhio sanguinoso la preda, ansiosi di scoprire ciò che accadeva sul ponte.
— Tutto va bene — disse il capitano, curvandosi verso il mastro-cannoniere che teneva la barra del timone. — Quando gli yankees si accorgeranno della nostra presenza, sarà troppo tardi per opporci una seria resistenza.
— E se ci scoprono prima di giungere sotto la scala? — chiese il mastro.
— In qual modo? La notte è oscura.
— Possono interrogarci.
— Risponderemo. Io conosco la loro lingua meglio di un americano di New-York. Zitto e avanti!
Ad un suo cenno, i marinai che manovravano i remi allungarono la battuta. Quell'insolito rumore fu notato dagli uomini della nave che erano di guardia.
— Siete voi, mastro Burthon? — chiese uno di essi.
— Che nessuno risponda — disse il capitano.
Temendo però che gli americani si inquietassero, si mise a fischiare l'yankee dodle e così fortemente da essere udito ad un trecento passi.
— Ohe! Della scialuppa! — ripetè la stessa voce.
— Al diavolo! — gridò il capitano, ingrossando la voce.
— Avete trovato del whisky all'isola, per rimaner là tanto tempo?
— Sì, ragazzo, e di quello eccellente.
— Ne avrete una bottiglia per noi.
— Anzi un barilotto.
— Viva il mastro! — urlarono tre o quattro voci.
— Ve lo farò assaggiare io il mio whisky — mormorò il capitano sorridendo. — Ubriaca tremendamente e per sempre.
Le tre scialuppe erano giunte presso la scala. I messicani gettarono gran parte dei barili in acqua per lasciar posto ai loro compagni che si erano stesi sotto e armarono i fucili, o impugnarono i coltelli, o le scuri, o le sciabole d'abbordaggio.
— Avanti! — disse il capitano, tirando la sciabola.
Si slanciò sulla scala e mise piede sulla tolda seguito dal tenente e da mastro Josè. I messicani salivano quatti quatti, a due a due, pronti ad aiutarli. Quattro marinai, i soli che in quel momento si trovavano in coperta, s'avvicinarono al capitano. Vedendo quell'uomo di alta statura, colla sciabola in pugno, si arrestarono sorpresi e fors'anche atterriti.
— Chi sei? — chiese uno di essi.
— Guardami in volto — disse il capitano, esponendosi ai pallidi raggi della luna, allora sorta. — Sono messicano.
Gli americani tirarono risolutamente i coltelli e si avventarono su di lui, ma non ebbero il tempo di toccarlo. Il tenente e Josè erano pure usciti dall'ombra. Due colpi di pistola rintronarono, seguiti dalle urla feroci dell'equipaggio messicano.
— Viva il Messico! Morte agli yankees! Ammazza! Ammazza!...
Un americano, colpito in fronte da una palla di pistola, cadde sul ponte, stecchito. Gli altri, vista la mala parata, si slanciarono verso prua gridando:
— All'armi! Il nemico! All'armi!...
Ai colpi di pistola e alle grida degli assalitori e degli assaliti, diciotto uomini guidati da un quartiermastro, armati di scuri, di manovelle, di sciaboloni e di pochi fucili, irruppero dal boccaporto di prua.
— Largo! — gridò il quartiermastro, alzando una pesantissima scure.
Il capitano Guzman puntò verso di lui la pistola che teneva nella sinistra.
— Arrendetevi! — gridò.
— Ammazza il messicano! — gridò un marinaio.
Due colpi di fucili furono sparati contro l'equipaggio del Poplador. Una palla spezzò il braccio ad un uomo, l'altra attraversò il berretto del tenente Michele. Un urlo formidabile echeggiò a bordo del vascello.
— Morte agli yankees! Ammazza! Ammazza!...
Già i messicani avevano abbassato i fucili pronti a fulminare quel gruppo d'uomini, quando a poppa s'udì una voce imperiosa gridare:
— Olà!... Cosa succede!... Largo! Largo!
