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9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: sotto il fornice

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9. Esame particolare delle sculture dell’arco di Benevento: sotto il fornice
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[p. 113 modifica]Con questo quadro son terminati i sei grandi della facciata interna. Ora passeremo sotto il fornice.

Settimo quadro grande (sotto il fornice, a destra dell’osservatore, movendo fuori dalla città) Tav. XX.

In questo quadro è rappresentato un congiario, che significa la distribuzione gratuita di pane, grano, olio, vino, e qualche volta anche danaro, che gli imperatori romani facevano al [p. 114 modifica]popolo. Era detto congiario dalla parola congius, specie di misura che si usava appunto nella sudetta distribuzione di aridi e di liquidi1.

Traiano ne largì tre, i quali ebbero il merito di essere ispirati dall’amore che egli nutriva pel suo popolo, e che si cattivava da questo, mentre gli altri principi nel dispensare panem et circenses al popolo miravano a renderselo schiavo. Egli «Amari a civibus cupiebat magis quam honore affici2

Ed ei fu si largo nel dispensarlo che non ne volle esclusi coloro che erano stati indebitamente iscritti in luogo dei radiati. Al qual proposito è a chiarire che gli ammessi al benefizio del congiario erano iscritti in certe tavole; e, se di essi alcuno moriva o abbandonava la patria, veniva cancellato dal ruolo, e in suo luogo altri non poteva essere iscritto senza determinazione imperiale. Traiano, non tenendo conto veruno di queste rigorose prescrizioni, con somma liberalità ammise al congiario anche coloro che indebitamente erano stati iscritti nel posto dei radiati3.

Plinio nel suo panegirico a Traiano ci descrive con vivi colori un congiario; laonde, per la migliore intelligenza di questo quadro, torna utile riferirne alcuni brani; e il lettore me ne saprà grado.

»Con quale benignità poi fu dispensato il congiario? Quanto vi fu a cuore che niuno restasse privo della vostra liberalità? Fu dato eziandio a coloro che dopo il vostro editto erano stati sostituiti ai cassati, e furono adeguati agli altri coloro ai quali non era stato promesso. Chi dai suoi negozii, chi da indisposizione, questi dal mare, quegli dai fiumi trovavasi impedito: si aspettò, e si fece in maniera che niuno fosse ammalato, niuno occupato, niun lontano: venisse pure ognuno a suo piacimento, venisse ognuno quando avesse potuto…4»

»Giunto il giorno del congiario, stormi di fanciullini, che [p. 115 modifica]

Tav. XX.

[p. 117 modifica]erano il popolo futuro, soleano stare in osservazione del tempo che il principe uscisse in pubblico, e occupare le vie. I genitori aveano la briga di mostrare i loro pargoletti, e recandosegli in collo, insegnar loro delle dolci parolette e dei teneri vezzi: quelli ripetevano le cose onde erano imbevuti, ma il più delle volte coi loro preghi davano un vano assalto ai sordi orecchi del principe: e non intendendo essi ciò che avessero chiesto, nè ciò ch’era stato negato loro, l’esaudirgli era differito a quel tempo che lo capissero. Voi non soffriste neppur d’essere pregato, e quantunque il maggior diletto degli occhi vostri fosse il satollarsi della vista della romana semenza; ad ogni modo prima che vi vedessero o vi fossero presentati, ordinaste che i loro nomi fossero raccolti e registrati; affinchè fino dall’infanzia da voi nutricati ritrovassero in voi il padre comune, crescessero a spese vostre, se crescevano al vostro servigio, e col vitto da voi loro prestato arrivassero a poter militare sotto di voi, e tanto a voi fossero solo obbligati, quanto lo era ognuno d’essi al proprio genitore5

»È, a dir vero, grande incitamento il procrear figliuoli con la speranza degli alimenti, con la speranza dei congiarii, ma, più che per tanto, con la speranza della libertà, con la speranza della sicurezza6

Anche questa volta l’artista, che concepì questo quadro, e Plinio vanno di accordo armonicamente, da mostrarci la fedeltà storica dello avvenimento, non meno che quella dei bassorilievi del nostro Arco, i quali sono una riconferma di quanto dissi sul principio di questo paragrafo intorno alla natura dei bassorilievi romani nei monumenti in genere, di carattere essenzialmente storico.

