I naufraghi del Poplador/11. La rivolta
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11.
LA RIVOLTA
Se volevano schiacciare la rivolta che stava forse per scoppiare, non dovevano perdere un sol minuto. Mezzanotte era vicina e molto c'era da fare; don Guzman e il suo fedele tenente lo sapevano. Il piano fu prontamente progettato.
Si trattava di inchiodare i cannoni della batteria onde non se ne potessero servire, chiudere la santabarbara e il magazzino delle armi, fortificare il cassero coi cannoni della coperta e con trincee, spezzare o gettare in mare quante armi c'erano nella camera dell'equipaggio, indi appena sorta l'alba, assalire californiani, spagnoli, nordisti e meticci e ucciderli o farli prigionieri.
Don Guzman, Michele, mastro Josè e mastro Harguez si misero all'opera, ma colla massima circonspezione e nel più profondo silenzio, per non allarmare i ribelli e far scoppiare innanzi tempo le ostilità. A mezzanotte mastro Harguez, aiutato da alcuni messicani, aveva inchiodato tutti i pezzi della batteria; Michele e don Guzman avevano ben chiuso le porte del magazzino delle armi e della santabarbara, e mastro Josè, col pretesto di sbarazzare la coperta, aveva fatto trascinare i due pezzi da otto sul cassero e ammucchiare dinanzi ad essi grandi corcome di grosse gomene, barili, ancorotti, catene, aspe, manovelle.
Alle dodici e mezza mastro Josè, che passeggiava in coperta, guardato dai messicani armati di pistole e di coltelli abilmente nascosti sotto le giacche, mandava avvertire il capitano che buon numero di marinai scendeva nella batteria.
— Sta bene — disse don Guzman, che passeggiava nella sua cabina.
— Cosa facciamo? — chiese Michele.
— Andremo anche noi alla riunione.
Il genovese sbarrò gli occhi.
— Volete attaccarli questa notte?
— No.
— E dunque?...
— Andremo a udire ciò che diranno.
— Nascosti però.
— Sì, Michele.
— C'è pericolo che un impeto di collera...
— Vi comprendo, tenente — disse il capitano. — Non abbiate questo timore. Qualunque cosa dicano, anche al mio indirizzo, rimarrò impassibile. Ma domani... Oh! La vedremo bella! Venite, tenente, non bisogna perdere una sillaba.
Si armarono di un paio di pistole e di un lungo machette,1 si levarono le scarpe per non far rumore e aperta la porta, entrarono silenziosamente nella batteria.
Attorno all'albero di trinchetto c'erano quindici o sedici uomini, seduti in cerchio, armati di scuri e di coltellacci. Tre erano californiani, quattro spagnoli, cinque meticci, gli altri erano nordisti dell'Oregon e del Washington. Una lanterna, che spandeva un debole chiarore, pendeva dall'alto.
— Miserabili! — mormorò don Guzman, pallido per l'ira.
— Non fate rumore, capitano — gli disse Michele all'orecchio. — Vedete chi siede in mezzo a quegli uomini?
— No, perché ci volge le spalle.
— È Hearney.
— Hearney! Chi lo ha liberato dai ferri?
— I ribelli, capitano.
— Quell'uomo lo ucciderò.
— E io vi aiuterò, don Guzman. Silenzio ora e ascoltiamo ciò che Hearney sta dicendo.
Strisciando come serpenti, senza produrre il più lieve rumore, il capitano e Michele giunsero a dieci o dodici passi dal circolo dei ribelli. Il primo si nascose dietro ad un cannone; il secondo si cacciò sotto una scialuppa rovesciata. Stava allora parlando il californiano Hearney, il quale, a quanto sembrava, era l'anima, il capo della rivolta.
— Si vuole condurvi in California — diceva il briccone, colla sua vociaccia rauca. — A cosa fare? Ad aiutare i miei compatrioti forse? Ma non sapete che i californiani odiano a morte i messicani? Appena il Richmond approderà non troverete braccia aperte ad accogliervi, ma palle e mitraglia a bizzeffe.
— Bene! — disse una voce.
