I Marmi/Parte seconda/Ragionamento della poesia/Baccio del Sevaiuolo e Giuseppe Betussi

Baccio del Sevaiuolo e Giuseppe Betussi

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Baccio del Sevaiuolo e Giuseppe Betussi
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Baccio del Sevaiuolo e Giuseppe Betussi.

Baccio. Di grazia, se voi mi volete fare un piacer grande, non mi ragionate di versi, perché questa poesia è stata tanto rimestata che la pute: non vedete voi quanti versi son multiplicati?

Giuseppe. Io favello de’ buon poeti e dico de’ buon versi, e non de’ goffi componitori e degli sciocchi componimenti.

Baccio. Voi m’avete fatto paura con il vedervi tanti e tanti scartabegli trar fuori di quella vostra valigia: dove avete voi fatto mai tanta ragunata di poeti?

Giuseppe. Pensate che io vengo da Vinegia, dove sono infiniti spiriti peregrini, e da ciascuno piglio quel che io posso avere e poi fo la scelta e mi riserbo il meglio.

Baccio. Cominciate a squadernare del buono alla prima volta.

Giuseppe. S’io leggo i piú begli, gli altri vi parranno brutti.

Baccio. No, fate distinzione: cominciate a lèggere qualche cosa d’amore, poi di burla, andate poi alle battaglie, alle lodi particulari degli uomini e, cosí, d’una cosa nell’altra di mano in mano. Che bel libro è cotesto piccolo! oh bella lettera! oh che bei disegni!

Giuseppe. Questo è un libro che m’ha dato messer Francesco Marcolini, il quale dará tosto in luce; dove si fa che le parole s’accordano con l’intaglio e tutto il libro parla d’amore. [p. 252 modifica]

Baccio. Che titolo è il suo? •

Giuseppe. Amori felici e infelici degli amanti.

Baccio. Mettete mano a qualche cosa di cotesto, per la prima, per vedere se le parole del titolo, che è bello, corrisponde ai fatti delle poesie che vi sono scritte dentro.

Giuseppe. La prima composizione mostra gli infiniti lacci che legano uno amante: prima l’amore ci lega, o da noi c’inviluppiamo con diversi legami, quali buoni, quali mediocri e qual cattivi; il giogo del matrimonio è ottimo, degli altri non ne darò altrimenti giudizio: ecco qui la figura, invenzione del Marcolini, e la bella composizione d’amore.

mi tese lacci ed ami,

in un punto fui còlto,
e, come mi vedete,
ogni fuggir m’è tolto;
ché nacque dal bel vólto
lacci, rete, esca ed ami.

dolcemente mi prese; e, cosí involto,
non voglio dal bel nodo esser mai sciolto.

Baccio. L’invenzione è bellissima e mi piace; la fia piú dilettevole che gli Emblemi dell’Alciato. Io guardo che bel trovato è stato questo a far disegnare tanti atti d’amore: qua si veggono gli appassionati di cuore e d’animo, i malinconiosi, i disperati, i mal contenti, i felici e gli infelici. E ci sono ancóra delle lettere amorose?

Giuseppe. Infinite. Ma credete voi forse che questo libro sia solo? E’ son forse dodici libri; ma questo m’è stato acomodato per mostrare a un disegnatore a Roma e veder se egli vuol disegnarlo in bossolo, per far gli intagli.

Baccio. Sapete voi quel che io ci veggo dentro di mirabile, che voi non ci avete forse pensato?

Giuseppe. Che cosa? [p. 253 modifica]

Baccio. Una grande onestá: oh egli non c’è figura né parola, per quel che io veggo, che non sia onestissima e buona!

Giuseppe. Cosí si fanno l’opere. Ora vedete questa feminetta tutta malinconosa, sola, abandonata, mesta e affitta che parole ella dice:

piú grande che morire?

e passa ogn’aspra sorte,
che mai punto raffrena,
ma cresce ognor piú forte;
io vivo, ed ogni dí provo la morte.
Dunque è maggior martire
chi vive in doglia e mai non può morire.

Baccio. Lascia fare ai musici! so che troveranno delle parole a lor proposito.

Giuseppe. Io, che fo qualcosa, ancóra non mi so risolvere se le debbo dar fuori alla stampa o no; e pur son parecchi anni che io l’ho fatte. Che dite voi di questi che, súbito che fanno un’opera, la publicano?

Baccio. L’opinione degli antichi è stata cotesta, di serbar le cose alcun tempo e poi giudicarle di nuovo e racconciarle, perché con quel tempo il giudizio si fa migliore; alcuni moderni le dánno a giudicare ad altri e poi le mandano alla stampa; ma perché Seneca dice a Lucilio che uno che dice l’opinion d’altri non dice mai nulla di suo e che egli non è differenza alcuna dal libro a chi parla, io ci voglia aggiugner la mia. S’io componessi (che Dio me ne guardi, perché farei due mali, uno a non esser riconosciuto delle mie fatiche, l’altro d’esser sindacato dagli ignoranti) con una naturale inclinazione, o fusse verso o prosa, vorrei, infin che dura la vena e lo spirito del dire, sempre scrivere e darle alla stampa senza mostrarle mai ad alcuno.

