I briganti del Riff/16. Un duello fra gitane

16. Un duello fra gitane

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15. Un supplizio spaventevole 17. I due leoni

16.

UN DUELLO FRA GITANE


Mentre i due studenti venivano condotti al supplizio, Zamora, accerchiata da sei cavalieri che tenevano gli yatagan sguainati, veniva condotta verso la cima della collina sulla quale si vedeva biancheggiare una delle solite cube. Per precauzione le avevano legate le braccia dietro il dorso ed i piedi alle larghe staffe, per impedirle di tentare la fuga.

La povera fanciulla aveva gli occhi gonfi di lagrime, ma attraverso a quelle lagrime balenavano lampi sinistri. Invano aveva pregato i banditi di condurla là dove si dovevano giustiziare i due giovani studenti, promettendo di non muoversi; invano aveva minacciato di far distruggere, fra poco, tutto il duar dagli spagnoli. I briganti si erano accontentati di ridere e di stringere di più i loro cavalli intorno a quello della gitana.

Il piccolo drappello attraversò alcune altissime spalliere di fichi d'India; poi, con una breve galoppata, raggiunse la cuba la quale sorgeva sull'orlo di un profondo precipizio.

— Vecchia Babà!... — gridò il capo della scorta, smontando da cavallo.

La Strega dei Vènti, che dopo la distruzione della sua prima dimora si era alloggiata lassù, non indugiò a mostrarsi.

— Sei tu, Omar? — chiese. — Mi conduci la Colomba di Siviglia? L'aspettavo.

— È la Jena del Gurugù che te la manda.

— Lo sapevo — rispose la vecchia megera, con un sorriso.

— Saprai custodirla?

— Credi che io non sia capace di custodire questa fanciulla? Sono vecchia, ma i miei muscoli sono sempre d'acciaio.

— E l'altro tuo protetto?

— Taci.

Il capo del drappello slegò i piedi alla gitana e la mise a terra, senza però sciogliere le corde che le stringevano le braccia.

— Abiterai qui — le disse. — La vecchia è brutta, ma non cattiva, ed io credo che te la intenderai presto con lei.

— Oh, andremo perfettamente d'accordo, lo vedrai, poiché io la tratterò come se fosse una mia figlia!... — rispose la Strega dei Vènti, non senza però una certa ironia. — Asciuga le tue lagrime, Colomba di Siviglia, e non pensare più ai tuoi amici.

— Miserabile!... — urlò la gitana, balzando avanti come una pantera, e tentando di spezzare i legami che l'avvincevano. — Non sai tu che li hanno condotti al supplizio?

— Si saranno meritata la morte — rispose freddamente la megera. — In questo paese non si perdona nemmeno una semplice offesa, e poi erano due spagnoli, e questa brava gente ora è in guerra con quelli di Melilla, e non si poteva tollerare la presenza di due spioni.

— Spioni hai detto, vecchia strega? — gridò Zamora.

— Non guastarti il sangue, dolce Colomba di Siviglia — disse Siza Babà. — E poi che cosa importa a te, se questi bravi uomini hanno accoppati i due chitarristi?

— Erano miei amici.

La vecchia scrollò le spalle, poi spinse ruvidamente la gitana dentro la cuba, mentre la scorta si allontanava gridando: — Salute e lunga vita a Siza Babà!

La gitana, appena fu dentro alla cuba, gridò: — Che cosa vuoi ora da me, vecchia dannata?

— Che cosa voglio? Nulla.

— Ed allora lasciami andare.

— Dove?

— Dove voglio io.

— Via, via, Siza Babà non commetterà mai una simile imprudenza! Tu non sei pratica del paese, potresti smarrirti in qualche gola abitata da pantere o da leoni, e non voglio che il tuo bel corpo serva di cena a quelle bestie.

— Ti ripeto di lasciarmi andare — urlò la gitana.

— Non vedi che il sole sta per tramontare? — disse la megera colla sua voce nasale un po' ironica. — Quando il grande astro sparisce, allora le bestie si mettono in caccia.

— Dammi uno dei tuoi yatagan e vedrai che io non avrò paura a traversare le selve anche di notte.

— Via, via! — esclamò Siza Babà. — Sii buona, Colomba di Siviglia ed attendi tranquilla che ritorni il Falco.

— Quale falco?

— Aspetta che venga e lo saprai — disse poi.

Un sospetto balenò nel cervello di Zamora.

— È Janko, è vero, il miserabile che ha tradito i miei compagni?

— Janko!... Non so chi sia.

