I naufraghi del Poplador/10. I californiani

10. I californiani

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9. L'abbordaggio 11. La rivolta

10.

I CALIFORNIANI


Il Richmond, col quale l'intrepido capitano Guzman stava per riprendere la campagna, era un vascello di milleduecento tonnellate, un po' vecchio sì ma di gran lunga superiore al Poplador, per costruzione, per attrezzatura e per armamento.

Era svelto di forme, stretto di carena, segno evidente che era stato destinato un tempo per le crociere, solido di costole, difeso da lamine di ferro di un buon pollice di spessore e attrezzato a barco.

In fatto di armamento, poteva affrontare senza paura una fregata. Otto cannoni da sedici ornavano i suoi sabordi di babordo e tribordo, due pezzi da otto allungavano le loro gole fuor dalle murate della coperta. Oltre a ciò i suoi magazzini riboccavano di viveri, capaci di nutrire per una lunga campagna un equipaggio due volte più numeroso di quello del capitano Guzman. La sua santabarbara poi, aveva tanta polvere e tante palle da bombardare una città per quindici giorni di seguito.

Salpate le ancore e spiegate le vele, il vascello diede subito a vedere di essere, malgrado i suoi quattordici o quindici anni di servizio, ancora un eccellente camminatore, la qual cosa rese più fiducioso l'equipaggio ed entusiasmò non poco il tenente Galla, che si vedeva già nelle acque della Nuova California.

— Carrai! — esclamò il bravo genovese, abbordando don Guzman che passeggiava in coperta. — Una gran bella nave questo Richmond! Faremo grandi cose!

— Comincio a sperarlo anch'io — disse don Guzman. — Disgraziatamente abbiamo un equipaggio appena sufficiente al servizio delle nostre artiglierie.

— Avete ben ragione di dire ciò — esclamò il tenente, grattandosi furiosamente la nuca. — Se si potesse rinforzarlo!

— Con che cosa?

— Con altri uomini.

— Dove li troveremmo?

— Se si incontrasse qualche nave messicana?...

— In questi tempi? Con quest'odore di polvere?

— Se poggiassimo su qualche porto?

— Non ci sono né città, né villaggi di qualche importanza su questa costa.

— San Quentin, per esempio, non è molto lontano.

— Non dico di no, ma a San Quentin non troveremo un solo soldato e probabilmente nemmeno un barcaiuolo.

— E a San Diego?

— Hum! Troveremo probabilmente qualche americano che ci accoglierà a cannonate. Le coste della Nuova California sono tutte in mano degli yankees.

— E dunque?

— Andremo innanzi e tireremo cannonate finché ci rimarrà un marinaio, poi daremo fuoco alle polveri. Pablo Guzman non si arrende.

— Qua la mano, capitano — disse Michele. — Siete un prode!

I due comandanti si strinsero la mano.

— Speriamo — disse don Pablo, sorridendo.

— Confidiamo nella nostra buona stella — aggiunse Michele.

Durante la giornata, il Richmond si comportò da vero incrociatore. Quantunque il mare fosse agitato, filò senza interruzione sei e persino sette nodi all'ora, senza soffrire né violento rollìo, né violento beccheggio.

Alla sera l'isola di Cedros non era più visibile e cominciavano a riapparire le coste californiane. Il monte Nipple, gigantesco cono che ergesi isolato per circa 1132 piedi sul livello del mare, mostrò il suo cocuzzolo indorato dagli ultimi raggi di sole, poi scomparve nelle tenebre.

Verso la mezzanotte il vento girò a levante, soffiando con molta violenza. Il cielo ben presto si coprì di nubi e parve che fosse prossimo un uragano. Grosse ondate assalirono la nave slanciandosi fino in coperta, inondando la tolda e rovesciando più volte gli uomini di guardia. Gli sportelli delle batterie si dovettero chiudere e le artiglierie assicurare con grosse funi.

L'indomani 24 aprile, il tempo si rimise al bello. Il Richmond, con tutte le sue vele spiegate, poggiò verso la costa, passando dinanzi al porto San Quentin che dà il suo nome ad un piccolo villaggio situato alcune miglia entro terra.

Alcuni canotti montati da pescatori indiani cercarono di accostarsi alla nave, ma questa, spinta da un buon vento del sud-sud-est, correva troppo e rimasero indietro. A mezzodì accadde a bordo un fatto che preoccupò assai il tenente Michele. Da alcune ore l'astuto genovese aveva visto un movimento insolito fra i marinai ed i californiani.