— Bravo! — dissero gli altri.
— Il Richmond, come vi ho detto, è una buona nave bene armata e bene provvista. Nel Pacifico, dove non ci sono né incrociatori americani, né inglesi, né francesi, noi potremo fare grandi cose e arricchirci in brevissimo tempo. Le navi da saccheggiare le troveremo e senza percorrere tanta via.
— Infine si tratta di diventare pirati — disse un meticcio. — Confesso che ciò mi va a sangue.
— E anche a noi — dissero altri marinai.
— Ma come ci impadroniremo del Richmond? — chiese uno spagnolo. — Ci sono sedici messicani senza contare i due ufficiali.
— Se i messicani sono diciotto, — disse Hearney, — noi siamo quaranta.
— Ma il capitano non si arrenderà.
— Lo faremo prigioniero per forza.
— Ma i messicani lo difenderanno — disse un washingtoniano.
— E noi li ammazzeremo. Orsù, chi ha paura si ritiri.
Nessun marinaio si mosse.
— Sta bene — disse il californiano. — Siamo tutti d'accordo.
— Tutti — risposero ad una voce i ribelli.
— Anche i vostri compagni, non è vero, sono della nostra?
— Tutti.
— Se non avessi paura di essere udito, griderei a tutta voce: Viva la pirateria! Lo grideremo dopo la vittoria.
— Quando ci ribelleremo?
— Domani sera, alle ore otto, trovatevi tutti in coperta. Ci slanceremo improvvisamente sui messicani e li faremo prigionieri; se resistono lavoreremo di scure. Sciogliamoci.
I ribelli s'alzarono e salirono uno ad uno la scaletta che metteva in coperta. Michele uscì dal nascondiglio e si diresse verso il cannone dove c'era don Guzman, che trovò col viso alterato da una collera furiosa, una pistola in pugno e curvo innanzi come fosse lì lì per slanciarsi.
— Calma, capitano — gli disse. — Non precipitiamo le cose.
— Miserabili! — ruggì don Pablo. — E con simile canaglia ho intrapreso la guerra! Con simili uomini ho vinto due battaglie! Pirati!... Essi pirati!... Hearney, domani sarai morto!
— Calma, capitano — ripetè Michele.
— Sono calmo, amico mio. Guardate, non tremo più. La collera è scomparsa.
— Quando attaccheremo i ribelli?
— All'alba affronterò Hearney e lo farò appiccare.
— Avete ordini da darmi?
— Fate rinforzare la trincea di poppa e caricare i cannoni a mitraglia. Direte a mastro Josè di tenere pronti i suoi uomini e di mettersi alla ribolla. Il timone deve essere in nostra mano.
— Sta bene, capitano. Risalgo in coperta.
Il genovese strinse vigorosamente la mano che gli veniva sporta e si slanciò sulla scaletta; don Guzman invece, cupo, pensieroso, ma perfettamente calmo, si ritirò nella sua cabina.
Nessun altro fatto d'importanza accadde durante le prime ore del mattino. Solamente si notò che nessun ribelle abbandonò il ponte per recarsi a dormire. Senza dubbio temevano qualche cosa da parte dei messicani e volevano essere tutti pronti a respingere un improvviso attacco.
Alle cinque del mattino, essendosi calmato il vento e l'oceano, il Richmond tornò a poggiare verso la costa californiana. Alle cinque e mezzo don Guzman apparve in coperta. Era calmo, ma ne' suoi occhi balenava una cupa fiamma e la sua fronte era solcata da una profonda ruga. Diede uno sguardo alla costa, un secondo alle vele, un terzo ai suoi uomini che erano parte dispersi sul cassero e parte seduti ai piedi dell'albero di mezzana.
S'avvicinò a Michele ed a Josè che discorrevano appoggiati alla murata di babordo.
— Tutto è pronto? — chiese sottovoce.
— Tutto, capitano — rispose Michele.
— Dove sono i fucili?
— Nascosti sotto i cannoni. Oh! Oh! Hearney sul ponte!
Don Guzman si volse bruscamente. Il californiano era uscito dal boccaporto di prua e si era messo a passeggiare colle mani in tasca e la pipa in bocca.
