I Viceré/Parte terza/8
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Capitolo 8
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Le due duchesse stettero un mese fra la vita e la morte. Il dolore della madre fu terribile, poichè ella vide nella spaventosa disgrazia la mano di Dio. Quella morte era stata permessa affinchè ella scorgesse il proprio errore e misurasse la colpa commessa disamando, trascurando, disprezzando quel poveretto. Ella aveva quasi calcolato sulla morte di lui, perchè l’altro ne godesse! Non s’era neppur ravveduta alla prima minaccia, quando lo sventurato era stato sull’orlo della fossa! Così, dinanzi al cadavere sanguinoso, una mano l’aveva atterrata: ricuperati i sensi, le sue lacrime non cessarono più; nel vedere il muto, inconsolabile dolore dell’altro figlio, le crisi di pianto quasi la soffocavano. Quanto alla duchessa Teresa, tutti furono meravigliati della forza straordinaria che dimostrò nei primi momenti. Le due disgrazie che mettevano in lutto le due famiglie colpivano lei più di tutti, perchè ella faceva parte di entrambe: pure, nelle primissime ore, mentre gli altri perdevano la testa, ella die’ prova d’una resistenza incredibile. Che alla notizia della morte del barone rimanesse insensibile, parve quasi naturale, perchè ella aveva già chiuso gli occhi al padre ed era quindi sotto il peso d’un dolore più grande. Solamente Consalvo non riusciva a comprendere come la nuova sciagura, che impressionava gli altri per la tragica coincidenza con la prima e più per la sua imprevedibile rapidità, non scotesse la sorella, non le procurasse un moto di stupore, quasi ella l’avesse prevista. Strappata dal letto di morte del principe, ella sola potè strappare il marito e la suocera dal cadavere del giovane, ella sola li indusse a lasciar la casa e a ricoverarsi coi bambini dai Francalanza. Vegliò tutta la notte, senza piangere, tergendo il pianto degli altri, passando dalla madrigna alla suocera, dai figli al marito. Solamente col nuovo giorno, quando venne da San Martino dei Bianchi il suono del mortorio, ella portò la mano al cuore e cadde.
La pietà fu immensa. «Solo il Signore potè darle tanta forza,» dissero i prelati; «un’altra sarebbe rimasta fulminata sul colpo!» E le donne, i servi, gli umili: «Pensare,» esclamavano, «che in due ore ha visto i cadaveri del padre e del cognato!... Veramente, c’era da impazzire!» Donna Ferdinanda, Lucrezia e la marchesa, calmissime, s’alternavano al capezzale delle tre inferme, perchè anche la principessa dovè mettersi a letto. Consalvo stava spesso accanto alla sorella, teneva compagnia a Michele; la sera, però, faceva portar su il registro aperto al pubblico in portineria. Egli numerava le centinaia di firme disposte in colonna e le centinaia di biglietti da visita ammucchiati in due grandi vassoi, leggeva gli articoli necrologici terminanti tutti con: «Le nostre più sentite condoglianze al figlio inconsolabile;» i voti di simpatico dolore deliberati dal Consiglio comunale, dalla Camera di commercio, dai sodalizii politici. Quelle carte erano il documento e la misura della sua popolarità e del suo credito, poichè grandi e piccoli, noti ed ignoti, tutta la città passava sotto il portone del palazzo. Dopo il funerale, celebrato con pompa straordinaria, egli cominciò a ricevere. Dalle due alle sei di giorno, dalle otto alle undici di notte, le sale erano stipate: assessori, consiglieri, impiegati, il prefetto, il generale, il questore, parenti, amici, conoscenze, ammiratori d’ogni genere, fautori di tutte le risme, rappresentanti di tutti i partiti e di tutte le clientele sfilavano continuamente. Tutti insistevano, con un’aria d’occasione, sulla doppia incredibile sciagura; egli si diffondeva un pezzo sulla malattia del padre e sull’accidente del cugino; ma poi, per toglier dall’imbarazzo le persone, avviava il discorso sopra un altro soggetto, chiedeva notizie degli affari agli assessori ed al prefetto, commentava con gli altri i risultati delle elezioni generali, la nuova riuscita dello zio duca. Quindici giorni dopo le due morti, tornò al municipio: non sapeva ormai vivere fuori di lì, temeva che le cose andassero a soqquadro senza di lui, in mano di Giulente, che, come assessore anziano, aveva preso la firma.
