I naufragatori dell'Oregon/1. Il colpo di sperone del Wangenep
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I NAUFRAGATORI DELL’“OREGON”
CAPITOLO I.
Il colpo di sperone del “Wangenep”.
– Si vede?...
– Non ancora, padrone O’Paddy.
– Fulmini di Giove!... E questo ventaccio minaccia di mandare a picco la nostra carcassa!... Poteva ben darci un battello migliore quel signor Wan-Baer!...
– Attenzione alle onde!...
– È abile il timoniere, Aier-Raja?
– Sì, padrone.
– Bada che un falso colpo di barra è bastante per mandarci a bere, e per sempre.
– Quell’uomo è un valente marinaio.
– Lo scorgi l’Oregon?
– No, padrone.
– Dannazione!.. E la notte è così propizia per speronarlo!...
– Lo speroneremo?
– Sì, Aier-Raja.
– Purchè non coliamo tutti a picco!...
– La costa del Borneo non è lontana che tre miglia.
– Ma il canale di Macassar ribolle.
– Furfante!... Credi tu che ci regalino un milione per fare una gita sul mare?...
– Non ho questa pretesa.
– Lo credo, malese mio. Ehi!... timoniere d’inferno... bada!...
Un’onda mostruosa, color d’inchiostro, ma colle cime irte di candide spume che scintillavano fra la profonda oscurità, si rovesciò sulla nave con mille muggiti, facendola piegare sul tribordo.
– Fulmini di Giove! – riprese la voce di prima. – Un’altra come questa ed il Wangenep perderà le sue ruote.
– Ha già portato via due pale alle tambure di babordo, padrone O’Paddy.
– E l’Oregon ancora non appare!... Che sia andato a picco?... Quale fortuna per noi!...
– Giammai un milione sarebbe stato meglio guadagnato.
– Sì, ma simili fortune non toccano a me, malese mio. Sono nato sotto una cattiva stella.
– Ma lo guadagneremo ugualmente.
– Purchè il Wangenep urti bene. È così sgangherato!...
– Lo sperone mi pare che sia solido: farà uno squarcio immenso nel ventre dell’Oregon.
– E le nostre caldaie scoppieranno, Aier-Raja.
– Salteremo prima in mare.
– Hai preparato le cinture di salvataggio?
– Sì, padrone.
– E la scialuppa?
– Con un colpo di coltello cadrà in mare, ma... ed i nostri uomini?
– Che il mare se li porti via.
– Li compiango sinceramente, padrone; sono brave persone.
– Sì, dei pirati della peggior specie, capaci di assassinarti alla prima occasione.
– Padrone!...
– Cos’hai, Aier-Raja?
– Vedo un lume.
– Dove?...
– Laggiù, verso l’isola di Tawi-Tawi.
– Uno solo?...
– Uno solo, sì.
– Sarà un praho.1
– Un praho che naviga con questo tempaccio!
– Od un po’ di fosforescenza.
– Credo che abbiate ragione: è scomparso.
– Decisamente non ho fortuna.
– Verrà, padrone.
– Ma a quest’ora dovrebbe essere già qui: sono le due del mattino.
– Ed il mare peggiora sempre.
– E la nostra carcassa traballa sempre peggio, come un ubbriaco che ha bevuto tre bottiglie di gin. Ohè!...
Una seconda ondata, più gigantesca della prima, si precipitò sulla nave spazzandola da prua a poppa con violenza irresistibile e sfondando una parte delle murate di babordo.
– Fulmini di Giove!... Aier-Raja?...
Un grido di rabbia rispose alla chiamata.
– Aier-Raja – ripetè la voce, con una certa ansietà – cos’è accaduto?
– La scialuppa è scomparsa, padrone!...
– Mille tuoni!...
– L’onda se l’è portata via!...
– Tutto congiura contro di noi, adunque!...
– Cosa facciamo, padrone?...
– Speroneremo egualmente.
– Ma se le due navi affondano?...
– Tanto peggio!...
– Ma la nostra pelle?
– Rimarranno dei rottami.
– Ma i pesci-cani?...
– Non li temo io!... Non perdo il mio milione.
– Padrone!...
– Cosa c’è ancora?...
– Vedo tre fanali: il bianco, il rosso e il verde.