— Quell'uomo mi sfida — disse don Guzman. — Bisogna essere ben audaci per salire in coperta.
— Vado a strangolarlo — disse Michele.
— Restate qui, amico, e tu Josè prepara un buon laccio. Fra dieci minuti appiccheremo quella canaglia.
Lasciò il cassero e raggiunse il californiano che si era messo a discorrere con alcuni fidi.
— Che fai tu qui? — gli chiese, mettendogli una mano sulla spalla.
Il californiano si volse e rispose con voce tranquilla:
— Fumo, capitano.
— Chi ti ha liberato dai ferri?
— Per Bacco, mi sono liberato io, capitano.
— Chi ti ha dato il permesso? Te l'ho dato io forse?
— Il permesso! Che bisogno ho io del vostro permesso? A bordo del Richmond non c'è più capitano.
— Miserabile! — urlò don Guzman. — Ah! Tu mi dichiari la guerra? Tu vuoi fare del Richmond un vascello pirata? Tu inciti i miei uomini a ribellarsi? Tenente Michele, fate appiccare quest'uomo!
Il californiano fece un salto indietro, emettendo un ruggito di belva.
— Io impiccato! — urlò. — Olà, compagni, fuori le armi!
Michele, mastro Josè e mastro Harguez si slanciarono verso il californiano, ma un'onda d'uomini li respinse. Nordisti, californiani, meticci e spagnoli, armati di coltelli, di scuri, di pistole, di sbarre di ferro e di manovelle, si erano gettati come un sol uomo dinanzi a Hearney. Un grido formidabile rimbombò a bordo del Richmond.
— Morte ai messicani! Abbasso don Guzman!
Don Pablo impugnò la sciabola colla dritta e una pistola colla sinistra, nel mentre i messicani s'armavano di fucili. I ribelli a quella vista si arrestarono.
— Deponete le armi! — gridò il capitano, con voce strozzata dall'ira.
Il californiano Hearney, armato di una scure, si fece innanzi.
— Capitano, ogni resistenza da parte vostra è inutile — gridò. — Voi siete diciotto e noi quaranta. Arrendetevi o daremo l'assalto.
Don Guzman gli sparò contro una pistolettata, ma il miserabile, che si teneva in guardia, fu pronto a gettarsi da un lato. La palla colpì invece un meticcio il quale cadde mortalmente ferito.
Urla di furore scoppiarono fra i ribelli. Mastro Josè e mastro Harguez si precipitarono verso i cannoni, per arrestare quella valanga d'uomini.
— Scioglietevi! — gridò per l'ultima volta don Guzman.
La sua voce fu coperta da terribili urla.
— Abbasso il capitano! Vendetta! Vendetta!
Don Guzman sparò una seconda pistolettata che abbattè un californiano. Quindici o sedici spari vi tennero dietro, tre ribelli e due messicani caddero insanguinando la coperta del vascello.
— Mastro Harguez, mitraglia quei vili! — gridò Michele. — Animo voialtri. Viva don Guzman! Viva il Messico!
Il mastro cannoniere si curvò sul cannone per darvi fuoco, ma subito si rizzò pallido come un cadavere e cogli occhi smarriti.
— Capitano!... Tenente!... — balbettò. — Hanno inchiodato il cannone!
— Maledizione! — gridò don Guzman. — Tira tu, Josè.
Il vecchio lupo di mare si slanciò verso l'altro cannone. Un urlo gli irruppe dalle labbra.
— O rabbia de satan!2 — tuonò con voce strozzata per l'ira. — Anche il mio cannone è inchiodato!
Pur troppo era vero. I ribelli, durante la notte, e senza essere stati visti, avevano rovinato i due pezzi d'artiglieria cacciando una punta d'acciaio nel focone.
— Avanti! — tuonò in quell'istante Hearney.
I ribelli si slanciarono verso il cassero schiamazzando e agitando freneticamente le scuri, i coltelli, le pistole, le sbarre di ferro, le manovelle, le aspe dell'argano. I messicani si ripiegarono in fretta e presero posizione dietro la trincea. Don Guzman e Michele li seguirono colla sciabola in pugno.