Come ci dice Plinio, vediamo Traiano, sceso in mezzo al popolo, presenziare al congiario. Egli è sulla sinistra dell’osservatore, e benchè gli manchi la testa, lo si riconosce subito alle altre parti del corpo, alla statura, al portamento, alle vesti. Ha la tunica manicata, di sotto, scendente sino al ginocchio, il paludamentum di sopra, fermato da una fibula sull’omero destro [p. 118 modifica]e riversantesi per di sopra la spalla sinistra, da cui pende sino a mezza gamba. Ai piedi porta una leggiera calzatura, che fa distinguere la forma delle dita, e poi sull’alto una fasciatura attaccata alle suole. Gli manca tutto l’avambraccio destro e nella sinistra mano porta non un volume accartocciato, come dice Rossi, ma tavolette. All’anulare sinistro porta un anello con gemma. Alle sue spalle e al suo lato sinistro in quattro piani sono scolpiti dodici littori con le stesse vesti e fasci di verghe laureati come li abbiamo descritti negli altri quadri. Alcuni di essi poco si ravvisano, non tanto per le ingiurie del tempo, quanto per un vandalismo imperdonabile, scorgendosi che le parti mancanti nell’angolo a sinistra dell’osservatore, in alto, manifestamente sono state portate via da scalpellini; così come si ravvisa eziandio nell’altro quadro del fornice, in corrispondenza di questo. Anzi in ambedue i quadri, in quel sito, furono praticati a forza due buchi per mettervi l’arcotrave delle imposte di legno, con cui si chiudeva l’arcata di nottetempo, allorchè essa serviva di porta alla città.

Uno dei littori, privo della testa, dinanzi al Principe, sullo stesso piano più rilevato, quasi volgendogli le spalle, sembra intento alla materiale distribuzione del congiario; e, se non gli mancasse la mano e l’avambraccio destro, il suo atto sarebbe più manifesto; imperocchè dinanzi a lui è un basso tavolo ornato sui fronti della tavoletta con festoni e teste di bue intercalati, sostenente due pani di quelli che venivano dispensati, i quali chiariscono l’azione del quadro. Delle gambe che la reggevano non avanzano che due soltanto, di sezione rettangolare, con zampe di leone, delle quali una è rimasta scolpita a terra sulla base del marmo.

Quest’ultimo personaggio, che di certo dovea essere uno dei più importanti, viene da Rossi interpretato per un console, e poi, poco dopo, per il Prefetto dell’Annona, e ancora più appresso per Adriano. A me sembra piuttosto che rappresenti il Prefetto del Pretorio, avendo le identiche vesti dei littori del quadro, mentre il console avrebbe dovuto portar la toga. Rossi per contrario opina che il Prefetto del Pretorio sia il personaggio che è immediatamente alle spalle del Principe.

Di fronte alla precedente figura, al di dietro della tavola e [p. 119 modifica]quasi nel mezzo del quadro, è scolpita nel secondo piano una distintissima figura muliebre, vestita di una sottana o stola stretta ai fianchi dalla cintura solita delle donne romane e di un mantello che le scende sugli omeri, coprendole in parte la corona turrita, incastonata di gemme, che le posa sulle abbondanti chiome. Ella ha il viso rivolto verso il Principe, come in atto di prender consiglio da lui, e con la sinistra mano, che è monca, in atteggiamento di reggere qualche cosa, che poteva essere un pane. Son d’accordo con Rossi nel ritenere che questa sia l’augusta Plotina, sempre pronta a seguire il marito, ove fosse da compiere atti liberali.

Alla di lei sinistra è scolpito un grazioso gruppo: un uomo regge per i piedi, recandoselo a cavalcioni sul collo, un fanciulletto il quale con naturalissimo atto gli stringe fra la sinistra mano i capelli; e al tempo stesso ambedue sono intenti a guardare, e con maggiore espressione il fanciullo, la loro benefattrice Plotina. Vedendo questo gruppo e l’altro che è all’estremo destro del quadro, rispetto all’osservatore, si pensa con vago compiacimento all’espressione di Plinio7. «Labor parentibus erat, ostentare parvulos, impositosque cervicibus adulantia verba blandasque voces edocere.»

In prossimità della tavola e del gruppo descritto, vedesi un fanciullo in tunica e sopravveste. Esso, ch’è rivolto in modo espressivo a Plotina, sostiene con le mani un lembo di quella come se volesse mettervi dentro la sua porzione del congiario. Gli mancano le gambe, distrutte dal vandalismo dei monelli. Rossi si è ingannato nel credere che questo sia una femmina, e il suo errore è provvenuto dallo scambiare per capelli annodati sull’occipite le dita della mano della madre, la quale gli è da presso e lo sospingeva ad appressarsi al congiario. Spezzato l’avambraccio di lei, non si scorge più evidente questa mossa che era tra le più belle del quadro, e son rimaste come tracce dell’azione le sole dita attaccate sul cucuzzolo del fanciullo.