Ingolfato di nuovo nel mare degli affari pubblici, quando tornava a palazzo, quando desinava, quando andava a letto, non pensava ad altro. Del resto nessuno lo disturbava, le inferme si rimettevano lentamente, assistite dalla principessa vedova, da Lucrezia tutta felice di poter fare nuovamente da padrona di casa, dalle altre parenti, senza contare i soliti Monsignori. La duchessa suocera cominciò prima a levarsi; aveva poco più di cinquant’anni, e pareva una vecchia decrepita. Teresa dava maggiormente da pensare ai dottori; il suo male, ostinato, ribelle, come alimentato da un veleno misterioso, si prolungava esaurendo le sue forze. A poco a poco, andò meglio anche lei, ma il giorno che tentò di levarsi cadde senza sentimento. Poi tornò a riaversi. Consalvo, una mattina, prima d’uscire, passato a chiedere alla sorella se avesse bisogno di nulla, la trovò con la madrigna, la duchessa e Michele. Appena egli entrò, si volsero tutti dalla sua parte, taciturni, con aria grave. Teresa, con la testa sollevata da un monte di guanciali, sul cui candore il suo viso emaciato pareva di cera, disse con voce lenta e fioca, come stanca:
— Ascolta, Consalvo; siedi un momento.... Abbiamo da parlarti.
Egli sedette, aspettando.
— Ascolta: abbiamo parlato d’una cosa che ti riguarda.... Nostro padre.... tu sai che nostro padre, in un momento di collera.... volle.... volle preferirmi a te.... Io non credo che questa potesse essere la sua volontà vera.... Se il Signore non ce lo avesse tolto, egli l’avrebbe certo modificata.... Io ho detto a Michele ed alla mamma che, in coscienza, non posso accettare.... quel che ho avuto in tali condizioni.... — Tacque un poco, poi aggiunse: — Dite voi.... non posso.
Un momento di silenzio. La duchessa aveva gli occhi pieni di lacrime, scrollava il capo amaramente. Consalvo disse:
— Perchè parlare di queste cose, adesso?
Le parole della sorella, quella rinunzia all’eredità, lo lasciavano del tutto indifferente. Da un pezzo erasi abituato all’idea di non aver altro dal padre che la legittima. Piuttosto lo stupiva un poco il magnanimo disinteresse di Teresa, che il cognato e la zia approvavano.
— Una volta o l’altra, — diceva Michele, — bisognava pure parlarne. Io e mia madre approviamo pienamente Teresa; non vogliamo profittare di quel testamento per portarti via il tuo.... Siamo ricchi abbastanza.... siamo troppo ricchi.... e daremmo....
Girò il capo per nascondere gli occhi rossi di lacrime. La duchessa singhiozzava.
— Ma perchè ora? — ripetè Consalvo. — Ci sarebbe stato tempo.... Zia, si calmi!... Va bene, va bene; vi ringrazio.... Voi sapete che io non ho certi pregiudizii.... voglio dire che, per me, tutti i figli, maschi o femmine, primogeniti o..... — Scorgendo l’attitudine umiliata, quasi supplice della vecchia, non finì la frase; disse: — Insomma, se Teresa rinunzia al testamento, divideremo ogni cosa egualmente: va bene così?
— Sì, come vuoi....
Teresa, rimasta immobile, con gli occhi chiusi, parve destarsi. — Un’altra cosa, — riprese. — La felice memoria volle pure, nello stesso momento di cruccio.... volle lasciare alla mamma questa casa.... Non è giusto neppure che tu.... l’erede del nome.... il solo del nostro nome, ne esca....
Egli provò una commozione indefinibile: era il piacere di trionfare della volontà del padre, l’orgoglio di poter restare nella casa degli avi, la paura di dovere qualcosa in cambio alla madrigna. Infatti, Teresa continuava:
— La mamma rinunzia alla casa.... prenderà invece un’altra proprietà.... o un compenso in denaro....