— Tu menti!...

— Sai, Colombella di Siviglia, che ti trovo assai cattiva? Eppure mi sentirei di amarti come una figlia, poiché anche tu sei una zingara come me.

— Dammi una prova della tua pretesa affezione. Liberami dai legami che mi stringono le braccia.

— Per vederti poi scappare? Ah, no, Colombella di Siviglia. Siza Babà non è tanto sciocca!

— Non vuoi? — urlò la gitana, dibattendosi disperatamente.

— Per ora no.

— Non vuoi dunque che vada a vedere, un'ultima volta, i miei amici prima che muoiano?

— A quest'ora non saranno probabilmente più vivi, e poi tu non sai dove il nuovo sceicco li ha fatti condurre.

— Saprei trovare le loro tracce. Tu sai, che noi gitani, non c'inganniamo mai sulla buona direzione.

— Non dico di no. Tuttavia tu non uscirai di qui almeno per questa notte, poiché il Falco non sarà qui prima di domani e forse anche più tardi, quantunque gli abbia fatto dare il miglior corsiero della tribù.

— Vecchia dannata!... Tu parli di Janko, dell'uomo che il capo dei gitani di Siviglia mi ha messo ai fianchi perché m'impedisse di trovare il totem del primo re zingaro.

— Janko!... Chi sarà mai? Il totem! Che cosa potrà essere? — rispose Siza Babà, accendendo una lampada di rame piena d'olio di sesamo, poiché ormai l'oscurità cominciava ad invadere la cuba. — Io non so niente. Gettati su quell'angareb che è coperto d'una pelle ben soffice e che non ha pulci, perché io fabbrico e vendo ai marocchini delle polveri che le distruggono. Lasciami preparare la cena, poiché m'immagino che avrai fame. Mi hanno regalato appunto oggi delle costolette di montone ben grasse che devono struggersi in bocca.

— Te le mangerai tu insieme al Falco.

— Allora non sarebbero più mangiabili — rispose tranquillamente la vecchia. — Fa troppo caldo in questo paese, e la carne non dura nemmeno dodici ore... Orsù, coricati, e non farti cattivo sangue. Finché non diventerai buona io non ti slegherò le tue belle braccia.

— Lasciami andare!... — urlò un'ultima volta la giovane gitana, accostandosi minacciosamente alla Strega dei Vènti.

— Che cosa vuoi fare, tu, mia povera Colomba? — esclamò Siza Babà, staccando rapidamente un yatagan ed impugnandolo con mano ancora salda. — Non vedi che hai le ali legate, mentre io sono armata? Che il sangue dei gitani non macchi la tomba del santone mussulmano che dorme sotto i nostri piedi!

— Saresti tu capace di uccidermi?

— In questo paese, dove uomini e donne sono continuamente alle prese coll'eterno loro nemico, lo spagnolo, si diventa crudeli ben presto, e non si tiene conto d'una vita umana. Guardati, Colomba di Siviglia!... Ora lasciami tranquilla che mi hai annoiata abbastanza, e poi ho da preparare la cena.

Riappese al chiodo l'yatagan, accanto all'altro, da un sacchetto tolse un pacchetto ed uscì dalla cuba, perché il fornello si trovava al di fuori.

La giovane gitana dopo d'aver seguito cogli sguardi scintillanti la strega, si era rovesciata sullangareb. Piangeva, e dalle sue labbra usciva, di quando, in quando, il nome di Carminillo. La disgraziata si rotolava sullangareb, mandando grida inarticolate e tentando sempre di rompere i legami. Se fosse stata libera non avrebbe avuto paura della Strega dei Vènti. Con uno dei yatagan, appesi alla parete, si sarebbe presto liberata dalla vecchia arcigna.

Per dieci minuti continuò a dimenarsi, facendo sforzi supremi. Le corde, formate di peli di cammello, le entravano nelle belle braccia rotonde, facendole sanguinare, ma non sentiva il dolore. Ad un tratto mandò un grido.

Siza Babà, che stava cucinando le costolette di montone su un fornello primitivo, si affacciò alla porta chiedendo: — Che cos'ha la dolce Colomba di Siviglia da gridare?

— Nulla — rispose la gitana.

— Ed allora perché mi spaventi? Calmati, bella fanciulla. Noi ceneremo tranquillamente da buone amiche, anzi, come da madre e figlia, e poi ci riposeremo. L'asilo è sicuro ed i leoni qui non entrano.

— Mi scioglierai allora?

— Ma no, ti darò da mangiare io.