— Avanti, camerati! — tuonò per la seconda volta il californiano.
— Fuoco! — gridò don Guzman.
I messicani abbassarono i fucili e sedici spari rimbombarono l'un dietro l'altro. I ribelli, colpiti in pieno, retrocessero confusamente, lasciando due feriti e tre morti dinanzi al cassero.
— Coraggio, ragazzi! — urlò Hearney, alzando la scure. — Avete paura di quel gruppetto di messicani? Addosso, per Giove!
— Maldito!3 — borbottò il vecchio Josè, digrignando i denti. — Se posso cacciarti una palla in corpo non urlerai più.
I ribelli, incoraggiati dalla voce del californiano, tornarono animosamente alla carica, ma i messicani avevano avuto il tempo di caricare le armi e li ricevettero con un nutrito fuoco di moschetti che gettò a terra altri tre uomini.
Hearney ed i pochi che erano armati di pistole, risposero. Mastro Harguez e due messicani, che erano saliti su di un cannone per tirar meglio, caddero fulminati. Michele, diventato furibondo per la disgraziata fine del povero mastro, varcò la trincea per gettarsi in coperta, ma don Guzman lo trattenne. Del resto i ribelli, sgomentati dal fuoco dei messicani, si ritiravano precipitosamente.
Cercarono prima di riannodarsi presso l'albero di maestra, poi retrocessero fino all'albero di trinchetto, finalmente, snidati anche là dalle palle dei messicani, si rifugiarono nella camera di prua.
— Vili! — urlò Michele.
— Briganti! — gridò mastro Josè.
Don Guzman si avvicinò a mastro Harguez sperando di trovarlo ancora vivo, ma era già spirato. Aveva ricevuto una palla in fronte ed una in mezzo al petto.
— Povero uomo! — mormorò con voce commossa. — Ma giuro dinanzi a Dio che Hearney me la pagherà.
— Cosa facciamo, don Pablo? — chiese Michele.
— Stiamo a vedere quel che faranno i ribelli.
— Se li attaccassimo?
— Siamo troppo deboli, Michele. Loro sono vent'otto e noi tredici soli.
— E se non ci assalgono?
— Aspetteremo, e aspettando nulla avremo da perdere.
— Perché?
— Perché la nostra salvezza dipende solamente dall'incontro di una nave. Ora non ce ne sono, è vero, ma questa sera, domani o posdomani, possiamo trovarne qualcuna.
— Aspetteranno tanto i ribelli?
— Chi può dirlo?
— Cosa staranno facendo?
— Si consiglieranno — disse Josè.
— Attenti, amici — disse don Guzman, impugnando una pistola.
Un uomo usciva allora dalla camera di prua. Un messicano lo prese subito di mira col fucile, ma Michele gli abbassò l'arma.
— È un parlamentario — gli disse. — Aspettiamo un po'.
L'uomo apparso agitava un fazzoletto bianco che aveva annodato all'estremità d'una sbarra di ferro.
— Avanzati! — gli gridò don Guzman.
Il parlamentario, un californiano di alta statura che aveva il viso insanguinato e un braccio ferito, si fece innanzi arrestandosi presso l'albero di maestra.
— Cosa vuoi? — gli chiese don Guzman.
— Mi si concede di salire sul cassero? — chiese il californiano.
— Possiamo intenderci egualmente, restando ai nostri posti. Parla, spicciati.
— Capitano, le perdite sono gravi d'ambe le parti. Volete evitare un altro spargimento di sangue?
— Vi arrendete?
— Arrenderci noi! È a voi che intimiamo la resa.
— Ti concedo venti secondi per ritirarti e bada di non ricomparirmi più dinanzi né come ribelle, né come parlamentario. Vattene!
Il californiano si ritirò precipitosamente.
— Se continuava mezzo minuto ancora, lo mandavo dritto da compare Belzebù — disse Michele. — Corpo di un cannone! Hanno dell'audacia quelle canaglie di californiani!
— Cosa faranno ora? — chiese il vecchio Josè.