— Per me!... — esclamò la principessa Graziella — È lo stesso! Io desidero che tutto si faccia d’accordo, che la famiglia sia sempre unita....
— Però, — continuava Teresa, — non bisogna che neppur lei esca dalla casa di suo marito.... Tu le cederai un quartiere, fino ai suoi mille anni.... La proprietà sarà tua....
Tacque una seconda volta. Pareva che sul punto di morire, con l’anima già lontana dal mondo dettasse le ultime disposizioni per assicurare la pace, il benessere, la felicità di chi restava.
Donna Graziella, sotto l’influenza della generosità e del disinteresse di cui tutti davan prova, per non esser da meno degli altri, perchè non si dicesse che ella sola metteva ostacoli all’accordo generale, aveva consentito al cambio; ma nulla al mondo l’avrebbe indotta a sfrattar dal palazzo.
— È giusto.... Va bene.... — disse Consalvo. — Grazie!... C’intenderemo.
Da quel giorno Teresa andò migliorando più rapidamente. Un coro di lodi, per quel che aveva fatto, per la nobile rinunzia di cui aveva preso l’iniziativa e che aveva indotto tutti gli altri ad accettare, si levò da ogni parte. Il vescovo in persona venne a trovarla, appena ella fu in grado di riceverlo; e mentr’ella gli baciava la mano, piangendo, le disse: «Figlia mia, ho saputo. Sii benedetta ora e sempre pel bene che fai.» Ella scosse il capo, mormorando: «Che è questo!...» poi, anche a nome della suocera e del marito, lo pregò di distribuire diecimila lire di elemosine. Già gli altri prelati avevano ricevuto commissione di far dire messe pel riposo delle anime del principe e del barone.
I Radalì avevano già stabilito di lasciare il palazzo Francalanza per andarsene alla Tardarìa, appena Teresa sarebbe stata in grado di sopportare il viaggio. Dal giorno funesto, solo Michele aveva rimesso piede nella casa macchiata dal sangue del fratello; ma, pei preparativi della partenza, era necessario che una delle donne vi si recasse. E poichè la prova era più dura alla madre, Teresa andò lei accompagnata dal marito. Salì le scale appoggiata al suo braccio; ma, entrando nell’anticamera, fu costretta a sedere, a fiutar dell’etere. Riavutasi, compì quel che aveva da fare con la fermezza antica. Le stanze del morto erano tutte chiuse.
Il domani partirono per la montagna, dove restarono tutta l’estate e l’autunno.
Frattanto Consalvo stabilivasi definitivamente al palazzo paterno. Lasciato alla principessa il quartiere di mezzogiorno, egli s’era riservato quello di gala, ma pei soli ricevimenti, fissando la propria abitazione al secondo piano. Con la madrigna non aveva quasi nessun rapporto; facevano tavola separata perchè desinavano a ore diverse, ciascuno aveva le proprie persone di servizio e la propria carrozza. Si vedevano di tanto in tanto per le necessità dell’amministrazione. Consalvo non sapeva nulla dello stato della casa, mentre la principessa ne era a giorno; quindi, se l’amministratore chiedeva ordini o schiarimenti, egli lasciava dire alla madrigna. Non solamente si sentiva attirato dagli affari pubblici più che dai suoi proprii, ma giudicava che non valesse la pena di occuparsi di questi ultimi finchè le proprietà restavano indivise.
La divisione fu cominciata al ritorno dei Radalì. Le due duchesse erano interamente rimesse in salute: la suocera pareva ancora più vecchia e Teresa era incinta. Tutti gli articoli del contratto furono stabiliti di comune accordo, con lo stesso disinteresse di cui avevano dato prova in principio. Teresa volle che tutti i feudi storici restassero al fratello, contentandosi delle proprietà di fresco acquistate, delle rendite, dei capitali, dei crediti diversi. In cambio, Consalvo volle che di questa differenza tutta morale fosse tenuto conto nella valutazione delle terre. La principessa, rinunziando al palazzo, prese le tenute di Gibilfemi e il podere dell’Oleastro, che valevano il doppio.