Don Guzman si diresse da quella parte, seguito da Michele, mentre i suoi uomini si dividevano ripiegandosi verso le murate di babordo e di tribordo.
Il capitano del vascello, seguito da cinque ufficiali, scendeva la scaletta del cassero colla sciabola sguainata nella destra e una pistola nella sinistra. Egli si arrestò fra le due file dei messicani girando attorno uno sguardo inquieto.
— Cosa vogliono questi uomini? — chiese egli con collera. — Chi osa salire sulla mia nave senza il mio permesso?
Don Guzman si fece innanzi col berretto in mano e inchinandosi con tutta grazia:
— Questi uomini, signore, domandano la vostra nave — disse.
L'americano lo squadrò dall'alto in basso con profondo disprezzo.
— Chi sei tu? — gli chiese.
— Né un pezzente, né un bandito. Mi chiamo Pablo Guzman y Silva, capitano del Poplador.
— Non vi conosco.
Il messicano si mise a ridere.
— Se non lo conoscete imparerete a conoscerlo, capitano.
— In qual modo?
— Or lo vedrete. Ragazzi, preparate le armi. Fra pochi istanti scorrerà del sangue.
L'americano e i suoi ufficiali s'affrettarono a raggiungere i loro marinai. I messicani non si opposero a quell'unione, ma montarono i fucili e si raggrupparono, pronti a slanciarsi all'assalto.
— Capitano — disse don Pablo.
— Cosa desiderate? — chiese l'americano.
— Vi intimo la resa.
— Siete pazzo?
— Noi siamo quarantasei e voi ventitré.
— Quarantasei banditi non valgono ventitré soldati.
— No, quarantasei banditi! — urlò don Guzman, indignato. — Dite quarantasei onorati marinai messicani. Alle armi, ragazzi! Viva il Messico!
— Fuoco! — gridò il capitano del Richmond.
Sei o sette fucilate accolsero i messicani che si slanciavano valorosamente all'assalto. Due uomini, colpiti mortalmente, caddero fulminati; un terzo si addossò alla murata di babordo vomitando sangue e un quarto rotolò sulla tolda con una gamba spezzata.
— Avanti! — tuonarono don Guzman e il tenente Michele.
I messicani scaricarono le armi, indi urtarono furiosamente l'equipaggio nemico il quale si ripiegò disordinatamente verso prua. Una mischia feroce s'impegnò fra i combattenti. Lottavano coi fucili, colle scuri, coi coltelli, colle sciabole, colle le manovelle e persine coi pugni e coi denti, atterrandosi, calpestandosi, lacerandosi, sventrandosi. Nessuno voleva arrendersi; nessuno accordava quartiere.
Don Guzman, spinto fuori dall'onda dei combattenti, si azzuffava col capitano del Richmand stringendolo ora colla sciabola e ora col pugnale; il tenente Michele, ruzzolato giù dal castello di prua, scambiava tremende sciabolate con due ufficiali saltando a destra e a sinistra come una tigre; il vecchio Josè, armato di una pesante scure, lottava contro un quartiermastro che ad ogni colpo che menava invocava Calvino.
La lotta non doveva durare molto. Gli yankees, sopraffatti dal numero, assaliti di fronte e da tergo, si sbandarono cercando di guadagnare la poppa ove trovavasi un cannone, ma i messicani gli inseguirono, tornarono a circondarli e riappiccarono la pugna con maggior furore. I disgraziati caddero tutti l'un sull'altro. Alle dieci non rimaneva in piedi nessun uomo dell'equipaggio del Richmond. Il capitano, trapassato dalla sciabola di don Guzman, rantolava ai piedi dell'albero di maestra; i due ufficiali che avevano lottato col tenente Michele erano morti; il mastro d'equipaggio, che si era rifugiato sulle sartie, era caduto sulla coperta con due palle nel cranio.