Giuseppe. Questa sarebbe una nuova bizzarria. [p. 254 modifica]

Baccio. E dal mio, ci ho molte ragioni: la prima è l’adulazione. Se tu mostri un tuo scartabello a uno che ne sappi piú di te, siate certo che egli cade in una di queste cose: o egli si fa beffe della vostra composizione o ve la loda estremamente o egli non vi vuol dire il suo parere, acciò che con il suo giudizio le vostre cose non faccin paragone alle sue, e vi va a mezzo aere, o veramente vi fará racconciare alcune minime frascherie e di poco valore. Poi ci sono mille nodi da sciôrre fra chi compone l’opere e chi le censura.

Giuseppe. Avrò caro d’udirne parecchi.

Baccio. Sempre chi compone ha una particolare affezione che l’accieca, onde si crede, quando uno lo biasima, che vi covi sotto gatta, invidia e simil girandole: se le rassetta, non ti sodisfá mai; se egli ti dice: — Abruciale, — e che tu conosca che le meritano l’acciughe o ’l caviale, l’amore di quel poco di fummo cattivo e di quelle gran fatiche che tu hai durate, ti lega le mani: sí che rare volte queste canne d’organo o questi strumenti s’accordano insieme. Se fia qualche uno che sappia manco di te, non accade dir altro; talvolta tu t’abatti a uno che ha lettere assai e poco giudizio; un altro avrá giudizio e non lettere: onde la cosa mi par difficilissima. Poi, il privilegio del nostro abusarci il cervello è il creder di non aver paragone; e questo è un giaccio tondo, che cuopre (io lo dirò pur questa volta) tutti tutti, fussimo noi pure in concia con l’opinion d’una cosa sola. Sí, per dio, come uno sa disegnare, egli ti fa dell’architetto e giudica ancóra gli scrittori antichi e tassa i moderni, ancóra che sia senza lettere; un altro sará architettore e dá nel mostaccio alle leggi; un legista s’avviluppa nella teologia, un teologo nella arismetica, un abachista nella strologia: cosí ciascuno salta di palo in frasca; e che è? che è? la pania dell’ignoranza gli spennacchia. I poeti, ultimamente, oltre alle finzioni di mille millanta che tutta notte canta bugie e frappe, e’ mettano mano in ogni cosa, tutto sanno loro e gli altri niente; gli scultori e i pittori, per far le figure di terra come Domenedio fece Adamo, sanno quanto la sua maestá: sí che ognun sel becca. Però non darei mai nulla di mio a vedere. [p. 255 modifica]

Giuseppe. Piacemi il vostro capriccio. Ma che dite del serbarle?

Baccio. Deh, fratello, la nostra scritta dice in peggiorare. Tu ne trovi assai che, passato quelle furie del comporre con ispirito, megliorino la composizione! Anzi la piú parte quanto piú la rimestano piú pute, se giá in quel tempo medesimo non la limassino. La nostra natura, il nostro cervello, il nostro sapere, il nostro giudizio si muta, tramuta, guasta, corrompe e non istá mai saldo molto tempo, perché la combustione degli elementi ci sforza a far cosí: si muta la pelle, il pelo, si consuman le forze, si spegne il vigore, si stracca la complessione e si diventa d’anno in anno d’un’altra fatta; ancóra il cervello fa le sue rivoluzioni: sí che il tenér le composizioni in un cassone dieci anni non mi piace e il darle a uno o due a giudicare non la lodo punto.

Giuseppe. Adunque il publicarle alla prima furia di cervello vi quadra.

Baccio. Chi è stato alla fossa sa che cosa è il morto: a me è accaduto tutti questi casi, e a dieci miei amici e cento altri che io ho conosciuti, e non ne voglio nominare alcuno, perché non è persona che legga che non sappia ch’io dico il vero, in una gran parte, s’io non dico in tutto.

Giuseppe. Fate ch’io v’intenda, circa allo stamparle.