— Ah, canaglia!...

— Sei cattiva, ragazza. Io dubito di poterti domare, ma verrà il Falco e vedremo se tu sarai capace di resistergli.

Ciò detto tornò al suo fornello rivoltando le costolette schierate su una vecchia e pesante graticola di ferro.

La gitana per poco non si era tradita. Continuando a dibattersi aveva sentito allentarsi un legaccio che le stringeva il polso destro e non aveva saputo frenare un grido di gioia.

— Io spero di riuscire — mormorò quando si ritrovò sola. — Se la vecchia cercherà d'impedirmi di andare in cerca dei miei amici, le spaccherò la testa con un colpo di yatagan.

Si rovesciò sul dorso e ricominciò ad allentare i legami, non badando al dolore.

Comprese però ben presto che sarebbe stato necessario non poco tempo e pel momento, per non farsi sorprendere dalla strega, si fermò.

— Quando dormirà ricomincerò il lavoro — disse. — Da questa cuba me ne andrò prima che spunti l'alba.

Siza Babà in quel momento rientrava portando su un piatto di stagno, tutto ammaccato, una mezza dozzina di costolette, le quali esalavano un ottimo profumo.

— Ecco una cena che non rifiuterebbe nemmeno il santone che sta sepolto sotto i nostri piedi, se avesse ancora i denti in buono stato!... — esclamò. — Mia dolce Colomba di Siviglia, vieni a tenermi compagnia.

— Sì, se mi sleghi — rispose Zamora.

— Ti ho detto di no già tre o quattro volte, è quindi inutile che tu insista. E poi tu non hai bisogno delle tue mani per mangiare. M'incarico io di servirti.

— Rifiuto.

— Vuoi morire di fame?

— Mangia tu, vecchia strega.

— Le tue offese non intaccano la mia vecchia pelle — disse Siza Babà, sorridendo. — Oh, ne ho ricevute dai riffani prima di farmi stimare!... Non vuoi mangiare? Lavoreranno le mie mascelle. Ho molti, moltissimi anni, eppure divoro ancora come uno sciacallo!

Depose il piatto di stagno su un basso sgabello, alzò lo stoppino della lampada e si sedette su un vecchio tappeto di Rabat.

— Ne vuoi, dolce Colomba? — chiese un'ultima volta. — Non senti che profumo appetitoso? Se il nuovo sceicco fosse qui, me le farebbe sparire tutte sotto gli occhi.

— No — rispose seccamente la gitana.

— Allora mangerai domani mattina il kuskussù.

E la vecchia, malgrado i suoi moltissimi anni, si mise a lavorare di denti come se fosse una giovane ventenne, stritolando perfino le ossa.

Zamora, sempre coricata sull'angareb, la guardava con un certo stupore. Quella strega possedeva l'appetito d'un guerriero. Ad una ad una le sei costolette passarono attraverso a quella carcassa, non senza però molti sospiri.

— Quando il ventre è pieno si dorme bene — disse, dopo d'aver bevuto una lunga sorsata d'acqua. — Non so come farai tu a passare la notte, mia povera Colomba di Siviglia.

— Non occupartene.

— Ti avverto che se mi svegliano divento subito cattiva.

— Puoi dormire tranquilla — rispose la gitana, con voce beffarda. — Nessuno ti disturberà ammenoché non giunga il Falco.

— Non sarà qui prima di domani sera. È lontana la montagna e molto erta.

— Quale montagna?

— Sono segreti che appartengono a me sola. Dormi, dolce Colomba, finché consumo una carica di tabacco.

La vecchia trasse da un cassettone una pipa annerita e puzzolente, l'accese alla lampada e si mise a fumare lanciando a destra ed a sinistra nuvole di fumo profumato.

— Digerirò magnificamente le mie costolette — disse, dopo di essersi ben accomodata sul tappeto. — Ma, ora che mi ricordo, devo avere ancora un po' d'aguardiente che mi aiuterà a digerire il montone.

Si alzò frugò nel cassettone e trasse una bottiglia di vetro nero che mise in trasparenza attraverso alla lampada.

— Tre dita abbondanti — soggiunse. — Non credevo di averne ancora tanto.

Si mise la bottiglia alla bocca e ingoiò alcuni sorsi, senza fare alcuna smorfia, poi tornò a sedersi e riprese la pipa.

— Mia dolce Colombella di Siviglia, ne vuoi un sorso? Ti darà un po' di forza e ti metterà un po' di allegria.

