I Mille/Capitolo XVIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo XVII | Capitolo XIX | ► |
CAPITOLO XVIII.
L'ASSALTO DISPERATO.
Alle donne Italiane, che noi |
A Mentana non abbiamo vinto, né rifiutata
la vita! Vi ponno essere dei popoli più steady.
direbbero gl’inglesi, e ch’io tradurrò forse male,
con impassibili, cioè che marciano in colonna
serrata al passo verso delle batterie, che ne fanno
macello e quelle colonne si serrano a misura
che il ferro ed il piombo nemico le dirada. E
sventuratamente per noi, ve ne sono varii, classificando
certamente tra i primi i Britanni. Una
volta erano i nostri padri di Roma, steady come
le loro colonne di bronzo.
Ho detto: vi ponno essere dei popoli più fermi, più impassibili degli Italiani, ma certo nessuno più intraprendente.
Anche in tempi di depressione italiana, tra i più grandi scopritori di mondi nuovi primeggiano certamente Colombo, Americo e Caboto.
Una sola provincia dell’Italia, la Liguria, vessata in tutti i modi, da uno dei governi più abbietti del mondo — mantiene la marina mercantile nostra, fra le prime.
Camogli, paese di cinque mila anime, senza porto, e con poco favorevole posizione nautica, possiede seicento bastimenti d’alto bordo — ciocché non può millantare paese al mondo.
Il nostro popolo si getta con alacrità inarrivabile a qualunque pericolo, e non smentisce il proverbiale suo valore. La causa ch’ei propugna è santa! Ei va — ne potete esser sicuro. Ma ciò che vorrei dai miei giovani concittadini, sarebbe un po’ più di costanza nei disagi della vita del campo, e nel portare a compimento definitivo questa rigenerazione patria, già per noi vergognosa, lasciata così a metà strada.
Cattivo Governo, infingardía nostra, e massime educazione pretina, sono i motivi del nostro abbassamento fisico e morale. Ma per Dio! ci vuol poi la scienza d’Archimede per capire che un prete è un impostore e che non si deve soggiacere a tanta infamia d’esser il ludibrio del mondo!
Cozzo e i suoi cinquanta assaltavano il forte di Castellamare — la posizione più importante del nemico, perchè proteggeva la comunicazione della flotta col quartiere generale — e lo assaltavano come i Genovesi nel 1746 — i Bolognesi nel 49 — e come i Bresciani assaltavano gli Austriaci dietro i loro baluardi — col pugnale!....
E non avendo altra arma, anche col pugnale ponno assalirsi i mercenari della tirannide!
Ed i cinquanta Palermitani eran giovani degni dei loro antenati — da non indietreggiare davanti a qualunque pericolo. — Ma troppo ineguale era la pugna!
Il fosso e la prima trincea furon varcati dai valorosi figli di Palermo, verso le due del mattino, e le sentinelle colla guardia esterna eran cadute sotto il loro ferro.
Chiuso però il gran cancello, che metteva nell’interno del forte, il procedere avanti divenne impossibile, e ripigliato coraggio, i Borbonici grandinarono sui cinquanta eroi tale una furia di palle, da uccidere la maggior parte, e metter quasi tutti i restanti fuori di combattimento.
Giungevano le fucilate direttamente dal cancello di ferro, dalle feritoie laterali, e da qualunque punto, o finestra, ove potevansi collocare tiratori.
E che potevano i nostri senza armi da fuoco?
In un momento lo spazio occupato dai cinquanta tra la trincea esterna ed il cancello, fu un mucchio di cadaveri e di feriti. — E i mercenari borbonici non cessavan dal fuoco.
Noi abbiam lasciato, nel capitolo anteriore, Marzia furibonda, correndo per i corridoi del castello, ed aprendo, con tutta la sveltezza di cui era capace, tante celle quante ne trovava, e così pervenne a veder i volti amati della sua Lina e di Lia: molti furono pure i detenuti patriotti in tal modo liberati.
Poche furono le parole d’intelligenza tra i liberati, ma quelle poche bastavano per intendersi, e formando un gruppo compatto, precipitaronsi sui difensori del cancello, li assaltarono alle spalle, li disarmarono, ed aprirono al residuo dei compagni di fuori.
Era veramente molto piccolo il residuo dei nostri prodi assalitori. Comunque, non essendo gravemente ferito, Cozzo, ed alcuni dei rimasti, al grido di: Viva l’Italia! che partiva dai liberatori capitanati dalle nostre eroine, si precipitarono sul cancello, riunironsi ai nostri, e tutti insieme, lanciaronsi nell’interno, sulla guarnigione, la quale, benché numerosa, fuggiva spaventata in tutte le direzioni.
I liberati in quel trambusto eran pervenuti ad armarsi tutti — chi con armi da fuoco, chi con sciabole, e chi con altre armi tolte ai caduti ed ai fuggenti — e la partita diventava assai sfavorevole ai Borbonici, già disposti di abbandonare il forte, e gettarsi in mare, cercando la protezione della flotta.
Il sinistro genio d’Italia vegliava però sulla sorte della tirannide, e le conservò con le sue malizie per pochi giorni ancora, quel baluardo importante che, perduto il giorno 27 maggio, avrebbe sommamente servito all’impresa dei Mille su Palermo.
Il lettore ricorderà d’aver lasciato il gesuita rovesciato, ed in deplorevole condizione, nella cella di Marzia. Per la sventura del mondo, questa razza di vipere ha la pelle dura, e fattosi riconoscere dal birro che invase la cella, al rumore della lotta che vi era seguíta, questi lo aiutò a sollevarsi e lo accompagnò alla sponda del mare, ove il Monsignor — pezzo grosso — avea sempre un palischermo da guerra a sua disposizione.
Il settario di Loiola, per quanta poca pratica avesse delle cose militari, avea capito che un assalto era stato dato dalla parte di terra al castello, e conoscendo quanta importanza avea lo stesso, come veicolo, e protezione delle comunicazioni tra la flotta ed il quartier generale, corse immediatamente dall’ammiraglio, per prevenirlo del pericolo, e sollecitarlo a non abbandonare Castellamare.
Un avviso del Gesuita valeva un ordine, e ben lo sapeva il comandante della flotta; quindi tutte le compagnie di sbarco di tutti i bastimenti, furono con ogni celerità gettate sul forte per proteggere il presidio.
E ben era tempo! quando le prime barche da guerra approdavano, i fuggenti della guarnigione eran già affollati sul mare per precipitarsi, e tale confusione e trambusto succedeva tra questi mercenari, da far paura.
L’uomo di mare è un essere curioso: assuefatto a disprezzare il pericolo sull’onda, gli sembra che alacremente egli possa affrontar qualunque pericolo, e vi si getta il più delle volte con una gaiezza tutta sua, poi legato dal dovere tra quattro pareti di legno — a lui divenute monotone — egli è sempre contento d’esser inviato in terra, sia anche col pericolo della vita. Dal bordo della sua fregata, o vascello ove trovasi agglomerato con centinaia di compagni poco fortunati come lui, il marino vede sempre in terra un paradiso.
Fatale fu ai nostri valorosi tale propensione marinaresca, e le compagnie di sbarco — colla celerità propria di quella gente — internaronsi nel forte, incontraronsi coi vittoriosi, e per sventura nostra fecero cambiar la sorte delle armi.
Cozzo, ruggendo come un leone, con allato le tre guerriere, e seguíto da un pugno di coraggiosi, assalì i nuovi sbarcati, e per più volte li ricacciò indietro; ma questi continuamente sostenuti da gente fresca, finirono per soperchiare i nostri e quasi distruggerli.