Consalvo, durante le trattative, era andato quasi tutti i giorni dalla sorella. Continuò nell’abitudine presa anche dopo. In fin dei conti egli doveva esserle grato della rinunzia che aveva raddoppiato, da un quarto alla metà, la sua parte. Ma, nonostante questa specie di dovere, nonostante la tristezza del lutto, egli riusciva difficilmente ad astenersi dal punzecchiar la sorella per la fervente, la crescente sua devozione. Adesso il Vicario, il confessore, le suore di carità parevano domiciliati in casa di lei. Le nuove chiese della Madonna della Salette e della Mercè, i miracoli di Loordes e di Valle di Pompei, l’opera dei missionarii erano argomento di tutti i loro discorsi. I disciolti frati Cappuccini, tornati a riunirsi in barba alla legge, avevano comprato una casa con le oblazioni dei fedeli: Consalvo seppe che sua sorella aveva contribuito a quell’acquisto. Non aveva ella, prima, giudicato provvida la legge che disperdeva quelle comunità? Come poteva mai andare ogni venerdì a pregare nella cappella della Beata Ximena, dove ardeva la lampada accesa per la salute di Giovannino, della cui pazzia e del cui suicidio ella era stata in parte cagione? Sapeva ella che il giovane s’era ucciso, e non era già morto d’accidente?... La sua fede ostinata, resistente ai disinganni, era sincera o non più tosto una forma della mania ereditaria tra i suoi? Consalvo inclinava a quest’ultima ipotesi, anche perchè egli non aveva fede alcuna; ma non un atto, non una parola rivelavano quel che c’era nel cuore della sorella. Quando egli arrischiò le sue prime allusioni ironiche, ella gli disse:
— Senti, Consalvo: ognuno ha da rispondere a Dio delle proprie azioni. Io posso soffrire del tuo scetticismo, ma non vengo a rimproverartelo. Così vorrei che tu rispettassi le mie credenze e, se ti piace di chiamarle così, le mie superstizioni. Ti chiedo troppo?
Egli chinò il capo, prima di tutto perchè il ragionamento era giusto, e poi anche perchè le aderenze di Teresa nel mondo clericale gli potevano giovare.
Infatti, il giorno tanto aspettato s’avvicinava rapidamente: la riforma elettorale era all’ordine del giorno; dopo averla votata, la Camera si sarebbe sciolta. Ed egli s’accorgeva adesso che la propria elezione non era così sicura come gli era sembrata il primo giorno, a Roma, durante la sua conversazione con l’onorevole Mazzarini e poi nei principii della sindacatura. Per l’allargamento del voto e per lo scrutinio di lista, non più le poche centinaia di elettori dello zio potevano mandarlo alla Camera: ce ne volevano migliaia. E se egli era sicuro della città, non sapeva che assegnamento fare sulle sezioni rurali.
Già il vecchio duca, fiutato il vento, annunziava ai suoi intimi che avrebbe accettato un seggio al Senato: sicuro d’essere spazzato via come una foglia secca, egli si ritirava finalmente in buon ordine, fingeva di rinunziare spontaneamente per non patire l’onta d’una disfatta. E mentre Consalvo pensava ai casi suoi, inquieto per quel mutamento, per quella «rivoluzione morale» da lui invocata ma avvenuta un po’ troppo presto, Giulente non vedeva nulla, non s’accorgeva di nulla. Fiutava le pedate al duca come all’oracolo di vent’anni addietro, aspettava di raccoglierne l’eredità, parlava ancora della destra e di Cavour, era sicuro che i nuovi elettori avrebbero dato il gambetto al governo della Riparazione, restaurando il principio moderato. E pensando mattina e sera a queste cose, lasciava ancora le redini della casa alla moglie, la quale, finendo d’imbrogliare ogni cosa, aspettava anche lei adesso, senza dirne nulla, anzi continuando a deriderlo, l’elezione, per non dargli i conti, perchè egli potesse far quattrini come lo zio Gaspare...