Gruppi di tre, quattro e persino cinque persone, scendevano nella batteria e nella camera dell'equipaggio e ritornavano sul ponte discutendo vivamente, ma a bassa voce. Altri marinai discutevano nelle gabbie, interrompendo bruscamente i loro discorsi quando qualche gabbiere saliva sui pennoni.

— Hum! — borbottò il tenente. — Non ci vedo chiaro. Si direbbe che nella batteria si cospira; che non si voglia andare nella Nuova California?

Accese una sigaretta, si cacciò le mani in tasca, e senza aver parlato con alcuno, scese nella batteria. Dietro ad un cannone vide il californiano Hearney circondato da sette od otto marinai, parte meticci e parte anglosassoni. Messicani di Acapulco, nemmeno uno.

Quegli uomini parlavano con molta animazione, ma appena s'accorsero della presenza del tenente zittirono e finsero di caricare le loro pipe.

— Che si fa quaggiù, giovanotti? — chiese Michele, affettando la massima noncuranza.

— Lo vedete bene, tenente — disse il californiano. — Si fuma e si discorre.

— Di cosa si discorre?

— By-God! Della guerra.

— Vi dispiace forse che si navighi verso il nord?

— Oibò! — esclamarono ad una voce i marinai. — Finché ci sarà un yankee in California, ci batteremo.

— Bravi ragazzi.

Il tenente tirò innanzi. Fatti otto passi, dietro ad un secondo cannone vide altri quattro californiani e sette marinai. Anche qui, nessun messicano.

— O mi inganno di molto o qui si trama qualche brutto progetto — mormorò egli.

Risalì in coperta con passo tranquillo, continuando a fumare e andò a sedersi presso mastro Josè che era occupato a esaminare un grosso cannone da dieciotto.

— Vecchio mio — gli mormorò in un orecchio.

— Voi, tenente! — esclamò il lupo di mare, salutando.

— Dimmi un po', Josè; cosa fanno i californiani?

— Che! — esclamò il marinaio. — Avete scoperto qualche cosa anche voi?

Michele trasalì.

— Non mi sono ingannato, adunque — mormorò. — Qualche cosa succede a bordo.

— Sì, tenente.

— Parla.

— Non è facile dire che cosa succede, ma... non so, vedo un certo movimento... si parla, si mormora, si discute... è strano, sapete, ma...

— Che cosa sospetti?

— Nulla, ma i californiani non sono tranquilli.

— Hanno detto nulla ai nostri messicani?

— No, ma li vedo parlare coi meticci, cogli spagnoli e coi nordisti.

— Che si trami una rivolta?

— È impossibile!

— Lo credi?

— Sì, è impossibile.

— Ammettiamolo, ma veglia, mastro Josè. C'è del buio.

— Veglierò, tenente, e se è vero che qui si trama... orneremo i pennoni.

Nessuna altra novità accadde a bordo durante la giornata. Michele, che diffidava assai dei californiani, passeggiò parecchie volte nella batteria e discese perfino nella stiva, ma non vide alcuna cosa che potesse accrescere i suoi sospetti. Marinai spagnoli, meticci, californiani, anglosassoni, lavoravano come al solito e si mostravano rispettosi e obbedienti verso i superiori.

Il 26 il tempo si abbuiò. Il cielo si coprì di nubi, lampeggiò, tuonò, cadde pioggia in grande abbondanza e il vento soffiò con molta furia. Il Richmond fu assai scosso dalle alte e spumeggianti onde del Pacifico, ma si comportò anche questa volta assai bene.

Alla sera la burrasca tornò a imperversare, ma con maggior furia. Don Guzman, temendo di venire gettato verso la costa, diede ordine di virare al largo, il che fu subito eseguito. Nondimeno, fra gli urli del vento, si udì una vociaccia a gridare:

— Cosa si va a fare al largo? E perché non si va in un porto?

Don Guzman che stava sul ponte di comando, udì quelle parole. In tre salti fu in coperta, pallido d'ira, coi pugni chiusi, fremente, terribile a vedersi. Era la prima volta che udiva un marinaio muovergli una simile osservazione.

— Chi è l'insolente che ha parlato? — chiese con voce tuonante.

