I naufraghi del Poplador/8. Il Richmond

8. Il Richmond

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8.

IL RICHMOND


Quindici giorni erano trascorsi dal naufragio del Poplador. Durante questo tempo nessuna nave, né amica né nemica, era venuta ad incrociare sotto le coste dell'isola, ma i naufraghi non si erano per questo scoraggiati.

Il più perfetto buon accordo e anche il più vivo buon umore erano costantemente regnati nelle due stazioni. Don Guzman, per non tenerli in ozio, aveva fatto costruire a fianco del capannone una bella casetta, e là ogni sera tiravano di coltello, o cantavano, o si narravano le storielle. Michele, con una vecchia mandola che aveva trovato nella cassa di un marinaio, spinta dalle onde verso la costa, teneva allegri tutti quanti e qualche volta faceva perfino ballare.

I viveri salvati dal naufragio al terzo giorno erano stati terminati, ma la penuria non si era fatta sentire. La selvaggina abbondava nei boschi delle montagne e ogni sera i cacciatori ritornavano carichi di lepri, di conigli, di scoiattoli, di fagiani dorati, di quaglie e di pernici. Anche i pescatori tornavano carichi di testuggini e di grossi pesci. La cucina di mastro Harguez non era mai stata così ben fornita.

Michele, che non stava un momento fermo, aveva aggiunto ai viveri un eccellente sidro, ottenuto colla fermentazione delle frutta dei manzanilli. Tutti erano contentissimi di quella nuova vita, eccettuato uno solo: mastro Josè.

Il vecchio lupo di mare era triste. Non era nato per vivere in terra quell'uomo; quando non sentiva più l'acuto odore del catrame e sotto i piedi l'oscillante ponte d'un legno, era come morto. Arenato in un porto, ma sul cassero d'un vascello, diceva sempre: la terra mi fa invecchiare e mi logora! E passava delle lunghe ore seduto dinanzi la capanna della sua stazione, contemplando con occhio malinconico le onde azzurre dell'oceano, che venivano ad infrangersi quasi ai suoi piedi.

Per maggior disgrazia la sua provvista di tabacco era terminata. Michele gli aveva bensì portato delle foglie secche di una certa pianta, e certe radici assai forti ed amare da masticare, ma il vecchio lupo aveva respinto quella nuova specie di tabacco e quelle cicche.

— Non sono un indiano io — diceva. — Voglio del tabacco io, altro che foglie secche!

Il sedicesimo giorno, cioè il 22 aprile, un avvenimento straordinario metteva in moto i marinai delle stazioni. Don Pablo e Michele verso le due del meriggio erano diretti verso la montagna per cacciare i conigli che erano numerosissimi, quando giunti sulla cima di un colle videro un marinaio della stazione occidentale, che veniva innanzi correndo come un daino.

— Perbacco, Alonzo! — gridò Michele. — Dove correte? Diverrete bolso se continuate quel trotto.

Il marinaio che dirigevasi verso la stazione meridionale, cambiò via e raggiunse i due comandanti.

— Che nuove? — chiese don Guzman.

— Grande novità... capitano — rispose Alonzo che soffiava come una foca. — Una nave... capitano... una nave!...

— Una nave! — esclamarono Michele e don Guzman.

— Sì, un bel veliero incrocia dinanzi la nostra stazione e pare che abbia intenzione di gettare l'ancora nella piccola rada.

— È amico o nemico?

— È una nave americana, capitano.

— Yankee, vuoi dire.

— Sì, yankee.

— Avete visto la sua bandiera?

— Sì, capitano. È la bandiera stellata.

— Urrah! — urlò Michele gettando in aria il suo berretto.

— Avete fatto dei segnali forse? — chiese don Guzman.

— No, capitano. Mastro Josè ci ha fatto distruggere la capanna.

— Si sono nascosti tutti?

— Sì, fra le rupi, ma spiano la nave.

— Corri a portare la notizia al capannone. Di' ai marinai di armarsi per bene e di incamminarsi subito per la stazione occidentale.

— Tutti?