Consalvo non s’occupava di lui: lo disprezzava talmente che, certe volte, quasi gli faceva pena. Riconosciuta la necessità di presto mettersi all’opera, egli affrettò una risoluzione che aveva già presa da un pezzo: rinunziare all’ufficio di sindaco. Non solo avea bisogno d’essere libero, ma gli conveniva evitare un grave pericolo: che, prolungando il suo soggiorno al Municipio, il vantaggio ottenuto andasse perduto e si mutasse in danno irreparabile. Infatti, la baracca cominciava a scricchiolare. Le spese pazze da lui fatte avevano vuotate le casse, l’ultimo bilancio s’era chiuso con un deficit considerevole, che egli aveva potuto dissimulare a furia d’artificii; ma la situazione non era più sostenibile: bisognava o imporre tasse o contrarre un debito, ed egli non voleva affrontare l’impopolarità di simili provvedimenti. Afferrò quindi il primo pretesto per battersela. L’amministrazione comunale discuteva ancora una volta sul modo di riscuotere i dazii, poichè il sistema dell’appalto non aveva fatto buona prova. Egli dichiarò, nelle private conversazioni, che il ritorno alla riscossione diretta era per lui uno sbaglio e che perciò bisognava correggere i difetti del sistema vigente, non abbandonarlo: in Giunta non fiatò, lasciò che la maggioranza si pronunziasse. La maggioranza deliberò di mutar sistema. La sera stessa, andato a casa, egli scrisse due lettere; una al Prefetto, con la quale rassegnava le sue dimissioni; l’altra, collettiva, a tutti gli assessori, annunziando loro che «per ragioni di delicatezza» aveva già mandato la rinunzia alla Prefettura.
Fu come un fulmine a ciel sereno. «Delicatezza?...» esclamò Giulente, a cui tutti gli altri chiedevano spiegazioni; «che delicatezza? Io non capisco!...» E la Giunta in corpo andò a trovarlo, mentre la notizia si diffondeva rapidamente per gli ufficii.
— Ci spiegherai, — gli disse Benedetto in nome dei colleghi, — che significa questa lettera?
— Significa, — rispose il principe, guardando per aria, — che io non ho voluto esercitare nessuna costrizione, e siccome il vostro modo di vedere è contrario al mio, per lasciarvi liberi, me ne vado.
— Ma a proposito di che?... Forse dei dazii?...
— Dei dazii come di altre cose...
Comprendendo che quella gente veniva per indurlo a ritirare le dimissioni, egli tagliava la via alle insistenze. Disse che da un pezzo, in tante questioni, in cento piccoli affari quotidiani, s’era accorto che non c’era più fra loro il buon accordo d’un tempo. Ora egli non poteva nè rinunziare alle proprie idee, nè imporle agli altri: il meglio era quindi andarsene.
— Potevate però dirlo prima! Non piantarci in asso! È questo il modo?...
Confusamente, essi comprendevano il tiro che aveva loro giocato, il ballo in cui li lasciava; Giulente soltanto insisteva:
— Ebbene, c’è mezzo di riparare: torneremo sulle deliberazioni prese; il Consiglio non le ha ancora esaminate; faremo come vorrai...
— È inutile che insistiate, — dichiarò Consalvo. — La mia risoluzione è irrevocabile. Persuadetevi pure che non sono fatto di ferro. Ho lavorato parecchi anni pel mio paese; ora ho bisogno di riposarmi. Del resto, sarebbe tempo che pensassi un poco agli affari di casa mia, adesso che li ho sulle spalle... Grazie della vostra premura, — gli assessori invece schiumavano; — ma credete, non posso. Nessun uomo è necessario; voi avete tanta esperienza quanto me; lascio l’amministrazione in buone mani....
Benedetto andò dal prefetto, perchè s’interponesse: fiato sprecato. La Giunta si riunì in casa di Giulente, per deliberare. Alcuni, volendo evitare gl’imbarazzi, sostenevano che alle dimissioni del sindaco dovessero seguire quelle di tutti gli assessori; ma non sarebbe parsa una diserzione? Non avrebbero dimostrato la loro incapacità e dato credito alla voce che li diceva altrettanti burattini mossi dai fili che il sindaco tirava a suo talento?
— È un tradimento! — vociferavano i più accaniti. — Un nero tradimento! Ci siamo lasciati giocare da cotesto birbante!