Un fragoroso urrah avvertì quelli della costa che il Richmond era stato conquistato. Don Guzman fece tosto portare in coperta delle lanterne, delle torce e alcuni barilotti di whisky per rianimare i suoi uomini, indi contò i disgraziati che giacevano sul ponte fra larghe pozze di sangue. Erano trentadue, ventitré americani e nove messicani, tutti coperti di ferite, chi colle membra mozze, chi col cranio sfracellato, chi col petto squarciato o forato dalle palle. Sette che ancora respiravano, ma conciati in modo tale da temere assai che potessero sopravvivere, furono mandati nell'infermeria, e gli altri, compreso il capitano della nave, dopo una breve preghiera furono rinchiusi nelle amache e gettati in mare con una palla di cannone ai piedi.
— Non c'è male — disse il tenente, stropicciandosi allegramente le mani. — Credeva che le nostre perdite fossero più considerevoli.
— Sono però sempre gravi — disse il capitano.
— Ciò non c'impedirà di continuare la campagna, però. I nostri marinai sono entusiasmati e non chiedono che di combattere.
— Lo credete?
— Senza dubbio.
Il capitano crollò il capo.
— Dio lo voglia! — mormorò.
— Quando partiremo?
— Domani.
— Per dove?
— Tenteremo un colpo di mano su Monterey. O gli americani ci affondano, o noi ci impadroniremo della città.
— L'idea è buona è...
Il tenente non continuò. Nel passare presso il boccaporto di maestra, aveva udito, giù nella stiva, un grido soffocato e uno strano fragore di ferri.
— Oh! — esclamò. — Che ci siano dei nemici nascosti nella stiva?
— Non ci mancherebbe altro — disse il capitano, che per ogni precauzione tirò la sciabola. — Olà, mastro Josè.
Il mastro, che stava seduto presso un barile di whisky con alcuni suoi compagni, fu lesto ad accorrere.
— Capitano!
— Chi è sceso nella stiva? — chiese don Guzman.
— Nessuno, che io sappia.
— Eppure c'è qualcuno — disse Michele.
— Par todos santos! — esclamò il mastro, stralunando gli occhi. — Che facciano saltare il vascello?
— Non è improbabile — disse don Guzman. — Manda quattro uomini nel deposito delle polveri e fa' aprire il boccaporto. Affrettati.
Il mastro con un colpo di fischietto chiamò a raccolta i marinai, i quali abbandonarono precipitosamente i barili e le tazze. Sei dei più coraggiosi scesero nella santabarbara e gli altri aprirono il boccaporto.
— Preparate le armi — disse il capitano.
Impugnò la sciabola nella dritta, una pistola nella sinistra e discese la stretta scaletta che metteva nel frapponte. Michele e Josè muniti di lanterne e dodici marinai lo seguirono.
— Scendiamo nella stiva — disse il capitano, dopo essersi assicurato che nessuna creatura vivente trovavasi nel frapponte.
I marinai aprirono il secondo boccaporto. Tosto s'udì una vociaccia rauca a gridare:
— Ohe! Che diavolio succede lassù?
Il capitano si fece passare una lanterna e guardò nella stiva. Con sua grande sorpresa scorse alcuni uomini stretti gli uni addosso agli altri, e, a quanto sembrava, solidamente incatenati.
— Chi siete? — chiese, ponendo piede sul primo gradino.
— Toh! Delle facce nuove! — esclamò la medesima voce di prima. — Ha cambiato equipaggio il vascello?
— Non ti sei ingannato, giovanotto.
— Avete dato le botte a quei cani di yankees?
— E che botte!
— Me ne congratulo con voi, signore. A qual nazione appartenete?
— Siamo messicani.
L'uomo che aveva parlato fece udire una specie di grugnito.
— Non vi garba? — chiese don Guzman.
— Figuratevi! Siamo californiani!
— Che è quanto dire compatrioti. Chi vi ha cacciato in questo carcere?
— Gli yankees che ci avevano presi a Monterey.