— Bevilo tu il tuo aguardiente — rispose Zamora, saettandola con due occhi di fuoco.

— Non diventerai mai buona tu dunque con tua madre?

— Mia madre era una regina dei gitani che non fumava la pipa, né si ubriacava come te, strega!

— Lo sappiamo!... Lo sappiamo!... — disse Siza Babà, con una sghignazzata. — E tu pretenderesti di prendere il posto che aveva tua madre? Bisognerebbe che tu trovassi il totem del primo re zingaro, ma nessuno saprà mai trovarlo.

— T'inganni vecchia!... Tengo il fazzoletto di seta che fu dipinto duecento e più anni or sono, con tutte le tracce necessarie per guidarmi fino alla tomba del re zingaro.

Zamora mentiva, poiché l'aveva invece, come si sa, affidato al disgraziato Carminillo.

— Il fazzoletto!... — esclamò Siza Babà, dopo d'aver bevuto un altro sorso d'aguardiente e d'aver ricaricata la pipa. — Io ne ho udito parlare. Ora che so che l'hai tu, spero me lo farai vedere.

— Mai!...

— No!... Te lo prenderò colla forza!...

— Oseresti mettere le mani su di me?

— Allora me lo consegnerai.

— Sì, se mi liberi le mani.

— Ti ho detto ancora che non lo farò finché non tornerà il Falco.

— Ed allora non vedrai nulla.

— Ah!... Ah!... Tu non conosci ancora ben a fondo la Strega dei Vènti! — esclamò Siza Babà, sghignazzando e mostrando i suoi lunghi denti gialli e acuti come quelli d'una lupa. — Scateno ed incateno le tempeste, e non vuoi che io possa riuscire a domare te? So bene che noi gitane siamo molto testarde ed anche molto energiche, tuttavia non temere, che io ti abbatterò completamente e che ti renderò mansueta come una vera Colomba.

— Chi? Me? — gridò la gitana con uno scatto così impetuoso da far temere alla vecchia che le corde saltassero. — Ah!... Tu lo speri?

— Certo — rispose Siza Babà, la quale aveva ripreso animo vedendo Zamora ancora distesa sull'angareb. — Ti domerò, e se sarà necessario, anche colla frusta che si adopera per gli schiavi. Ne ho un paio qui dentro, in mezzo ai vecchi tappeti.

— Ah, vecchia cagna!...

Siza Babà invece di rispondere vuotò d'un colpo la bottiglia dell'aguardiente, poi tornò a riaccendere la sua nera pipa: era la terza carica che bruciava. Stette qualche minuto immersa in profondi pensieri, poi riprese: — Ah, tu hai il famoso fazzoletto!... Non me l'aveva detto il Falco. Anzi mi aveva fatto sospettare che tu l'avessi dato a tenere ad uno di quei due sapienti di Salamanca. Ero ancora bambina quando a Granata ne ho udito parlare, ma non sapevo veramente che il pezzo di seta avesse una tale importanza. Vedremo di studiare quei segni.

— Tu!... Ci vuol ben altro che te, vecchia ubriacona!... — esclamò la gitana, gettandole addosso uno sguardo carico d'odio.

— Ubriacona!... Ah!... Ah!... — ghignò Siza Babà. — Se sapessi come si sta bene quando l'acqua di fuoco scorre attraverso la gola ed annebbia il cervello!... Allora si dimentica e si dorme, e non appariscono in sogno nemmeno le nostre belle città della Spagna che io ho frequentate colla mia tribù, danzando nelle posade e guadagnando pesetas a palate.

La vecchia lasciò cadere la pipa e si prese la testa fra le mani.

— Non ero allora la brutta Strega dei Vènti — disse, con voce quasi piangente. — Avevo i capelli neri come i tuoi, gli occhi ardenti, le forme splendide delle donne della nostra razza, e la pallida tinta che somiglia al riflesso dell'alba. A Granata, Siviglia, Valladolid, Cadice, e persino a Madrid fui ammirata ed applaudita. Avevo il fuoco nelle vene, danzavo come una foglia di rosa in balìa del vento, e nel suonare le nacchere nessuna mi eguagliava, come nessuna danzava meglio di me l'Habanera. Quando la mia voce intonava la canzone del Polo, io entusiasmavo gli uditori. I valienti si disputavano il mio amore, e quante volte questi occhi, uno dei quali è ormai spento, hanno veduto lampeggiare la navaja e scorrere il sangue! Allora non mi chiamavo Siza Babà, né la Strega dei Vènti: ero la bella Sonora!...