— Riprenderanno la pugna — disse don Pablo. — Fortunatamente non hanno molti fucili.
— Guarda! Guarda! — gridò Michele. — I furbi!
Una botte era stata gettata fuori dalla camera e dietro vi si erano cacciati due ribelli, l'uno armato di fucile e l'altro di pistola.
— Costruiscono una barricata — disse Josè.
— Ma una barricata mobile — aggiunse il capitano.
— Se potessi vedere la testa di uno di quei briganti! — mormorò Michele. — Che bel colpo! La farei scoppiare come una zucca!
Una seconda, poi una terza, poi una quarta botte rotolarono fuor della camera. Sei uomini si erano lestamente nascosti dietro.
Alcuni messicani fecero fuoco, ma senza buon esito, poiché quelle botti erano piene di ferraccio o di zavorra.
— Ci vorrebbe il cannone — disse Michele. — Facciamo una sortita, capitano.
— Vi riceveranno a colpi di fucile.
— E se stiamo inoperosi fra dieci minuti quelle botti saranno sotto il cassero. Toh, ne escono delle altre!
Altre sei botti rotolarono sulla coperta e raggiunsero le prime. La barricata, dietro la quale si affollavano i ribelli, si mise in movimento.
— Fuoco! — grido don Guzman.
Cinque o sei marinai fecero fuoco, ma le palle si schiacciarono contro la barricata. I ribelli risposero con una scarica generale delle loro armi da fuoco, che gettò a terra cinque messicani.
Don Guzman gettò un ruggito di rabbia. Non gli restavano più che sette uomini, compresi Michele e mastro Josè.
— Capitano, carichiamo quei briganti! — urlò Michele furibondo.
— Avanti! — tuonò don Guzman.
Si slanciarono giù dal cassero e si precipitarono a testa bassa e le armi in pugno, contro la barricata.
— Fuoco, ragazzi! — urlò Hearney.
Dodici colpi di pistola rintronarono abbattendo i cinque messicani che seguivano don Guzman, Michele e mastro Josè.
— Ammazza! Ammazza! — urlò don Pablo, spumante d'ira.
Ad un tratto i ribelli balzarono in piedi correndo incontro agli assalitori che in un batter d'occhio furono circondati, atterrati e legati malgrado la loro disperata resistenza. Hearney si fece innanzi con una scure nella destra e il berretto nella sinistra.
— Capitano, — disse, — se non opponete resistenza, vi giuro sul mio onore che non vi sarà torto un capello.
— Muori, pirata! — urlò don Pablo.
— Che il diavolo ti porti all'inferno — gridò Michele che tentava, ma invano, di spezzare i legami.
— Siete ben cattivi — disse il californiano, sorridendo. — Vi prometto di non farvi male e mi augurate la morte e l'inferno. By-God! è un po' troppo.
— Ma che vuoi fare di noi infine? — chiese don Guzman.
— Non lo so ancora, ma vi giuro che non vi si farà male alcuno.
— Non sarò io che crederò alla parola di un infame pirata.
— Avete torto, don Guzman. Se avessi voluto uccidervi avrei potuto farlo prima. Ma come ben vedete, siete vivo e vivi sono pure i vostri compagni, mentre tutti gli altri sono morti o moribondi.
— Ah! Il pirata è generoso! — esclamò ironicamente Michele.
— Non dimentico mai i favori ricevuti, signor tenente — rispose il californiano. — La mia libertà la devo a voi messicani. Olà, camerati, conducete questi uomini nelle cabine di poppa e guardate che a loro nulla manchi.
— Che ti colga un accidente! — disse Michele.
— Che al primo abbordaggio una palla ti sfondi il cranio, pirata — disse don Guzman.
— Che il diavolo ti porti all'inferno! — borbottò mastro Josè, digrignando i denti.
— Grazie — rispose il californiano. — Conduceteli nelle cabine, camerati, e chiudeteli per bene. Sono pericolosissimi, due di certo.
Un istante dopo i tre disgraziati messicani venivano chiusi a chiave nel quadro di poppa, dopo essere stati liberati dalle corde.