Baccio. In questo caso tu senti l’opinione di mille e dieci mila e vedi, alle tante rafferme, se le son buone o cattive: se del continuo le tue opere si vendono, sia certo che le sono, se non in tutto, parte, buone; se solamente una volta le si stampano, di’ pure la cosa va male; come i librari fuggono i tuoi stracciafogli, va pure a ficcarti la penna nell’orecchia e non imbrattar piú carta: perché l’è una regola general questa, che le cattive non si vendon mai un terzo, e se pure le si smaltiscano tutte, le vanno per via di trabalzi. Chi fa le sue opere oggi e delle tre parte del libro ve ne sia una buona, egli se ne può andare altiero galantemente. Adunque nell’udire tante e tante diverse tasse, riprensioni, sbeffamenti e lode e biasimi, ti fanno conoscere a parola per parola quel che vale e tiene ne’ tuoi [p. 256 modifica] componimenti e lambiccamenti di cerebro, e puoi, nello stamparle ultimamente, dargli la sua risciacquata o fargli un buon bucato sopra; tu ne sai piú che tutti, tu puo’ darne giudizio piú di tutti, perché tu hai udito chi biasima, chi se ne intende, chi loda per adulazioni, chi per udire il giudizio degli altri, chi per tirare il cordovano, chi per uccellare il poeta. Altri, da rabbia delle lodi e dell’onore che senton dare all’autore, da uomini di giudizio, si ficcano a lodare l’opere e biasimar l’uomo, ora dicendo: — Da questo infuori e’ non val nulla; egli è stracurato, egli è persona a caso. — Oh Dio, vedete dove son le virtú! E’ son parenti degli amici del «ma». — Le son belle l’opere, ma lui è bene una figuraccia. — Come dire: al parlare voi conoscete che io biasimo costui per la rabbia che io ho dentro.

Giuseppe. L’è verissima cotesta vostra ragione: io ho udito biasimare, talvolta, e conosciuto certamente che l’è tutta cancherina. Quando si biasima una cosa, bisogna fare vedere il paragone e poi dire.

Baccio. Cosí si fa. Non è stato mai fatto il piú bel tratto di quel del Doni, quando egli vedde quelle facezie stampate da messer Lorenzo Torrentino nostro e ragunate dall’eccellente signore il signor Domenichi illustre.

Giuseppe. Voi volete dire, se ’ libri si veggono e si vendono, che voi potete onorare l’inventore e lo stampatore.

Baccio. Vo’ dire che egli súbito prese la penna in mano e ne fece un altro di facezie, di motti, di arguzie, di sentenze e di proverbi; e, perché egli non si teneva dottore, non lo intitolò Motti o Sentenze, ma lo chiamò secondo che si sentiva su’ picciuoli, id est in gambe, dicendo fra sé: — S’io sono ignorante, non ho lettere, né, per consequente, non son dotto, non debbo io dare un titolo al mio libro come mi sento? — E scrisse: Chiacchiere, baie e cicalamenti; come dire: cose cavate dalla mia zucca: e zucca sia. Poi biasimò quello per quello che egli era, sporco, senza onestá, contro alla religion cristiana e vituperosissimo. Cosí si fa: chi vuol dire: — Il tuo libro non val nulla, — se ne fa un altro in quella materia e si va megliorando; e tanto piú merita lode uno quanto la cosa piú guadagna, come dire [p. 257 modifica] un fantaccino combatte con un capitano e vince, uno scolare disputa con il lettore e lo supera, o uno che non sa compitar «dottore» manda a gambe levate un legista.

Giuseppe. Voi farete che io darò alla stampa un mio dialogo amoroso.

Baccio. Cosí fate e state poi per le botteghe e per le case e massime dove voi non sète conosciuto, a vedere e udire l’opinione degli altri. Or udite questo madrigale che io vi voglio dire, il quale è della lega di quegli che avete letto, e l’ho avuto anch’io dal Marcolini e vuole che gli facci disegnare da messer Giorgio Vasari, suo compare, una figuretta.

Giuseppe. Sí, ma bisogna che si possi disegnare cosa che abbia garbo.

Baccio. Ho ordine di far dipingere una figura d’un giovane inamorato, il quale, apertosi il petto, mostri che egli non ha cuore, ma in quel luogo v’è una fiamma di fuoco; e stará benissimo, sí come dicono queste parole:

Amor dentr’a quel loco
m’accese un dolce foco.

che senza core io viva;
ma la mia fiamma cara
quanto piú m’arde tanto piú m’avviva;
e questo sol deriva
da un gran poter d’Amore
che cangia un core in fuoco e ’l fuoco in core.

Giuseppe. Fia bellissimo. Ma veggiamo s’io avesse qualche cosa buona ancóra: togliete queste altre composizioni e leggete.

Baccio. Che libro è questo scritto in ebreo, greco, latino, todesco, spagnolo, francese e toscano? La mi pare una medesima composizione in tutte queste lingue.

Giuseppe. Oimè! date qua, ché io ho commission di non lo mostrar altrimenti.

Baccio. Che mistura è ella! Lasciatemi lèggere il titolo almanco: Il baleno, il tuono e la saetta del mondo nuovo. Questa debbe essere una bizzarra materia. [p. 258 modifica]

Giuseppe. E bestiale e pazza.