La vecchia gitana si fermò un momento per vuotare l'ultima gocciola d'aguardiente, poi gettò la bottiglia contro la parete, dicendo con voce rauca: — Peccato che non ve ne sia più!...

Si alzò, fece il giro della cuba due o tre volte, raccolse e buttò via anche la pipa, poi tornò a sedersi sul vecchio tappeto, riprendendosi la testa fra le mani.

— Sonora!... — riprese. — Chi non lo ricorda? Ero bella allora, e danzavo forse meglio di te, Zamora, sulle tavole delle posade, e non solo di Spagna. Coi gitani io ho attraversata l'Europa. Ho avuto molti diamanti dai bojardi russi, catene d'oro dai castellani della Boemia, della Moldavia e della Valacchia, ed ho veduto perfino la grande Parigi, e quante teste la bella Sonora ha fatto girare, e quanti uomini si sono battuti od uccisi per lei!... Il mio ritorno in Spagna mi fu fatale. Un capitano contrabbandiere che era forte come l'albero maestro della sua orca, s'invaghì di me e... gli corrisposi. Era scritto che Sonora, la bella, dovesse finire miseramente. Una notte di tempesta il piccolo veliero s'infranse sulla banchina del Riff, mentre stava portando armi ai briganti della montagna. Invano l'uomo, forte come un dio delle tempeste, tentò salvarsi. Un'onda gigantesca se lo prese e se lo portò via, insieme agli avanzi della sua navicella, seppellendolo fra le sabbie del Mediterraneo. Come sono giunta sulla banchina? Io non lo ricordo più, perché molti e molti anni sono trascorsi da quella tragica notte. Alcuni riffani mi raccolsero e mi portarono sull'altipiano. Sotto un sole infuocato, malgrado le palme e le spalliere dei fichi, le mie morbide carni si disseccarono a poco a poco, uno dei miei occhi, in una notte d'uragano, fu spento dal passaggio d'un fulmine, l'altro perdette il suo splendore, la pallida tinta che ricordava le albe sparì e diventò bruna, il mio viso si coprì di rughe le quali si accumularono rapidamente. Povera Sonora!... Doveva diventare la Strega dei Vènti, più temuta che rispettata, per campare la vita fra questi predoni. Tu tornerai forse a rivedere le nostre città, tu danzerai ancora l'Habanera, il Polo e la dolcissima Payera, il nostro canto gitano. Te lo ricordi, Zamora?

— No — rispose seccamente la gitana. La Strega dei Vènti si era alzata e si era messa a piroettare come una furia, facendo scricchiolare le sue ossa. La sua voce roca d'ubriaca pareva che dovesse, in certi momenti, far crollare la cupoletta della cuba.

Danzava, danzava, agitando le gambe e le braccia disseccate, facendo sforzi supremi per tenersi in piedi. Finalmente, dopo un fulmineo volteggio, si lasciò cadere esausta sul tappeto.

Faceva paura. Era madida di sudore, aveva l'unico occhio acceso, come se dentro vi brillasse una lampadina elettrica, e la bava le copriva le labbra, ed il suo corpo era scosso da frequenti sussulti.

Ad un tratto si mise a sedere, ed il suo unico occhio si fissò ferocemente sulla gitana la quale aveva ascoltato impassibile quel racconto, pensando invece a Carminillo.

— Tu hai la gioventù!... — gridò. — Tu sei bella, tu puoi ancora danzare!... Dammi i tuoi capelli neri, dammi i tuoi occhi di fuoco, dammi i tuoi denti che scintillano come perle!... Io vecchia e tu giovane!... E sei qui!...

— Siza Babà, — disse Zamora — sei ubriaca?

— Fammi vedere come ridi.

— Perché?

— Perché i miei denti ormai somigliano a quelli d'una volpe o d'una giovane lupa, i miei denti che avevano splendori di albe e di tramonti!... Ah!... Me li darai!... Il Falco ne farà a meno!...

La vecchia bavosa, tutta sudante, si era alzata allungando le mani adunche che un giorno dovevano essere state rosee ed affusolate. Parevano artigli di leonessa.

— Voglio la tua gioventù!... — urlò. — Voglio tornare a Siviglia, voglio rivedere la grande Parigi, i bojardi russi, i castellani boemi, e veder ancora i valienti scannarsi sotto i miei occhi per un mio sguardo. Possibile che Sonora la bella sia diventata una mummia?