— Calma, di grazia!... Perché tradimento?... Che interesse avrebbe?...
— Come, che interesse?... — e allora gli cantarono sul muso: — Ma non capite?... Non capite che vuol essere deputato, e che ci pianta vedendo pericolar la baracca, ora che ha sfruttato la situazione?.... Ora che ha altro da fare, con le elezioni imminenti?
Egli impallidiva, guardava intorno con aria smarrita come la luce rischiarava la sua mente. Sì, negli ultimi tempi aveva ben capito che il nipote nutriva anche lui l’ambizione di esser deputato; ma era sicuro che non si sarebbe presentato subito, che gli avrebbe ceduto il passo almeno la prima volta, e ad ogni modo poteva forse sospettare un tiro di quel genere, l’imbroglio in cui lo metteva, l’eredità di tasse, di debiti, di odii che gli lasciava tra le braccia? Ora egli non protestava più contro le recriminazioni, le rampogne vivaci che i suoi colleghi lanciavano contro l’ex-sindaco. «Inganno!... Tradimento!... Birbonata!... Azione degna di colpi di coltello!...» tutte queste parole echeggiavano invece nel suo pensiero; egli riconosceva che erano giuste, comprendeva finalmente che quel birbante da lui iniziato alla vita pubblica gli portava via il posto tanto aspettato e gli sparava calci per tutta gratitudine. E il duca? Il duca che gli aveva tante volte promesso di lasciare a lui, ritirandosi, l’eredità politica?... Il duca, dal quale egli corse, gli disse:
— È vero, t’avevo promesso il mio appoggio, ma in altri tempi, quando non potevo prevedere la situazione attuale... Ora che si presenta Consalvo, capisci tu stesso in che imbarazzo mi trovo...
«Dunque è vero? Anch’egli è traditore, peggio del nipote?» Pensava Benedetto; ma, ad alta voce:
— Vostra Eccellenza però non ignora che Consalvo è di sinistra!... che appartiene alla Progressista, mentre Vostra Eccellenza...
— Pensi ancora alla destra e alla sinistra? — esclamò ridendo il duca, che aveva in tasca la formale promessa d’un seggio al Senato. — Non vedi che i partiti vecchi sono finiti? che c’è una rivoluzione? Chi può dire che cosa uscirà dalle urne a cui hanno chiamato la plebe? Un vero salto nel buio!... E del resto, a che potrà mai giovare il mio appoggio? — Se mi presentassi io stesso, — per giustificarsi, riconosceva finalmente la verità, — resterei nella tromba!... E vuoi che gli elettori ascoltino la mia voce? L’appoggio che posso dare è puramente ideale... forse sarà una pietra al collo che affonderà il candidato.
Allora Giulente corse da Consalvo. Era in uno stato d’esasperazione violenta; dinanzi al vecchio non aveva osato infrangere l’antico rispetto, ma sentiva il bisogno di sfogare, di dire il fatto suo a quel birbante.
— Tu hai fatto questo.... hai fatto questo pei tuoi fini, per lasciar nell’imbroglio me?... Per rovinarmi?... Per prendere il mio posto?...
Consalvo lo guardò con un ambiguo sorriso, fingendo di non capire.
— Che avete?... Calmatevi!... Non capisco...
— È vero che presenti la tua candidatura?
— Forse, se avrò probabilità di riuscire...
— E non sapevi... non sai che il posto è mio? Che da tanti anni lo aspetto? Che tuo zio me l’aveva promesso?...
— Posto? — fece Consalvo, con la stess’aria d’ingenuo stupore. — Qual posto? Con lo scrutinio di lista non ci sarà più un posto solo, ce ne saranno tre.
— E ridi, anche? Mi canzoni, anche? Dopo avermi preso il posto, a tradimento?
Il sorriso scomparve dal viso di Consalvo.
— Vi faccio osservare che siete riscaldato e che non riflettete a quel che dite.
— Ah, non rifletto?