Nello stesso piano, più rilevato, in seguito alla descritta figura è quella di un fanciullo, il quale, raccolta la sua porzione, se ne [p. 120 modifica]va festante, recandosela in grembo alla sopravveste, avvoltolata appositamente. L’abito che indossa questo fanciullo, simile a quello dell’altro or ora descritto, formato di una specie di tunica o sottana e di una sopravveste, potrebbe essere l’alicula chlamys manicata, che si portava sino al tempo in cui si prendeva la porpurea pretesta8. È notevole osservare che questo fanciullo apparisce come tratto per mano dall’uomo che gli è appresso con una fanciullina a cavalcioni sul collo, sebbene tanto al primo che al secondo manchino le mani.

È pur graziosissimo quest’altro gruppo accennato, che parte con la sua porzione ricevuta. L’uomo ha il passo affrettato di chi si è tolto di briga e con sensibili segni di contento. Esso ha il guardo diretto al fanciullo, che a sua volta pur lo mira, e se lo trae per mano con la destra, mentre con la sinistra regge a cavalcioni sul collo una fanciulla, la quale ha china la faccia a mirare il fratellino. Quest’ultima ha i capelli ricci, ondulati ed annodati in una treccia circolare sull’alto del cucuzzolo, nè porta la mitra turrita come asserisce Rossi; ha una veste stretta alla cintola da un cingolo e i piedi scalzi. Il padre ha di sotto la tunica stretta alla vita e alquanto corta da non giungere ai ginocchi, e al di sopra una veste che sembra identica a quella che porta il fanciullo a fianco a lui e l’altro che è a cavalcioni dell’altro uomo descritto.

Qui bisogna soffermarsi un poco, per migliore intelligenza di questa foggia di vestire. Ho detto che i fanciulli portavano la alicula chlamys, che era una veste con le maniche, ma vi deve essere confusione nello intendere la forma di questo abito. A me sembra che l’alicula fosse una specie della tunica, che nel nostro quadro vediamo più lunga nei fanciulli di quella che portano gli adulti, e che la chlamys indistintamente, come un mantello, la portassero fanciulli e adulti per preservarsi dalla pioggia e dal freddo. E in sostegno del mio asserto sta il fatto che io scorgo con evidenza costruita alla stessa identica maniera tanto la sopravveste dei primi che dei secondi. Altro particolare degno di nota è che quest’ultima è senza collo, ed in cambio ha largo scollato, da lasciar passare per entro il colletto della tunica sottoposta. Mi [p. 121 modifica]si mostra proprio simigliante alla sopravveste o cocolla dei nostri monaci; ammeno che non fosse proprio il sago cucullato9 del quale terrò parola in seguito. E, come si usa da noi di rovesciare sugli omeri i lembi del mantello abbottonato al collo, per esser liberi nelle movenze delle braccia, così si mostra dalle figure del nostro quadro portarsi la descritta sopravveste.

In un sol gruppo, ma in tre piani differenti, son tre donne, tutte con in capo la mitra turrita, tutte vestite di stola, al disotto, stretta dalla solita cinta del pudore, e della sopravveste o palla, tutte con le chiome annodate graziosamente sull’occipite, tutte rivolte all’augusta Plotina. Di esse la più rilevata porta vagamente stretta al seno in naturalissima posa una fanciullina di tenerissima età, dalla veste con cintura, come l’altra che è portata dall’uomo a cavalcioni. Essa appoggia la sua destra sull’omero della madre.

Nell’angolo destro del quadro, rispetto sempre all’osservatore, sono scolpiti due grossi platani, (platanus orientalis di Linneo) evidenti per le foglie, sostenute da un lungo picciuolo, grandi, palmate, col lembo diviso in cinque lobi principali, col margine profondamente dentato. Queste piante furono molto amate dai Romani, che le portarono in Italia dall’Arcipelago Greco10; Plinio Secondo ne parla nella lettera a Caninio Rufo. Il loro gusto e trasporto per tale pianta giunse a tanto che si narra di Ortensio partirsi da Roma per recarsi ad inaffiare col vino quelli che aveva nella sua villa del Tuscolo11. Rossi ritiene erroneamente che sieno delle querce.