La vecchia, ubriacata dall'aguardiente e dal tabacco, girava su se stessa come una belva, agitando le braccia ischeletrite e mandando lampi feroci dall'occhio rimasto ancora aperto.

— Ti odio!... — gridò. — Io vorrei affondare i miei denti di lupa nelle tue carni fresche e polpose e veder sprizzare il sangue della giovinezza racchiuso nel tuo corpo!...

Siza Babà faceva paura. Brancolava, tentando di avvicinarsi a Zamora la quale intanto faceva sforzi poderosi per liberare anche l'altro braccio. Due volte minacciò di stramazzare al suolo, ma poi con un supremo sforzo si rimetteva sempre in equilibrio. Finalmente giunse addosso all'angareb sul quale la giovane gitana, atterrita, continuava a lottare disperatamente per infrangere gli ultimi legami.

— Apri la bocca e mostrami i tuoi denti, Colomba di Siviglia!... — urlò, con un accento che più nulla aveva di umano.

— Indietro, ubriacona!... — gridò Zamora, contorcendosi furiosamente. — Indietro, o ti uccido.

— Voglio i tuoi denti da sostituire ai miei e non sembrare più una lupa affamata!... Voglio il lampo ardente dei tuoi occhi da imprigionare tutto nel mio solo rimastomi!... Voglio la tua giovinezza!... Voglio diventare la bella Sonora applaudita a Siviglia ed a Granata. Dammi i tuoi capelli, Zamora, dammi il tuo sangue giovanile, dammi le tue carni fresche dorate dal sole...

— Tu sei pazza!... — gridò la gitana, respingendola violentemente col braccio che era riuscita a liberare. — Bada che la Colomba saprà diventare aquila!...

— Che io decapiterò subito — rispose Siza Babà, avviandosi verso la parete dove si trovavano appesi i due luccicanti yatagan. — Tu lottare contro di me, contro la Strega dei Vènti? Ah!... Ah!...

Zamora, a rischio di spezzarsi il polso, ruppe anche l'altra corda, balzò giù dall'angareb e si precipitò addosso alla vecchia afferrandola strettamente per le ossute spalle.

Siza Babà aveva mandato un urlo di belva feroce. Tentò resistere, ma Zamora, più giovane, più nerboruta, la spingeva ormai fuori della cuba. La vecchia tuttavia opponeva una resistenza incredibile per una donna della sua età, e girando la testa a destra ed a sinistra, tentava di mordere le mani della giovane. Mandava urla selvagge e si contorceva tutta, come un vero rettile, facendo crocchiare le sue ossa.

Al di fuori la luna illuminava l'altipiano del Riff, lanciando i suoi pallidi e freddi raggi anche dentro alle vallate.

Zamora teneva sempre stretta la vecchia strega e non cessava di spingerla verso l'abisso che si sprofondava dietro la cuba.

— Lasciami, Zamora!...

— No, vecchia maledetta che hai tradito i miei amici e che hai forse ucciso il mio fidanzato — rispondeva la giovane zingara, spingendola sempre verso l'abisso. — Là, traditora, là dentro, a servire di pasto alle jene ed agli sciacalli!

— A me, Omar!.. A me, riffani!... Aiuto in nome del Profeta!...

Nessuno rispose alla sua chiamata.

In lontananza l'urlo d'uno sciacallo rispose solo alla sua disperata invocazione. Pareva che augurasse la morte.

— Lasciami!... — urlò ancora una volta la strega, che si trovava già sull'orlo dell'abisso tutto illuminato dalla luna. — Lasciami, ed io ti danzerò una sevigliana!... Lasciami, ed io ti proteggerò contro i briganti della montagna.

— No!... — urlò Zamora. Siza Babà tentò, con un ultimo sforzo, di voltarsi per afferrare Zamora e trascinarla seco, ma le forze la tradirono.

Oscillò un momento sull'orlo dell'abisso, mandò un vero ruggito, poi una bestemmia e precipitò nel vuoto.

Zamora, impassibile, si era curvata e seguiva cogli occhi ardenti il corpo della vecchia zingara che rotolava e saltellava attraverso i fitti cespugli che coprivano le rocce.

— Muori!... — gridò. — Al Falco penserò io!...

La vecchia precipitava, sbattendo le gambe, le braccia, la testa, e raddoppiando la velocità.

Giunse in fondo come un bolide, incontrò una grossa spalliera di fichi, fece, per l'impeto della corsa, un gran balzo, e stramazzò sulla riva del torrente, rimanendo immobile, coi piedi immersi nell'acqua fredda che scendeva scrosciando.