— Qui non si tratta di posti di platea, dove siede chi ha pagato il biglietto. Io non v’ho preso nulla, per la semplicissima ragione che nulla avevate. Se credete di poter riuscire, nessuno v’impedisce di presentarvi. Se da parte mia avrò questa persuasione, mi presenterò anch’io. La nostra parentela non è così stretta da renderci incompatibili. Non c’è nessun impegno tra noi; ognuno è libero di far quel che crede...
— E tu sei anche libero di piantarci in asso, ora che vedi il baratro spalancato?...
— Non c’è baratro. C’è qualche difficoltà da superare; vuol dire che avrete l’agio di far valere la vostra abilità....
Il sangue montò alla testa di Benedetto.
— Siete tutti d’una razza! — gridò improvvisamente; — tutte birbe matricolate...
Consalvo lo guardò un momento nel bianco degli occhi. A un tratto gli sparò una risata sul muso, gli voltò le spalle e scomparve.
Giulente, nell’uscire, non rispose al saluto dei servi, non udì quel che gli diceva il maestro di casa. Credettero che fosse impazzito, vedendolo scappar via, acceso in viso, col braccio levato e il pugno chiuso. Parlava solo: «Falsi, bugiardi, traditori!... La rivoluzione! il salto nel buio!... Essi però saltano in piedi!... S’è aggiustato gli affari di casa sua!... Adesso il nipote!... Il salto nel buio!... Borbonici fin nelle ossa!... Dovevano impiccarlo, al Sessanta!... Ed io, buffone, che li ho serviti tutt’e due!... Gli augurii a Francesco II!... Adesso è di Sinistra!... Buffone!... Sono stato sempre buffone!» Cocente, insoffribile, destavasi a un tratto in lui la coscienza della situazione secondaria in cui era stato tenuto, del mal garbo con cui lo avevano trattato. «La nostra parentela non è così stretta!...» Quel bardassa glie l’aveva spiattellato in faccia! Parenti? Erano stati mai parenti per lui? Tutti, tutti lo avevano guardato dall’alto, come un intruso, come indegno di loro! Lo avevano dapprima sdegnato per i suoi studii, quegli ignoranti, per l’«ignobile» laurea ch’egli aveva presa: ed erano stati i soli che l’avevano costretto ad esercitare la professione, per sostenere le loro magagne: la vecchia, il principe, Raimondo... «Chi sono dunque?... Una mala razza di predoni spagnuoli, arricchiti con le ladrerie!... A me?... Io me li metto sotto i piedi!...» Invece egli li aveva serviti, corteggiati, piaggiati; che altro aveva fatto se non magnificare la loro presunzione, incoraggiare le loro pazzie, approvare le loro birbonate? «Buffone! buffone! Sono sempre stato buffone!...»
Arrivò a casa senza sapere da che parte c’era venuto. Strappò il campanello, entrò come uno spiritato. Lucrezia, sdraiata sopra una poltrona, colle mani sulla pancia, lo guardò un poco curiosamente, poi disse:
― Che hai?
Egli le si piantò dinanzi, con gli occhi fuori dell’orbite.
― Che ho?... Che ho?... Ho che sono una massa d’infami traditori!...
— Chi?
— Chi? Tuo zio, tuo nipote, i tuoi parenti, quella mala razza, che maledetta sia l’ora e il giorno...
Ella lo guardava sempre come un oggetto strano e ridicolo. Più stupita che sdegnata, interruppe:
— Che diavolo dici?
— Che dico? Quel che ho da dire. Vorresti difenderli? O tieni loro il sacco?
— Sei proprio un imbecille, — esclamò ella, levandosi.
Allora Benedetto perse il lume degli occhi. Afferratala per un braccio, gridò:
— È vero?... Hai ragione di dirlo, tu!... Sono un imbecille...
E le lasciò correre un ceffone, tremendo, che la colse nel pieno della guancia e tonò come una schioppettata. A un tratto la lasciò e andò a chiudersi in camera.