— Tutti, giacché i feriti sono guariti.

Alonzo salutò e riprese la corsa verso il capannone che non era lontano più di tre miglia.

— Cosa facciamo? — chiese Michele che non stava più fermo.

— Prima andiamo a vedere il vascello, poi decideremo.

— Io l'abborderei, capitano.

— Se sarà possibile l'abborderemo. In marcia!

Si rimisero in cammino con passo svelto e girando le colline scesero nella valletta che menava alla stazione. All'entrata della gola s'imbatterono in mastro Josè e nei suoi uomini.

Il vecchio lupo di mare era trasfigurato. Pareva che fosse ringiovanito di dieci anni; i suoi occhi scintillavano come nei giorni di battaglia e impugnava, come fosse un semplice bastoncino, la pesante sciabola d'abbordaggio.

— Capitano! Capitano! — gridò. — Gli yankees! Il gran giorno finalmente è giunto! Ci divertiremo, oh se ci divertiremo!

— Dov'è il vascello? — chiese don Guzman.

— Ha gettato l'ancora nella rada.

— Vicino alla costa?

— A poche gomene.

— Cosa vuoi fare?

— Scommetto due mesi della mia paga contro una pipata di tabacco, che gli yankees hanno intenzione di impadronirsi dell'isola.

— Se noi lo permetteremo.

— Vengono gli altri?

— Devono essere già in marcia. Andiamo a vedere la nave.

Mastro Josè condusse i due comandanti nella gola e li guidò fino alla spiaggia. Un vascello a vela attrezzato a barco, della stazza di milleduecento o millequattrocento tonnellate, di forme antiquate e con un'alta alberatura, era ancorato in mezzo alla rada. Sul picco sventolava la stellata bandiera dell'Unione e sull'alberetto di maestra il gran nastro delle navi da guerra. Di più, dagli sportelli aperti della batteria, uscivan le bocche di grossi pezzi di cannone, ma, a quanto pareva, di vecchio modello. L'equipaggio, che non doveva essere molto numeroso, stava imbrogliando le vele e calando in mare alcune imbarcazioni.

— Si preparano a sbarcare — disse don Guzman.

— Vorrei sapere cosa verranno a fare a terra — disse Michele.

— Lo sapremo fra qualche ora.

— Che vi sembra della nave?

— È un vecchio barco, da preferirsi però al Poplador. Mi pare che sia bene armato.

— Si potrebbe continuare la guerra con quel legno, capitano.

— Non dico di no.

— E mi pare che a bordo non vi siano molti uomini.

— Forse una quarantina — disse mastro Josè.

— L'abborderemo, capitano? — chiese Michele.

— Questa sera stessa, se quelle imbarcazioni verranno a terra. Oh!... Oh!...

— Che avete? — chiese Michele.

— Vedo i marinai portare sul ponte dei barili.

— Scommetto che quei briganti vengono a far acqua — disse Josè.

— Non t'inganni, mastro — disse don Guzman. — Se possiamo farli prigionieri, il vascello è nostro.

— Non sarà una cosa facile.

— Anzi facilissima, Josè.

— Spiegatevi, capitano — disse Michele.

— Sono certissimo che gli yankees si inoltreranno in questa gola, non essendovi in questo tratto di costa altra via. Noi ci nasconderemo dietro le rupi e quando ci saranno vicini salteremo fuori colle sciabole e le scuri in pugno. In un baleno possiamo ammazzarne una ventina e senza far rumore.

— Bel piano! — esclamò Michele.

— La cosa mi va — disse il vecchio Josè. — Ne ammazzerò più di uno di quei cani.

— Vi raccomando soprattutto di non far uso delle armi da fuoco, né di mandare un grido. I marinai del vascello non devono accorgersi di nulla.

— Ma come faremo ad abbordare il legno? — chiese Michele.

— Aspetteremo la notte, c'imbarcheremo nelle scialuppe e andremo diritti al vascello. Quando i marinai si accorgeranno del bel tiro, noi saremo già sul ponte.

— Altro stupendo piano! — esclamò Michele.