– È lui!... Ohè!... Uomini della macchina, avanti a tutto vapore!...
– Padrone, salteremo in aria!
– Sì, ma nel ventre dell’Oregon! A me la barra!
Questo dialogo avveniva la notte del 21 agosto 1872, a settanta miglia dall’isola di Tawi-Tawi, la prima dell’arcipelago di Sulù ed a dieci dalla costa settentrionale della grande isola di Borneo, all’uscita del mare di Sulù.
La nave che portava quegli uomini fra le onde tumultuose, che un vento furioso sollevava, era una vera carcassa che si reggeva a malapena alla superficie. Stazzava dalle tre alle quattrocento tonnellate: la sua prua era tagliata ad angolo retto, ma il ponte non aveva più la graziosa incurvatura delle solite navi, e cioè indicava che la sua chiglia doveva aver ceduto per l’età e pei troppo numerosi viaggi.
Le sue murate semi-sfondate, i suoi fianchi rientrati, i suoi due alberi già privi d’una parte delle manovre, indicavano che quel legno avrebbe ormai dovuto rifugiarsi, e per sempre, in fondo ad un cantiere, in attesa d’una completa demolizione. Perfino le sue ruote erano in disordine, sgangherate, mancanti di alcune pale; la macchina, forse recentemente riparata, era la sola che ancora funzionasse bene.
Infatti, malgrado le ondate continue, spingeva innanzi quell’ammasso di legnami e di ferramenta, tenuti insieme per un vero miracolo, con una celerità sorprendente. Doveva filare ancora i suoi sei o sette nodi all’ora.
Colui che si faceva chiamare O’Paddy si era collocato alla ribolla del timone insieme al suo compagno.
I loro sguardi, che avevano degli strani bagliori, parevano che volessero forare le cupe tenebre addensate sul mare. Si fissavano con ansietà sui tre punti luminosi che ora apparivano sulla fosca linea dell’orizzonte e ora si celavano dietro alle montagne d’acqua.
Il battello a vapore correva allora diritto verso l’isola di Tawi-Tawi, la cui massa imponente giganteggiava verso il nord-est. S’affaticava però assai, con quel mare sollevato dalla bufera.
S’alzava penosamente sulle onde, tentennando come un ubbriaco, perdendo ora un pezzo di murata ed ora un pezzo del coronamento; s’inabissava pesantemente negli avvallamenti con mille scricchiolìi e mille gemiti ed ora si rovesciava violentemente sul tribordo o sul babordo, tuffando nel seno delle acque spumanti le sue grandi ruote.
Pareva da un istante all’altro quella carcassa dovesse aprirsi per metà e affondare per sempre nei baratri di quel triste mare.
O’Paddy però, fermo alla barra del timone che stringeva con suprema energia, non cedeva d’una linea all’assalto brutale delle onde. Colla fronte aggrottata, il corpo curvo in avanti, gli occhi sempre fissi sui tre punti luminosi, i lunghi capelli neri sciolti al vento, immerso nell’acqua fino alle ginocchia, continuando i marosi a precipitarsi in coperta, sfidava l’uragano con coraggio disperato.
Di quando in quando una rauca imprecazione gli usciva dalle labbra contratte e lo si udiva poco dopo a mormorare:
– Vale un milione!... Bisogna speronarlo ben diritto!...
Il suo compagno taceva, ma teneva gli occhi fissi su alcuni uomini semi-nudi, di tinta giallastra, che si affollavano sulla prua del battello.
– Fa spegnere i fanali!... – gridò ad un tratto O’Paddy.
– Padrone – disse il compagno – come spiegheremo poi questo urto?... Crederanno ad una collisione disgraziata, non avendo scorto i nostri fanali?
– Diremo che le onde ce li hanno portati via.
– Ma il fanale bianco che sta in cima all’albero?
– Diremo che l’uragano ci ha spezzato il trinchetto. Non bisogna che l’equipaggio dell’Oregon ci scorga; potrebbe eseguire una rapida manovra e fuggire. Affrettati: siamo lontani un miglio.
Aier-Raja non esitò più e si slanciò verso prua gridando: – Spegnete i fuochi di posizione!...
Gli uomini che stavano affollati nel castello, s’affrettarono a obbedire. L’oscurità divenne così profonda sul ponte del battello, che O’Paddy non riuscirà più a scorgere nè la prua, nè l’albero al bompresso.