Per qualche secondo nessuno ardì rispondere, poi si udì la medesima vociaccia a gridare:

— Io!...

Un californiano alto quasi sei piedi, forte come un èrcole, si fece insolentemente innanzi.

— Io!... — ripetè, guardando audacemente il capitano.

Don Guzman si slanciò verso di lui; quel gigante non gli faceva paura.

— E tu dici?... — chiese con voce sibilante ed i denti stretti.

— Che si potrebbe ricoverarci in un porto.

— Ma sai tu chi sono io?

— Il capitano della nave.

— E non hai paura?

— Io!...

Don Guzman puntò verso il californiano una pistola urlando:

— Miserabile.

— Non toccatemi! — gridò il californiano che era diventato pallido.

— Mettete quest'uomo ai ferri — disse il capitano, riacquistando la sua solita calma.

Fra gli spagnoli ed i meticci si udì un minaccioso mormorio. Il vecchio Josè, il mastro cannoniere e sette od otto messicani si gettarono sul californiano e lo trascinarono sotto coperta malgrado la sua resistenza.

— È ubriaco — disse don Guzman. — Si viri al largo.

— No, capitano, non è ubriaco — gli mormorò una voce in un orecchio.

Don Guzman si volse e si trovò dinanzi a Michele.

— Che intendete di dire? — chiese, sorpreso.

— Capitano, state in guardia!

— Che c'è di nuovo?

— Nulla per ora.

— Voi mi nascondete qualche cosa, tenente.

— È probabile. Domani vi dirò tutto.

— Tenente!...

— Zitto, capitano. Una preghiera, ora.

— Parlate.

— Ritiratevi nella vostra cabina.

— Ma perché?

— Vi ho detto che domani vi dirò tutto. E necessario che vi ritiriate.

Il genovese pronunciò queste ultime parole con accento così grave, che don Guzman credette bene di non ribattere parola. Lasciò il ponte e scese nel quadro di poppa. In quell'istante risaliva in coperta mastro Josè. Michele si diresse lentamente verso di lui, fingendo di guardare le vele.

— Tenente — mormorò il vecchio mastro, urtandolo. — La rivolta si matura.

— Lo vedo.

— C'è una grave notizia.

— Quale?

— A mezzanotte i ribelli si radunano.

— Dove? — chiese Michele con voce soffocata.

— Nella batteria.

— Quanti sono?

— Tutti, meno i messicani.

— Quanti sono i nostri?

— Sedici, signore.

— Che siano tutti pronti, Josè.

— Sta bene, tenente. I vili la pagheranno cara!

Michele tirò innanzi, con passo sempre tranquillo, si arrestò un momento a prua guardando il mare che muggiva con sordo fracasso, poi ritornò a poppa e discese nel quadro. Un grido di rabbia gli uscì dalle labbra.

— Vigliacchi — mormorò di poi. — Tradire così la loro bandiera!

Bussò alla porta del capitano. Don Guzman venne ad aprire.

— Ancora voi, tenente? — chiese. — Forse delle altre novità?

— Sì, capitano, e novità gravissime.

— Non esagerate?

— Non esagero.

— Parlate, adunque.

— Capitano, qui si congiura.

Don Guzman, che erasi seduto, scattò in piedi col viso sfigurato, gli occhi scintillanti, pallido, fremente. Il suo pugno piombò con irresistibile forza sul tavolino che gli stava dinanzi, fracassandolo.

— Si congiura!... — esclamò. — Si congiura!... Qui! Sul mio vascello!... Eh via! è impossibile, signore.

— Capitano, si prepara una rivolta ed ho delle prove.

— Delle prove!

— Sì, capitano. A mezzanotte i ribelli si raduneranno nella batteria.

— Quanti sono?

— Quaranta. Spagnoli, meticci, nordisti e californiani si sono fusi insieme.

— Sicché ci rimangono sedici uomini fedeli.

— E noi due che formano diciotto.

— Sta bene. Massacreremo i ribelli.

— E la guerra?

Don Guzman impallidì.

— La nostra missione è finita — diss'egli con voce triste. — Povera patria! Anche questa disgrazia ti doveva colpire.

Stette alcuni istanti in silenzio, curvo come se un gran peso gli gravitasse sulle spalle, poi si raddrizzò col viso animato, i pugni chiusi.

— Nessuna pietà pei ribelli, tenente. Siffatti miserabili non meritano quartiere!