I briganti del Riff/17. I due leoni

17. I due leoni

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16. Un duello fra gitane 18. La caccia al gitano

17.

I DUE LEONI


Zamora, curva sull'abisso, cogli occhi fiammeggianti, fissava la vecchia gitana che la luna illuminava, cinquanta metri più sotto, domandandosi se era veramente morta o se i cespugli avevano attenuato quel terribile capitombolo, impedendo la frattura delle ossa.

— Che sia morta? — si domandò per la decima volta, aggirandosi sull'orlo dell'abisso, come se cercasse un qualche sentiero che la conducesse laggiù.

L'urlo dello sciacallo si ripetè in quel momento, seguito dall'ululato d'una jena.

— Se non è morta la mangeranno — disse. — Qui le belve non mancano.

Lanciò nell'abisso un ultimo sguardo, ascoltò per un momento il fragore del torrente, poi si slanciò verso la cuba esclamando: — Pazza!... Perdo tempo!... Ed intanto i miei amici forse stanno per morire. Ah, anche tu, Janko, pagherai caro l'infame tradimento!

Entrò di corsa nella cuba, s'impadronì dei due yatagan e d'una pistola dalla canna lunghissima, poi staccò la lampada la quale era quasi ancora piena d'olio.

— Andiamo a cercarli — disse. — Dove? Da quale parte? E saranno ancora vivi? Poveri giovani che si sono sacrificati per dare a me il totem del primo re zingaro!

Soffocò un singhiozzo, impugnò il pistolone, alzò la lampada e si mise a scendere verso il duar.

La notte era splendida e tranquilla. I soli rumori che si udivano erano quelli prodotti dal torrente sulle cui rive giaceva la Strega dei Vènti, le urla dello sciacallo e l'ululato della jena.

Zamora non temeva quegli animali. Sapeva che alla sola vista d'un yatagan sarebbero prontamente fuggiti, quindi non si preoccupava affatto di quei due carnivori. Marciando fra i querceti, le macchie di aloè, i gruppi di canne, giunse a trecento metri dal duar.

Si era subito fermata, poiché un cane aveva dato l'allarme ed altri rispondevano sotto le diverse tende.

— Deviamo — disse la gitana fra sé.

Cercò di orientarsi meglio che potè. Si ricordava vagamente della macchia di quercia verso la quale lo sceicco aveva condotto i due disgraziati studenti. Essendo però l'altipiano interrotto da colline, non le era possibile rilevare subito la macchia.

Scese una gola, rimontò la parte opposta, aprendosi faticosamente il passo fra le lance delle aloè, salì una collinetta coperta di enormi fichi, la superò a gran passi, quindi tornò a scendere. Il suo meraviglioso istinto la guidava e non l'aveva tradita, poiché ad un tratto scorse la grande macchia di querce.

— Sono stati trascinati là dentro — pensò. — Saranno ancora vivi?

Stava per slanciarsi a gran corsa, quando un ruggito formidabile ruppe il silenzio, propagandosi, come un vero colpo di tuono, dentro le profonde forre.

Zamora si era subito arrestata, interrogando ansiosamente, cogli occhi dilatati, la boscaglia che si stendeva dinanzi a lei a meno di trecento passi.

— Un leone!... — aveva esclamato. — Mi ha già fiutata e mi tende un agguato sotto le querce? O sta divorando i cadaveri dei due studenti?

Spense la lampada, impugnò con mano ferma il pistolone passandosi nella sinistra un yatagan e avanzò coraggiosamente, decisa anche ad affrontare il re delle selve e dei deserti, se l'avesse assalita. Raggiunse ben presto il margine della macchia e s'immerse nell'oscurità, essendo i rami foltissimi in quel luogo. Solamente qua e là, qualche raggio trapelava, formando sugli ammassi di foglie delle chiazze biancastre di forme strane. La voce del leone si era spenta, ed un profondo silenzio regnava in quel momento sotto la boscaglia.

Zamora cercava sempre di orientarsi. Per un po' di tempo vagò sotto gli alberi, aprendosi a stento il passo fra i cespugli che crescevano in grande abbondanza intorno ai tronchi, fugando qualche sciacallo, poi tornò a fermarsi.

Il leone, che le tenebre nascondevano, aveva lanciato ancora in aria la sua fragorosa fanfara di guerra e di strage, ed a brevissima distanza.

Quantunque la gitana avesse del coraggio da vendere, e fosse decisa a dar battaglia, ebbe una breve esitazione.