– È una vera notte d’abbordaggio – disse il comandante con uno strano sorriso che pareva un vero sogghigno. – Compiango i passeggieri dell'Oregon!... Ah! Se la nave affondasse di colpo e la mia potesse resistere, con questa oscurità potrei fuggire senza nemmeno essere scorto, ma... questa carcassa andrà in frantumi e buona notte a tutti!... Aier-Raja?
– Padrone.
– Le cinture di salvataggio.
– Eccole.
– Hai appeso i coltelli?
– Sì, padrone.
– Dammi la mia e tieni per un istante il timone.
O’Paddy afferrò una larga cintura contornata di grossi pezzi di sugaro, se la strinse al corpo, poi riprese la barra.
– Affrettati, Aier-Raja – disse poi – fra cinque minuti il battello ci mancherà sotto i piedi.
– Ma la scialuppa non esiste più, padrone.
– Sta presso di me e preparati a guadagnare un rottame. Ohè!... Uomini di macchina!... Carbone nei forni!... Avanti a sei atmosfere!...
I tre punti luminosi s’avvicinavano rapidamente tagliando la via al battello a vapore. Avevano già oltrepassate da una buona mezz’ora le ultime scogliere di Tawi-Tawi e filavano nel mare delle Celebes, tenendosi lontani trenta o quaranta miglia dalle coste della grande isola di Borneo.
Il battello a vapore precipitava la corsa, fendendo con impeto irresistibile le onde. La macchina sbuffava furiosamente, il vapore ruggiva e fischiava entro le pareti di ferro, le ruote battevano precipitosamente le acque sollevandole fino ai bordi ed un fremito sonoro scuoteva il ponte, la prua e la poppa.
I due vascelli non erano lontani che tre o quattrocento metri. Quello che stava per venire brutalmente speronato era un bello steamer d’alto bordo, di ferro, ad elice, assai più grosso dell’altro. Filava a tutto vapore, tanta era la sua certezza di non incontrare ostacoli in quell’ampio mare che è sgombro d’isole.
Ad un tratto, fra i muggiti delle onde, fra i fischi del vento e le rapide pulsazioni della macchina, echeggiò la voce di O’Paddy:
– Saldi in gambe!...
Poi con voce tuonante urlò:
– Ohè!... della nave!... Mille lampi!... Ci tagliate la via! Sullo Steamer si udirono delle grida di terrore, poi dei comandi precipitati, indi una voce che gridava:
– Macchina indietro!...
– A tutto vapore!... – disse invece O’Paddy, mentre un sorriso sinistro gli sfiorava le labbra.
Il battello a vapore aveva continuata la sua corsa verso lo steamer, il quale cercava di virare di bordo per evitare l’urto. Sul ponte di questo, alla luce dei fanali, si vedevano delle persone correre lungo i bordi, mentre echeggiavano urla d’angoscia.
O’Paddy, pallido ma risoluto, con uno sforzo potente tirò a sè la ribolla del timone, in modo che la prua del suo legno fosse proprio diritta all’asse dello steamer.
Un urto formidabile avvenne, seguito da un cupo rimbombo. Lo sperone del battello era scomparso nel ventre dello steamer, producendo un’immane squarciatura, attraverso alla quale già precipitavasi l’acqua con tremendi muggiti.
Fra lo stridìo del ferro che si fendeva, lo spaccarsi dei legnami, s’udì un clamore immenso, un clamore di voci angosciose, poi echeggiarono due formidabili detonazioni.
Il battello, squarciato dallo scoppio delle mal sicure caldaie, s’inabissava sotto i piedi dell’equipaggio. Due uomini però, prima che lo scoppio avvenisse, si erano aggrappati agli sportelli dei sabordi della nave speronata e inerpicandosi come le scimmie, erano balzati sul ponte.
Erano O’Paddy ed il suo inseparabile compagno. Appena però si videro dinanzi ad una folla di marinai e di passeggieri che si precipitava all’impazzata verso prua e verso poppa, una sorda esclamazione irruppe dalle labbra del primo:
– Maledizione!... – esclamò. – Temo di aver speronato male!...
Note
- ↑ Piccoli e rapidissimi velieri usati dai malesi.