— Rideremo — disse mastro Josè, stropicciandosi le callose mani. — Sento il sangue corrermi già rapidamente per le vene, pensando che domani prenderemo il largo su di un vascello. Ah! Il mare! Il mare!... Là si vive, ma qui si muore.

— Josè, rimani qui a spiare gli americani — disse don Guzman. — Noi andiamo a preparare l'agguato.

Il capitano e Michele ritornarono nella gola e raggiunsero la valletta. I marinai della stazione meridionale erano già giunti ed erano tutti in preda ad un vivo entusiasmo. Non chiedevano altro che di abbordare il vascello; parlavano persino di costruire delle zattere e di prendere il largo su quelle, a dispetto dei cannoni e dei fucili degli yankees.

Il capitano li informò dei suoi progetti, che da tutti furono approvati, poi li divise in due squadre. La prima, comandata da Michele, doveva nascondersi fra le rupi della gola, l'altra all'uscita. Gli yankees in tale modo dovevano venire presi in mezzo ed era evitato il pericolo che qualcuno riuscisse a fuggire verso la costa e dar l'allarme agli uomini che restavano sul vascello.

— Ai vostri posti — disse don Guzman. — Al primo fischio che io mando impugnate le sciabole e le scuri e gettatevi sugli americani.

I due drappelli raggiunsero i posti assegnati. Quasi subito apparve il vecchio Josè.

— Che nuove? — chiese don Guzman, muovendogli incontro.

— Gli yankees stanno sbarcando — rispose il mastro.

— Quanti sono?

— Ventisei con tre scialuppe cariche di bariletti.

— Vengono a far acqua adunque?

— Sì, capitano, e sono certo che essi conoscono questa valletta e il torrente che la solca.

— Ventisei sono molti. Bisogna gettarne a terra una dozzina.

— La mia scure è pronta a fare un bel vuoto in quel gruppo, capitano.

— Raggiungi il tenente che è nascosto dietro quelle rupi. Gli dirai di far lavorare le sciabole dei suoi uomini.

Il vecchio lupo di mare, tutto raggiante, corse a raggiungere Michele. Don Guzman lasciò la gola, all'uscita della quale stavano nascosti gli uomini della seconda squadra.

Era tempo. Gli americani s'avanzavano in gruppo serrato chiacchierando, scherzando, ridendo, sicurissimi di non venire disturbati. Ognuno di essi portava un barilotto ed aveva un fucile ad armacollo.

— Sono perduti — mormorò Guzman all'orecchio di mastro Harguez. — Prima che gettino i barilotti per prendere i fucili, saranno tutti a terra.

Erano di già passati dinanzi alla prima squadra senza nulla sospettare, quando echeggiò un acuto fischio; era il segnale dell'attacco.

L'equipaggio del Poplador si slancia nella gola con impeto irresistibile. Don Guzman sprofonda la sua sciabola nel petto di un contro-mastro che cadde a terra emettendo un rantolo; Michele spacca il cranio ad un pilota che rovescia istecchito; mastro Josè con un tremendo colpo di scure mozza un braccio ad un marinaio. Altri otto yankees piombano al suolo come fulminati. I superstiti gettano precipitosamente i barili e cercano di impugnare i fucili ed i coltelli, ma i messicani non lasciano a loro il tempo. Li afferrano per le gambe, per le braccia, a mezzo corpo, alla gola, li rovesciano a terra, li disarmano, li legano per bene e li trascinano nella valletta.

Tuttociò era durato un solo minuto e senza grida e senza colpi di fucile, tanto erano stati pronti i messicani. Gli uomini rimasti sul vascello, quantunque vicinissimi alla costa, non dovevano aver udito nulla.

— Che bel colpo! — esclamò Michele, asciugando sull'erba la sua sciabola insanguinata. — Non credevo che le cose andassero così bene.

— Se Santana le prende, l'equipaggio del Poplador le dà — disse mastro Josè.