— Mi ha fiutato — mormorò, guardando il pistolone che le sembrava, quantunque vecchio un'arma ancora formidabile. — E poi porto con me due yatagan... avanti!...

Si era appesa alla cintura la lampada, per essere più libera, però s'avanzava con estrema prudenza, cercando di non fare scricchiolare le foglie secche accumulate sotto le piante.

Il cuore le batteva forte forte, ed un sudore freddo le imperlava la fronte. La paura la invadeva? La povera fanciulla per tre o quattro volte se lo chiese, e fu sul punto di tornare verso il margine della macchia per rivedere almeno la luna.

Quella oscurità la impressionava sempre più, di passo in passo che si avanzava.

La gitana si fermò per fiutare l'aria. Sentiva l'acuto odore di selvatico che lasciano sempre dietro di sé i grossi carnivori, e che segnalano il loro passaggio anche in mezzo alla jungla. Aguzzava gli sguardi, ma non riusciva a scorgere il terribile animale, il quale si era certamente imboscato dentro qualche cespuglio per sorprenderla.

— Che i gitani non abbiano più sangue nelle vene? — si chiese la giovane, tergendosi, con una rapida mossa, il freddo sudore che le copriva la fronte. — Eppure sono le nostre tribù che danno i valienti. Vi è Carminillo da salvare e poi anche Pedro.

Un singhiozzo le lacerò la gola.

— Saranno ancora vivi, o i leoni, le jene e gli sciacalli li avranno già divorati? Ah, maledetta strega, che tu sia dannata!

Il ruggito del leone per la terza volta si fece udire, facendo tremare perfino le foglie degli alberi, seguito subito dall'urlo degli sciacalli.

Zamora si era appoggiata contro il tronco d'una grossa quercia ed aspettava, colla mano tesa, armata del pistolone.

Ormai se lo sentiva vicino il formidabile avversario, e si preparava a tenergli testa. No, la danzatrice di Siviglia, la figlia della regina, non tremava più.

— Avanzati — mormorò. — Questo pistolone a qualche cosa servirà, poi caricherò cogli yatagan.

E dimenticando ogni prudenza, gridò con quanta voce aveva in gola: — Carminillo!... Pedro!...

Le parve di udire in lontananza due grida umane, che furono però subito soffocate dai muggiti del leone.

Per la seconda volta lanciò sotto la boscaglia, a pieni polmoni, i nomi di Carminillo e di Pedro. Non ebbe il tempo d'ascoltare. Un ruggito spaventevole aveva rintronato a poche diecine di passi da lei. La fiera s'avanzava, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli, scortata, a debita distanza, da una mezza dozzina di sciacalli.

Zamora s'appoggiò contro il tronco d'una grossa quercia ed attese, trepidando, l'attacco. Vi fu un breve silenzio. Pareva che il leone si fosse arrestato per osservare, attraverso i cespugli, con quale avversario aveva da fare. Ad un tratto la belva spiccò un gran salto, e cadde a dieci passi dalla gitana. Era uno dei più grossi e dei più robusti della sua specie. Una folta giubba, quasi nerastra, gli copriva il collo, scendendo fino al petto. I suoi occhi ardenti si fissarono sulla gitana, ma non assalì. Pareva che fosse un po' sconcertato d'avere incontrato una così debole avversaria.

— Vattene!... — gridò Zamora, alzando le braccia, e facendo scintillare la lama dell'yatagan.

Il leone, cosa strana, sia che fosse stato impressionato dallo scintillìo della lama, o dalla voce che esercita sempre un grande potere su tutti gli animali, arretrò di tre o quattro passi, poi si accovacciò in mezzo ad un cespuglio, mettendosi a sbadigliare rumorosamente.

— Vattene — ripetè la gitana, la quale aveva fatto estremo appello a tutto il suo coraggio. — Vattene e lasciami il passo.

Il leone la guatò con aria minacciosa, scosse la grossa testa, spalancò le mascelle, si risollevò, poi tornò a coricarsi.

Zamora cominciava ad impazientirsi ed anche a preoccuparsi assai dello strano contegno della fiera. Essa a poco a poco si sentiva invadere da un folle terrore.

I suoi nervi avevano subito una prova troppo terribile, e incominciavano ad allentarsi.

— Sono perduta!... — esclamò ad un certo momento la disgraziata, che si sentiva come magnetizzata dallo sguardo del leone. — Io non rivedrò mai più né Carminillo, né Pedro. La strega avrà presto la sua vendetta.

Tre volte alzò il pistolone mirando l'avversario, ma la paura di ferirlo solamente e di provocare uno spaventevole assalto, l'aveva subito consigliata ad abbassarlo.