La presenza di quegli alberi lascia supporre che il sito scelto per la distribuzione del congiario sia stato l’aperta campagna, e non il foro, come opina Rossi, perchè vi manca qualsiasi accenno architettonico di prospettiva di quest’ultimo luogo. Ed è più probabile che sia stata scelta la prima per la ragione che niun altro imperatore estese come Traiano il congiario a tanta classe e a [p. 122 modifica]tutte l’età dei cittadini; e il foro, per conseguenza, non sarebbe stato capace di contener tanto popolo. Siccome le due descritte piante portano scolpito il frutto, è da argomentarsi presumibilmente che il congiario ebbe luogo sulla fine dell’estate e il principio dell’autunno.

Quando io penso alla importanza che si è voluta dare ai due quadri sotto il fornice dell’Arco di Tito in Roma, oltre che per i pregi artistici, per portare scolpiti i famosi candelabro e tabernacolo del tempio di Gerusalemme, io mi riconfermo nel concetto che, per quanto sia squisita un’opera d’arte, non sieno sufficienti requisiti i suoi pregi per renderne popolare la rinomanza nel ceto degli artisti e dei dotti, ove il chiodo non si batta e ribatta dai critici e dai laudatori. Con sommo rispetto al valore artistico delle sculture dell’arco di Tito, io mi dimando se mai dotti e artisti, italiani e stranieri, si sieno soffermati alcun poco dinanzi al nostro monumento, e più che dai libri abbiano tratto il loro giudizio dai criterii proprii, dal proprio gusto. Certo ciò non è mai avvenuto, se, come feci vedere in altra parte, le lodi del nostro monumento sono accennate modestamente in certi libri, che ne hanno appena parlato. E pure quanto si sarebbe potuto scrivere sulla importanza storica di questo quadro che è la sintesi più bella dei passi del Panegirico a Traiano riferibile al congiario, e quanto più sul suo valore artistico! Quale bella disposizione, quale espressivo atteggiamento dei personaggi, quale finezza di esecuzione dei particolari delle acconciature del capo, delle svariate vesti, delle calzature, e via via!. Hanno la loro fortuna in rinomanza anche le opere d’arte; e non sempre il giudizio umano è giusto dispensiero di gloria.

Ottavo quadro grande (sotto il fornice, di rincontro al precedente) Tav. XXI.

Questo quadro rappresenta uno dei solenni sagrifizii offerto a Giove Capitolino da Traiano nel suo quinto consolato12. Egli medesimo, come Pontefice Massimo, entra in azione nella maestosa toga che gli abbiam veduta negli altri quadri; soltanto che in questo un lembo di essa more sacrorum, gli copre il capo per [p. 123 modifica]la solenne cerimonia, e al di sopra una corona di alloro glielo cinge. «I distintivi del Pontefice Massimo erano la toga pretesta e l’apice in testa chiamato titulus»13; però sappiamo pure che per rito sacro in occasione di sacrifizii si soleva invece portare sul capo un lembo della toga14. Per tale ragione vediamo in questo quadro che Traiano non porta l’apice in testa, ma la toga. È monco d’ambo le mani, ma si comprende dall’atto che è intento a ricevere qualche cosa, forse l’incenso, che gli porge in una cassettina, detta acerra, il vase dei profumi, una giovinetta che gli è di fianco, una delle camille, reggente con la sinistra mano quella e con la destra levandone il coperchio. Ella porta una corta stola stretta alla vita, cadente poco oltre il ginocchio, i capelli spartiti dalla scriminatura, con due ciocche passanti per sopra gli orecchi e indi scendenti sciolte sugli omeri. Rossi a torto dice che questa e l’altra sien due camilli.

Le camille ed i camilli erano ministri degli dei; però queste voci passarono a significare quei fanciulli e quelle vergini impuberi che assistevano nei sacrifizii15 e facevano le somministrazioni ai sacerdoti. In questo quadro son due delle seconde, l’accennata e l’altra alla sua destra, ma nel maggior rilievo, al presente priva della testa e della mano e della gamba destre.

Fra mezzo le due camille ed il Pontefice Massimo è scolpita un’ara mobile, una specie di tripode, di cui avanza la mensa superiore col fronte ornato e contenente il sacro fuoco, e due gambe collegate in croce da due traverse. I piedi sono a forma di zampe di leone.

