I malcontenti/Lettera di dedica
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A SUA ECCELLENZA
IL SIGNOR
GIOVANNI MURRAY
Residente per Sua Maestà Britannica presso
la Serenissima Repubblica di Venezia1
Conosciuto adunque di V. E. il carattere, sperai potervi dare un testimonio della mia sincera venerazione, senza dir cosa che vi potesse spiacere. Fondai maggiormente la mia speranza sul mio costume medesimo, nemico di quell’arte screditata e servile, con cui al suono di pompose laudi comprasi da taluno la protezione de’ Mecenati. L’unico pregio di cui mi vanto, è la semplice verità. Niuno ha potuto di me dolersi ch’io l’abbia fatto arrossire, caricandolo di quegli encomi che sa di non meritare, o che abbia offesa la sua modestia, svelando quelle virtù che ama di coltivare nascostamente. Questa rigorosa osservanza l’userò con Voi, più di quello che con altri finora ho fatto. Non farò parola del vero merito che possedete; non parlerò della Vostra illustre Famiglia passata dalla Moravia in Iscozia sino dal primo secolo dell’Era Cristiana, imparentata col Regio sangue di più Sovrani Scozzesi, valorosa nell’armi e memorabile nei governi, benchè di questo potrei parlare senza sdegnarvi, non potendosi da Voi nascondere quelle verità luminose, che sono rese pubbliche dall’istoria. Il grado che Voi sostenete di Regio Ministro in questa Eccelsa Repubblica, dimostra bastantemente che il Monarca Britannico apprezza, egualmente che il vostro sangue, il vostro esimio talento. Queste sono cose assai note, ch’io posso dire liberamente, perchè compariscono da per se stesse agli occhi del pubblico, senza ch’io vi aggiunga parola. Tacerò tutto quello che potrei dire di Voi medesimo. I vostri amici vi conoscono bastantemente, senza che io mi affatichi per darvi loro a conoscere, e fuori dei vostri amici. Voi non curate di essere vanamente esaltato. Supplito valorosamente alle vostre Regie incombenze. Voi amate di vivere tranquillamente in società piacevole, trattando con cuore aperto e sincero quelle persone che vi degnate di ammettere alla Vostra amabile conversazione. Io pure per mia fortuna, e per Vostra parzialissima degnazione, ho l’onore talvolta di essere della vostra partita. Le mie Commedie mi procacciarono questo bene; Voi vi compiaceste di loro, e voleste onorar me medesimo della Vostra liberalissima protezione. Ne riconosco il vantaggio, e spero di essere compatito, se procuro di profittarmene. La Vostra approvazione qualifica la mia intrapresa; Voi conoscete il gusto fino della Commedia; l’avete appreso dai buoni Autori, e quelli precisamente dell’Inghilterra vi hanno della forza comica illuminato. Anch’io, quantunque ignaro di cotal lingua, coll’ajuto delle traduzioni migliori, ho studiato di profittare colle osservazioni più serie di tai valorosi Maestri, e tutta quella forza di politica e di morale che ho sparsa ne’ scritti miei, è opera dell’imitazione studiata sugli originali dell’Inghilterra. Il vostro celebre Shakespeare, venerabile non meno sui Teatri Britannici, che presso le nazioni estere ancora, ha unito perfettamente in se stesso la Tragica e la Comica facoltà. Egli è alla testa degl’innumerabili Autori Inglesi che hanno illustrate le Scene, e al giorno d’oggi lo preferiscono a tutti gli altri. In fatti nelle opere sue trovasi tale artificio nella condotta, tal verità nei caratteri, e tale robustezza nei sentimenti, che può servire di scuola a chiunque vuole intraprendere una sì faticosa carriera. Egli non ha osservato nelle opere sue quella scrupolosa unità di tempo e di luogo, che mette in angustia la fantasia de’ Poeti, seguendo in questo la libertà dei Spagnuoli, che malgrado anch’essi al precettore Aristotile, hanno empiuto per tanti secoli i loro Teatri di opere maravigliose, istruttive e piacevoli. Per me tengo per sicurissimo, che Aristotile colla sua poetica, e