Il tempo passava e l'angoscia della gitana aumentava. Invano faceva appello a tutto il suo coraggio: sentiva invece aumentare la sua paura. Ed intanto il leone, mollemente adagiato in mezzo al cespuglio, continuava a sbadigliare ed a sferzarsi i fianchi colla poderosa coda, senza decidersi.

Zamora lottava disperatamente contro lo spavento, che le metteva dei brividi freddi nelle ossa. Non osava più muoversi. Grosse stille di sudore le cadevano dalla fronte, e sentiva il cuore aumentare i battiti come se volesse spezzarsi.

Ad un tratto, quando meno se lo aspettava, vide il leone aguzzare gli orecchi e mettersi in ascolto.

S'avvicinavano dei briganti della montagna o costeggiavano il margine della foresta per raggiungere le arche pronte a misurarsi coll'odiato spagnolo?

Il leone si era alzato, facendo udire dei brontolìi soffocati e raddoppiando le battute della coda. La sua giubba si era arruffata, ingrossandolo enormemente. Trascorsero due o tre minuti, lunghi per la gitana come ore, poi la belva spiccò un gran salto scomparendo sotto le cupe ombre della notte.

Zamora, a sua volta, si era messa in ascolto, ma non udì che lo stormire delle foglie secche. Prima di muoversi, attese a lungo, temendo di vedersi piombare addosso la belva; poi, ricuperando il suo sangue freddo, si rimise in marcia guardandosi, di quando in quando, alle spalle.

— Perché è fuggito senza tentare l'assalto? — si domandava. — Eppure io non odo lo scalpitìo di cavalieri scendenti dal duar. Che abbia fiutata una preda più facile da abbattersi, non armata di pistola e di yatagan? Lasciamolo andare e cerchiamo i miei disgraziati amici. Io non devo essermi ingannata quando subito dopo le mie due chiamate ho udito delle voci umane.

La boscaglia diventava sempre più folta, interrotta da altissimi cespugli spinosi, che nessuno avrebbe osato attraversare, e solcata da profonde fenditure entro le quali marcivano, con un tanfo nauseante, foglie e rami caduti continuamente.

Per dieci o quindici minuti la gitana continuò ad avanzarsi, girando intorno alla macchia e non cessando di guardarsi alle spalle, poi quando credette di essere abbastanza lontana dal luogo ove il leone l'aveva fermata, si mise nuovamente a gridare: — Carminillo!... Pedro!... Rispondete in nome di Dio, se siete ancora vivi!...

Trascorsero alcuni secondi, poi due grida risposero: — Zamora!... Zamora!...

— Sì, sono io!... — urlò la zingara. — Siete ancora vivi?

— Sì, ma vieni subito!... — gridò Carminillo.

Zamora si era lanciata a gran corsa, le voci non erano molto lontane, almeno così le sembrava, e sperava quindi di trovare presto i suoi poveri amici. Ad un tratto però si arrestò mandando un grido più di rabbia, questa volta, che di terrore.

Un altro leone, un po' più grosso del primo, le aveva tagliata la strada, annunciandosi con un poderoso ruggito, seguito subito dalle urla di parecchi sciacalli.

La voce di Carminillo, si fece in quel momento udire.

— Bada, Zamora!... — gridò lo studente. — Vi è un leone e noi siamo ancora prigionieri e non possiamo portarti alcun aiuto. Guardati!... Guardati!...

— Sono armata — rispose la valorosa fanciulla.

— Che Dio ti protegga, brava ragazza!...

Il leone si era piantato proprio sulla via che doveva condurre allo spiazzo dove si trovavano i due studenti, ancora stretti entro i corpi delle vacche.

Come l'altro, non sembrava che avesse fretta.

Ma Zamora era armata piena di coraggio, e ben decisa a tentare la lotta pur di unirsi a Carminillo ed a Pedro, i quali, non potendo far nulla, in quel frattempo mandavano grida altissime colla speranza d'impressionare il leone e costringerlo alla ritirata. Urlavano però anche per un altro motivo, poiché erano vere grida di dolore, che uscivano dalla loro gola, miste ad imprecazioni. Erano dunque anch'essi alle prese con altre bestie?

La gitana, come aveva fatto poco prima, si era appoggiata al tronco di un grosso albero, e dopo d'aver deposta a terra la lampada aveva brandito con la sinistra un yatagan.

Il leone continuava a ruggire destando l'eco della boscaglia. Cominciava ad inquietarsi, eppure, come l'altro, non si decideva ancora ad assalire pel primo.