Alle spalle delle camille è il tibicine, il quale col mesto suon della tibia accompagnava la solenne funzione. Era richiesto nei sagrifizii, non meno che nei giuochi e nei funebri riti. L’istrumento musicale è stato rotto, ma ai tempi di Rossi ne avanzava il becco fra le labbra del tibicine, il quale ha gonfie le gote, come in atto di soffiar entro la tibia, e la destra in atteggiamento di reggerla. Questo personaggio è togato e ha cinto di lauro il crine, come [p. 124 modifica]altri sei che rappresentano altri sacerdoti minori. Quello fra essi che è tra la vittima ed il camillo monco di testa è creduto da Rossi sia Adriano, ma con nessun fondamento, a creder mio, giacchè non gli somiglia affatto. Esso porta nella mano sinistra un rotolo.

I soliti dodici littori in tunica, chlamys e fasci laureati e la corona di lauro sul capo, sono scolpiti in tre piani dei quadro. E finalmente nell’angolo a sinistra dell’osservatore si vede effiggiata l’immolazione della vittima, la quale è un giovenco, trattenuto pel muso e per il corno sinistro da un popa o vittimario, gli autori facendo distinzione tra i popi e i vittimarii16. Quest’ultimo popa ha il capo laureato e una veste frangiata, la quale, stretta alla vita da larga cintura, come di cuoio, gli scende sino a mezza gamba, lasciandolo nudo nel resto del corpo. Egli è inginocchiato sulla sinistra e trattiene il giovenco sul destro ginocchio; ma ora l’avambraccio gli è stato rotto, e restangli le dita della sinistra mano scolpite sul muso del giovenco. Porta al fianco sinistro due coltelli racchiusi in una guaina triangolare, ornata sul piatto. Un altro vittimario è nell’estremo del quadro, a sinistra, vestito appena sul basso come il precedente laureato, e portante al fianco sinistro identica guaina. Egli imbrandisce nella mano destra levata una specie di maglio, come la clava d’Ercole, in parte rotto, col quale sta per abbattere la vittima. Per tal fine si usava tanto il malleo che la scure17; nel fregio vedremo che i vittimarii portan la seconda. La sua azione è naturalissima e precisa, come quella dell’altro popa che trattiene il giovenco.

Da ultimo, alle spalle del precedente, un terzo popa, rappresentato in simile foggia degli altri due, porta sull’omero sinistro un gran vase con manichi, che Rossi vuole sia il prefericolo, il quale veramente serviva per riporvi il vino18. Piuttosto par che sia di quelli che eran detti capedines, da capiendo, perciocchè formati coi manichi19 ed impiegati nei sacrifizii. Questo popa porta pure il malleo, meglio conservato di quello del precedente.

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Tav. XXI.

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Questo quadro ha molto sofferto per le ingiurie degli uomini e del tempo, onde non se ne possono ravvisar tutti i pregi; ma non per tanto molto ancora vi si scorge di bellezza e di finezze d’arte nella disposizione dei personaggi, nelle espressive loro movenze, nei maestosi aggruppamenti delle pieghe. Segnalati fra gli altri sono i due vittimarii che immolano il giovenco, l’uno in ginocchio per trattenerlo e l’altro in atto di colpirlo col maglio; e stupenda la natural posa e la squisita notomia del braccio e della mano del personaggio che è nell’estremo del quadro a sinistra di Traiano. La sola mano costituirebbe uno dei più stupendi pezzi scultorii dell’arte romana.

Note

  1. Montfauçon, tom. I, pag. 355.
  2. Sifilino, comp. di Dione, nella vita di Traiano.
  3. Plinio, paneg. cap. XXV. o annotaz. al detto capit. del traduttore Pio Alessandro Paravia e di E. Gros, Venezia, Gius. Antonelli, 1837.
  4. Capit. XXV.
  5. Capit. XXVI.
  6. Capit. XXVII.
  7. Paneg. cap. XXVI.
  8. Vaslet, op. cit. pag. 109.
  9. Aula, op. cit. pag. 42.
  10. L’Architettura del legno— Milano, B. Saldini, 1883, pag. 19 del testo.
  11. Epist. lib. 1. lett. III. e nota del traduttore alla detta lettera, nell’edizione citata.
  12. Rossi, op. cit. numeri 533 e 586.
  13. Ferdinando Secondo, della Vita pubblica dei Romani, Napoli 1784, tom. II. pag. 27 — E Nieupoort, op. cit. pag. 255.
  14. Aula, op. cit. tom. II. pag. 35.
  15. Pantheum mythicum, op. cit. pag. 51.
  16. Ferdinando Secondo, op. cit. tom. II. pag. 56.
  17.  id. op. cit. tom. II. pag. 60.
  18. Idem. luogo cit. pag. 58.
  19. Cicerone, Gli uffizii, I paradossi, tomo 2. nota 3. alla pag. 608, Napoli, Giuseppe Asil. Elia, 1768.