Orazio suo imitatore, ci abbiano recato assai più danno che utile. Prima di loro Euripide avea composto delle buone Tragedie, colla traccia soltanto della ragione e del costume de’ tempi suoi, e se non avessero gl’idolatrati maestri imposto il giogo servile alla posterità, sarebbesi l’ingegno dell’uomo da se diretto nella mutazione de’ secoli, a seconda del genio delle nazioni e dei costumi del Mondo. Gl’Inglesi e gli Spagnuoli, com’io diceva, sciolti si sono dall’ingiurioso legame, e seriamente pensando non essere la Rappresentazione Teatrale se non se un’imitazione ragionevole delle azioni umane, o Tragiche, o Comiche, a tenore delle persone, o dell’argomento che prendesi a maneggiar dall’Autore, si mantennero in libertà di dilatare l’azione al tempo necessario all’intiera consumazione de’ fatti storici, o favolosi, e si valsero della mutazion delle Scene alla condotta loro opportune. E ridicola la ragione di quelli che sostengono necessaria l’unità del tempo e del luogo: dicon essi non essere verisimile che si consumi in tre ore l’orditura di un fatto, al di cui compimento furono necessari degli anni, ed essere altresì contro i precetti della verisimiglianza far passar l’uditore da una camera ad una piazza, dalla città alla campagna, e da un paese ad un altro. Se i spettatori di una Tragedia, o di una Commedia, presumessero di vedere in Teatro il verisimile perfettamente eseguito, partirebbero malcontenti da qualunque scenica Rappresentazione, poichè per quanto l’arte s’ingegni d’ingannare chi ascolta, non sarà mai vero che nel periodo di tre ore possano accadere quei fatti che sul Teatro si rappresentano, e che in un luogo solo possano combinarsi tante azioni diverse. Aristotile istesso accorda che in tre ore di tempo si possano raffigurare dei fatti possibili in un giro di sole, e perchè dunque non si potranno raffigurare quelli di un anno, di un lustro, e dell’età di un uomo se occorre? Se necessaria è l’immaginazione dell’uomo per appagarsi dell’apparenza, codesta immaginazione può estendersi senza misura, e il verisimile che vanamente si cerca nell’angustia del tempo, nella ristrettezza del luogo, basterebbe si riconoscesse nei caratteri, nelle passioni e nella combinazione artifiziosa degli accidenti. Ma pur troppo si veggono questi rigorosi seguaci di Orazio e di Aristotile osservare con stento i precetti delle unità, e trascurare le regole della ragione dettate dalla natura, ed approvate dall’universale dei popoli. Ecco il perchè (Signore) ho io nella presente Commedia introdotto per episodio un giovane male iniziato in quest’arte. Volendo egli, per segnalarsi, imitare il celeberrimo Shakespeare3, senza averlo prima studiato bene, e senza quei principi di natura che sono al Comico necessari, non può riuscire che una ridicola caricatura. Mi sono valso altresì di una simile congiuntura, per render pubblica la mia venerazione inverso un così rispettabile Autore, e rendere di lui nome palese a chi per avventura non lo avesse ancor conosciuto.
Posto ch’io mi era determinato di dedicare all’E. V. una mia Commedia, parvemi che toccar dovesse una tal fortuna a questa precisamente, che di un vostro compatriota ragiona, e spero che in grazia sua mi accorderete quella protezione che io non merito, e di potermi dire ossequiosamente
Di V. E.
Umiliss. Devotiss. Obblig. Servidore |
- ↑ La presente lettera di dedica fu stampata in testa alla commedia l’anno 1758, nel t. IV del Nuovo Teatro Comico dell’Avv. C. G., Venezia, presso Franc. Pitteri.
- ↑ Così il testo. Forse è da leggere esterni.
- ↑ Nel testo del Pilteri si legge Shakespeir, ma più sopra il nome è stampato esattamente, e non si può incolpare di ignoranza il Goldoni, l’amico del Murray e dello Smith (v. dedica del Filosofo inglese, vol. X), del quale a nessuno sfuggirà l’acume e il buon senso in questa pagina dimenticata.