Intanto i due studenti continuavano a urlare ed imprecare.

Zamora, comprendendo che qualche altro pericolo doveva minacciarli, prese audacemente il suo partito.

Si staccò dalla quercia e tenendo la pistola ben puntata, s'avanzò verso la belva che continuava la sua musica fragorosa, facendo dei salti strani. Anche gli sciacalli, danzavano intorno al leone, spiccando dei grandi salti e mandando delle urla acutissime.

Ad un tratto Zamora sentì Carminillo gridare: — Sono libero!...

Il leone si era voltato, arricciando la sua giubba e sbattendosi furiosamente i fianchi colla coda.

Si era accorto che un altro avversario stava per assalirlo alle spalle, e prese il suo partito. Esplorò un momento la boscaglia coi suoi occhi luccicanti per vedere se l'avversario nuovo si trovava già vicino od ancora lontano, poi si raccolse su se stesso come fa il gatto quando si slancia sul topo, e spiccò una magnifica volata di cinque o sei metri, cadendo appena a cinque passi dinanzi a Zamora.

Un lampo ruppe l'oscurità, seguito da una foltissima detonazione, forte quanto quella di un grosso moschetto. La gitana aveva sparato, poi con una rapida mossa si era gettata dietro il tronco di una enorme pianta, impugnando i due yatagan.

Il leone si era rizzato sulle zampe deretane, agitando furiosamente quelle anteriori, e lanciando una serie di ruggiti spaventevoli. O era stato accecato, o la palla del pistolone l'aveva colpito in pieno muso.

D'improvviso Zamora vide giungersi addosso, a corsa disperata, il giovane ingegnere, imbrattato di sangue.

— Un'arma!... Un'arma!... — gridò.

— Non ho che un yatagan da offrirti, señor.

— Mi basta!

— E Pedro?

— Verrà presto... basta.

Il leone aveva lasciato loro il tempo di scambiarsi quelle parole. Pareva che fosse stato accecato dalla grossa carica di polvere sparatagli contro quasi a bruciapelo, poiché continuava a girare su se stesso come una trottola, senza direzione, ed un rivoletto di sangue gli scendeva lungo il muso, macchiandogli la giubba.

Dopo aver compiuto un valzer disordinato, cadendo, rialzandosi, rotolandosi fra i cespugli per riprendere poi il movimento circolare sulle zampe deretane, si scagliò risolutamente innanzi, verso l'albero dietro il cui tronco si erano rifugiati la gitana ed il giovane ingegnere.

Ebbe ancora una breve esitazione, poi ritornò alla carica saltando molto alto e continuando la sua spaventevole fanfara di guerra.

— In guardia, Zamora!... — gridò Carminillo, gettandosi dinanzi alla gitana per proteggerla. — Non esporti tu, per ora... lascia fare a me... affetterò il predone!...

Con un ultimo salto la belva andò a urtare violentemente contro la pianta, poi tornò a rizzarsi sulle zampe deretane avventando, con quelle anteriori, dei poderosi colpi d'artiglio.

Carminillo convinto ormai che fosse cieco, impugnò con mano salda l'yatagan e si mise a scagliare colpi a destra ed a sinistra, urlando a squarciagola: — A te!... Prendi questo!...

L'arma era solidissima, pesante quasi quanto un kampilang bornese, ed affilata come un rasoio, sicché produceva delle orribili ferite. Completamente cieca, la belva continuava ad aggirarsi su se stessa, come se fosse stata presa da una improvvisa pazzia, sfogando la sua rabbia terribile con terribili ruggiti.

Carminillo, frettoloso di finirla, poiché sapeva quale grave pericolo correva Pedro, continuava ad avventare colpi formidabili, balzando a destra ed a sinistra, per non farsi cogliere da quegli artigli d'acciaio.

La belva, col muso tutto tagliato, colle zampe posteriori quasi troncate, grondante sangue d'ogni parte, poiché i colpi si succedevano ai colpi come una grandine secca, si ostinava a slanciarsi contro il tronco della quercia, alla quale strappava lunghi pezzi di corteccia.

Il peggio fu quando anche la gitana, malgrado le raccomandazioni del coraggioso ingegnere, mosse all'attacco risoluta a salvare il suo amico. Aveva fatto il giro dell'enorme tronco e assalito il predone per di dietro, troncandogli, con un colpo solo, la coda.

La fiera, già gravemente ferita e più volte dal giovane ingegnere che la tempestava sul collo per tagliargli le vene jugolari, a quell'atroce mutilazione parve impazzire del tutto.