— Se a Messico ed a Vera-Cruz ci fossero mille marinai, che batoste toccherebbero a quei cani di yankees. E quello che abbiam fatto è ancor nulla. Questa sera verrà il buono, e domani navigheremo sul Pacifico con una pipa in bocca!

— Non perdiamo tempo, miei cari — disse don Guzman. — Mastro Josè, fa' subito sotterrare i cadaveri poi manda due o tre uomini alla spiaggia con alcuni barilotti.

— Perché, capitano?

— Non vedendo tornare alcun marinaio, il capitano del vascello può inquietarsi e mandare a terra un'altra scialuppa.

— Ma possono venire riconosciuti.

— Alla distanza di mezzo miglio non si distingue bene una persona. Eppoi le nostre divise non sono forse eguali a quelle degli yankees.

— Avete ragione, capitano. Per prudenza però, avvertite i miei uomini di non tenere la faccia volta verso il vascello.

— Affrettati, vecchio lupo. Intanto noi interrogheremo qualche prigioniero.

Mentre il mastro sceglieva gli uomini che dovevano recarsi alla costa e faceva seppellire i cadaveri, don Guzman s'avvicinò ad un giovane yankee che era stato solidamente legato al tronco di un albero.

— Come si chiama la tua nave? — gli chiese in inglese.

L'americano lo guardò fisso fisso ma finse di non comprendere. Michele, che aveva raggiunto il capitano, mostrò al prigioniero, con un gesto espressivo, la sciabola che teneva ancora in pugno.

— Rispondi — disse don Pablo. — Il silenzio potrebbe costarti molto caro. Come si chiama la tua nave?

— Il Richmond — rispose l'yankee.

— A quale squadra appartiene?

— A quella del commodoro Sloat.

— Chi lo comanda?

— Il capitano Fulthon.

— Perché siete venuti ad ancorarvi a Cedros?

— Per rinnovare la nostra provvista d'acqua.

— Manca l'acqua forse alla Nuova California?

— Non siamo qui venuti solamente per fare acqua. Si cercava un incrociatore.

— Come si chiama questo incrociatore?

— Il New-Hamshire.

— Una nave a vapore?

— Sì.

— A ruote?

— A ruote.

— Della stazzatura di milleduecento tonnellate?

— Circa.

Don Guzman e Michele ruppero in una sonora risata.

— Perché ridete? — chiese l'yankee.

— Mio caro, il New-Hamshire dorme a mille piedi di profondità — disse don Guzman. — L'abbiamo mandato a picco la mattina del 5 aprile presso Assuncion.

— Voi! — esclamò l'americano impallidendo.

— Noi, amico mio.

— Poco importa, perché noi trionfiamo in tutte le provincie della vostra repubblica.

— Ma questa sera trionferemo noi — disse Michele. — Domani sul Richmond vedrai ondeggiare la bandiera messicana.

— Ne dubito molto. Ci sono duecento uomini a bordo.

— Tu menti — disse don Guzman.

— Lo saprete quando l'abborderete. Nessuno di voi scamperà alla mitraglia.

Don Guzman e Michele lasciarono il prigioniero e raggiunsero i loro uomini che si erano riuniti nella gola.

Il sole era tramontato da qualche ora e una quasi perfetta oscurità regnava sull'oceano e sull'isola. Il momento di agire era giunto.

I due comandanti con poche parole infiammarono l'equipaggio, lo informarono di ciò che dovevasi fare e diedero il segnale della partenza. Alle ore nove i messicani, in numero di quarantasei, avendone lasciati otto a guardia dei prigionieri, prendevano posto nelle tre scialuppe. Una ventina si sedettero sui banchi e gli altri si nascosero sotto i barilotti per non allarmare l'equipaggio del Richmond.

— Siamo pronti? — chiese Guzman.

— Tutti pronti — risposero Michele e mastro Josè.

— Al largo, dunque!

I remi si tuffarono nelle onde e le imbarcazioni, la più grande guidata da don Guzman, la seconda da Michele e la terza da Josè, si staccarono dalla spiaggia dirigendosi verso la nave nemica che non era lontana più di seicento metri.