— In tal caso sono felicissimo di restituirvi la libertà.
Il capitano ed i suoi uomini scesero nella stiva e si trovarono in presenza di undici uomini, miseramente vestiti e solidamente incatenati, pallidi, macilenti. Solo uno, un pezzo d'uomo alto e grosso quanto un patagone, con una faccia da patibolo, pareva non avesse gran che sofferto.
Mastro Josè, aiutato dal carpentiere e dall'armaiuolo, li liberò dalle catene. Quei poveri diavoli, che si trovavano là entro da due buoni mesi, si profusero in caldi ringraziamenti.
— Vi dobbiamo la vita — disse il gigante che rispondeva al nome di Hearney. — La mettiamo sin d'ora a vostra disposizione.
— Ne approfitterò, tanto più che andiamo a combattere per la libertà dei vostri compatrioti.
Il californiano fece un gesto di sorpresa.
— Si va in California? — chiese.
— Certamente.
— A che fare?
— A scacciare gli yankees, se è possibile.
— Per rendere la Nuova California indipendente o per unirla al Messico?
— Per riunirla alla repubblica messicana.
Il californiano aggrottò la fronte, guardando don Guzman di traverso.
— Sta bene — disse poi. — Viva la Nuova California!
— Bravo Hearney. Se avete sete salite in coperta; c'è del whisky da bere.
I californiani lasciarono la stiva e salirono sulla tolda ove tosto si confusero coi marinai, ingoiando grandi tazze di liquore.
All'alba don Guzman fece caricare la gran scialuppa di viveri, di tende, di sementi e di attrezzi rurali e la mandò a Cedros, non volendo abbandonare i prigionieri senza mezzi di sussistenza.
Un'ora dopo i marinai, che si erano recati a terra tornavano a bordo coi compagni, che erano stati lasciati a guardia dei prigionieri. Gli americani, liberati dei loro legami, si erano radunati sulla costa per rivedere un'ultima volta la loro nave che stava per prendere il largo.
— Formate i ranghi! — gridò mastro Josè.
L'equipaggio del Poplador ed i californiani si schierarono sulla tolda, mentre il cannone di poppa tuonava, salutando la bandiera messicana che saliva maestosamente sul picco della randa. Il capitano Guzman si fece innanzi.
— Marinai e ufficiali, — diss'egli, — una nuova vittoria abbiamo aggiunta alle tante altre riportate dal valoroso equipaggio del defunto Poplador. Ma il nostro compito non è ancora finito; la patria chiede ancora dei sacrifici.
— Si facciano — gridarono dieci o dodici voci.
Il tenente gettò un rapido sguardo su quegli uomini. Erano i messicani di Acapulco.
— Marinai e ufficiali — ripigliò don Guzman con voce animata. — La guerra ferve più sanguinosa che mai fra la nostra repubblica e quella del nord. A Vera-Cruz si combatte; attorno alla capitale si combatte; nel nuovo Messico si combatte; in California pure si combatte. Chi di voi non combatterà contro l'invasore che calpesta e insanguina la nostra bandiera, arde e distrugge le nostre città? Marinai, il cannone tuona sulle coste della Nuova California. La flotta degli yankees ha giurato di domare le aspirazioni sante di quel popolo eroico. Marinai, si va in California! Viva la repubblica! Viva il Messico!
Le stesse voci di prima si fecero udire.
— Viva la repubblica! Viva il Messico!
Gli altri non fiatarono. Don Guzman ebbe un impeto di collera.
— Ci sono forse dei vili a bordo, che pensano di ritornare? — urlò egli. — Chi ha paura s'imbarchi nelle scialuppe e vada a nascondersi a Cedros. La patria nostra non vuole codardi, sotto la sua bandiera.
— No! No! — esclamarono trenta o quaranta voci. — Si vada innanzi! Viva la repubblica! Viva la guerra!
— Si vada in California adunque! — gridò don Guzman. — Salpate le ancore.