Si scagliava furiosamente contro le piante, sventrava i cespugli rotolandovisi dentro, s'alzava per spiccare salti su salti, cercando invano di scoprire i suoi feritori i quali si tenevano bene in guardia e continuavano a far sibilare gli yatagan senza parlare. Mandò un ruggito più formidabile degli altri, e dopo aver piroettato nuovamente su se stesso per qualche istante, spruzzando i cespugli di sangue che gli sfuggiva da dieci ferite, si scagliò all'impazzata attraverso la boscaglia.

— Lasciamolo andare!... — gridò Carminillo alla gitana. — Ormai è fuori di combattimento. Andiamo a salvare Pedro. Guardati dalle termiti.

— Le termiti? — chiese Zamora.

— Senza quelle ferocissime formicone non avrei mai potuto lasciare la mia putrida prigione. Sono state loro a trattenere il leone. Su vieni. Senti come urla Pedro? Mordono atrocemente quegli insetti.

Entrambi si erano slanciati verso lo spiazzo dove si trovavano le carcasse delle due vacche e dove Pedro, meno fortunato dell'amico, si trovava ancora prigioniero colla poco allegra prospettiva di venire divorato vivo, prima di morire putrefatto.

Carminillo, seguito dalla gitana, giunse là dove dei battaglioni e battaglioni di grossi formiconi, col ventre assai gonfio e le antenne lunghissime che agitavano rabbiosamente, si aggiravano attirati dall'odore delle vacche che il caldo notturno corrompeva rapidamente.

Erano termiti, insetti formati a cono e che si nutrono di carni, di qualunque genere esse siano.

Vivono entro coni formati di fango così duro da sfidare perfino il piccone, alti tre o quattro metri, addossati gli uni agli altri, ma sotto hanno vaste gallerie capaci di contenere milioni di formiconi.

Se sorprendono una gazzella ferita, in un baleno la spogliano di tutta la sua carne non lasciando che le ossa e ben ripulite. Assalgono anche l'uomo che incautamente si riposa presso i loro nidi, strappandogli, colle robuste tenaglie, pezzi di stoffa e di carne ad un tempo. Solamente una pronta fuga può salvare il disgraziato.

I briganti, senza saperlo, avevano sventrate le due vacche a poca distanza da alcuni formicai nascosti dalla boscaglia.

L'odore della carne che si decomponeva non aveva tardato ad attirare i minuscoli carnivori, i quali erano accorsi a reggimenti ed in buon punto, poiché il leone, in quell'istante, dopo aver lasciato agli sciacalli le budelle delle vacche con tutto il resto, si preparava a stritolare le teste dei due prigionieri, impotenti ad opporre qualsiasi resistenza. Il sopraggiungere delle termiti, che doveva ben conoscere, l'aveva trattenuto. Così era rimasto a debita distanza dalle due vacche, non ostante il suo desiderio di fare una abbondante cena.

I piccoli carnivori, che continuavano ad uscire in gran numero dalla boscaglia, dopo d'aver divorato ingordamente il poco che era avanzato agli sciacalli, si erano gettati sulle due carcasse, pronti a mordere anche i prigionieri, malgrado le loro grida e le loro furibonde soffiate per tenerli lontani.

Se mordevano la carne, mordevano pure i tendini per aprirsi un passaggio e cacciarsi dentro, sicché Carminillo, aveva potuto, con un ultimo sforzo, sfondare quella strana prigione, balzare fuori ed accorrere in aiuto della valorosa gitana.

Quando Carminillo e Zamora giunsero nella piccola radura, dove l'arrabbiato chitarrista urlava su tutti i toni come se fosse diventato idrofobo, le termiti avevano già coperta la prima vacca e si erano messe ferocemente all'opera per privarla delle sue polpe. Una schiera però si era gettata sulla seconda che imprigionava il disgraziato Pedro, montando arditamente all'attacco di quella specie di fortino carnoso.

La gitana e lo studente calpestando rabbiosamente le maledette bestioline, si precipitarono verso il loro compagno, e cogli yatagan sventrarono la vacca permettendogli di uscire.

— Per centomila chitarre!... — esclamò l'allegro giovanotto, portandosi le mani attorno al collo che sanguinava. — Mi pare che mi abbiano applicate due dozzine di mignatte.

— Via!... Via!... — disse Carminillo.

E tutti e tre si slanciarono verso il margine della boscaglia, arrestandosi sotto la cupa ombra d'un immenso fico carico di frutta saporite.