I servi, che avevano visto entrare il padrone a quel modo inusitato, erano rimasti in ascolto: nessuno di loro fiatava. La cameriera, finita la scena, sogguardava tratto tratto dall’uscio rimasto aperto, per vedere che faceva la signora. Questa era immobile, dietro la finestra, con la guancia gonfia ed infocata. Dopo un’ora, restava sempre nella stessa posizione. Subitamente si mise a passeggiare guardando per aria come per acchiappar mosche, guardando per terra come cercando un oggetto smarrito, arrestandosi di botto in mezzo alla camera quasi colta subitamente da un’idea, riprendendo poi la corsa quasi inseguendo qualcuno. Ai servi che le chiedevano ordini rispondeva brevemente, ma non in collera. La guancia le si sgonfiava e sbiancava a poco a poco; tratto tratto ella vi portava la mano.
— Eccellenza, — vennero a domandarle, — è ora d’apparecchiare? —
— Aspettate, — rispose; e andò a picchiare alla camera del marito.
Benedetto era buttato sul letto, coi panni sbottonati, la testa ancora in fiamme. Vedendo entrare la moglie, non disse nulla. Lucrezia gli si fece vicino:
— Come ti senti? — gli domandò.
— Bene, — rispose Giulente, senza guardarla.
— Vuoi desinare?
— Come ti piace.
— O credi che sia presto?
— Come credi.
— Allora posso ordinare?
Egli fece col capo un gesto d’indifferenza. Lucrezia dette ordine che allestissero. Poi tornò nella camera del marito.
— Perchè resti a letto? Hai nulla?
— No, nulla.
Benedetto s’alzò per andare a buttarsi sopra una poltrona. Era pentito dell’atto brutale, ma non esprimeva il pentimento. Ruminava continuamente il suo rancore, considerava i partiti che gli si presentavano, non sapeva a quale appigliarsi.
— Che avete deciso al Municipio? — domandò ancora Lucrezia.
— Non so niente!... — proruppe egli. — Non voglio sentir parlare più di nulla!... Vadano tutti al diavolo!... Se qualcuno dei tuoi mi viene innanzi, lo mando ruzzoloni per le scale.
— Hai ragione, — rispose sua moglie.
Dietro l’uscio, il giorno innanzi, aveva compreso dai discorsi degli assessori il tiro giocato da Consalvo a suo marito; aveva capito che Benedetto non poteva essere deputato. Nel primo momento era rinata in lei l’avversione pel nipote, per quegli Uzeda che pareva avessero giurato di schiacciarla e pretendevano accaparrare tutto per loro. Ma non sapeva ancora con chi prendersela. Era proprio colpa di Consalvo, o non piuttosto di quella bestia di Benedetto? Ciò che avevano detto gli assessori era vero? Il duca non avrebbe riparato?... Nè l’aspetto sconvolto di Giulente quand’era rincasato, nè le violente parole contro Consalvo e il duca l’avevano persuasa; forse egli avrebbe parlato un giorno intero senza riuscire a nulla. Il ceffone la convertì. Quasi che il suo torbido cervello avesse bisogno d’una scossa materiale per funzionare regolarmente, ella disse subito tra sè: «Ha ragione!» Durante le due ore passate in camera, a guardar nella via senza vedere, a passeggiare come una bertuccia in gabbia, aveva ripetuto mentalmente: «Ha ragione!... È Consalvo!... È lo zio!... Mi vogliono schiacciare!... Chi sa che cosa credono!... D’esser padroni di tutto?...» E ora, mentre Benedetto si sfogava, ella ripeteva: «Hai ragione! Hai ragione!...» Durante il desinare tacquero entrambi. Giulente assaggiava appena le vivande e lasciava la posata nel piatto. «Ti senti male?...Desideri qualcosa?... Vuoi andare a letto?...» Ella gli prodigava ogni sorta d’attenzioni, lasciava di mangiare quando il marito non mangiava più. A un punto, Benedetto si alzò. Si sentiva realmente male, tutto sossopra, e andò a letto. Ella l’aiutò a spogliarsi, gli sprimacciò i guanciali, gli preparò il caffè.
— Vuoi restar solo? Vuoi riposare?
— Sì.
Ella se n’andò. Aveva appena chiuso l’uscio che lo riaprì.
— Non t’angustiare, — tornò a dire al marito. — Deputati non se n’ha da fare uno solo. Ti presenterai anche tu. Vedremo chi è più forte, o lui o noi!