Baccio. Molto. E scritto in tante lingue?

Giuseppe. Perché s’intenda per tutto il mondo o per la maggior parte.

Baccio. Infine i poeti o gli scrittori son pazzi, a dicianove soldi per lira, la maggior parte.

Giuseppe. Ditemi piú tosto che i vendicativi diabolici spiriti non si quietano mai. Date qua e non dite nulla infino che voi non lo vedete stampato.

Baccio. Chi somiglia questo ritratto? Oh egli ha la cattiva effigie! E’ pare un traditore.

Giuseppe. Somiglia per chi egli è fatto.

Baccio. Oggidí bisogna guardarsi di non avere a fare con cervelli balzani, ché non gli ratterrebbe le catene de’ mulini di Po. Che libro di battaglie è questo? Credetti che l’Ariosto avesse posto silenzo a’ romanzi oggimai. Oh che belle figurette! oh e’ sono i begli intagli! La cosa de’ libri comincia oggi ad arrivare tanto alla grandezza che poco tempo ci andrá ch’ella arriverá alla perfezione: i fregi ben disegnati, gli intagli ben condotti, le miniature bene intese, tutto ha invenzione, e sopra tutto i caratteri sono diversi, variati e nuovi: sì che dei libri se ne cava mille piaceri oltre all'utile. Or passiamo inanzi e volta la carta.

L’anima del tremendo Rodomonte,

che pur dianzi Ruggier del corpo sciolse,
ardita giunse al fiume d’Acheronte
né trapassar nella sua conca volse.

Giuseppe. Coteste stanze vi faranno paura; le sono d’una vena straordinaria e non hanno a far nulla con i poeti d’oggi, d’invenzione e di belle parole. Leggete pure inanzi.

Baccio. Quell’anima bizzarra il guarda e ride,

dicendo: — Se i demòn del crudo inferno
sono come se’ tu, orrido mostro,
per certo oggi sarò principe vostro.

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Giuseppe. Continuate le stanze, non ispezzate i suggetti.

Baccio. Voi l’avete veduto, io trascorro cosí con l’occhio, parte ne leggo piano e parte forte.

     — E come, vivo, il mio soverchio ardire

ha spaventato il mondo e la natura,
morto, vo’ che m’abbi anco ad ubbidire
del centro ogni perduta creatura:
io son quel ch’ero al vivere e al morire;
sì che fuggi da me, bestial figura;
se non, teco la barca e queste genti
la getterò sopra quei tetti ardenti. —
     Con la destra la barba e i crini irsuti,
con la sinistra il furioso tiene;
la barca, ch’è di vimini intessuti,
il grave e mobil pondo non sostiene,
perché, d’anime d’uomin mal vivuti
carica essendo, a rovesciar si viene:
cadder esse, egli cadde e il vecchion rio
nel fiume negro del perpetuo oblio.

Le non possono essere se non dell’Aretino. Oh che spirito hanno elleno!

Giuseppe. Seguitate pure, e vedrete se il libro è stupendo.

Baccio. L’alma del re defunto a nuoto corre

per l’onde tenebrose e seco tira
il legno, l’ombre e Caronte e vuol tôrre
l’imperio a Pluto e tutto avvampa d’ira.

Giuseppe. Oh che stanze terribili! Veramente altri che lui non le potrebbe fare. Sentirete che Plutone ha paura del fatto suo; leggete, via:

Baccio. L’orrido re de le perdute genti

fe’ serrar tosto le tartaree porte;
e per guardia ha piú spezie di tormenti
che guai la vita e lagrime la morte;

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le furie con le chiome de’ serpenti

s’armâr di sdegno spaventoso e forte,
ed i demoni uscîr fuor d’ogni tomba
credendo che ’l gran dì suoni la tromba.

Giuseppe. Non leggete piú, ché viene in qua gente e non voglio che alcun vegga cotesto libro.

Baccio. I poeti nascono: acconciatela come voi volete. Che cosa è questa del Petrarca sì bene scritta?

Giuseppe. Egli è il suo Privilegio, tradotto di latino in vulgare. Vedete se la poesia è cosa degna! E se voi lo leggete, leggerete una bella cosa: e ascolti chi vuole questa, perché avrò piacere che ciascuno oda.

Baccio. La traduzione non è giá molto buona, a quel ch’io veggo: in fine, e’ non giova aver fatto assai traduzioni; egli bisogna intender la forza della lingua e sapere il modo da ridurla in toscano e non far le cose per opinione.

Giuseppe. Un dottor di legge l’ha tradotto.

Baccio. Se fusse di teologia, non che di legge, e usasse i vocaboli e i numeri come io ci veggo in questa, egli non può essere se non poco avveduto a non sapere esprimere in vulgare ciò che colui volle dire in latino e disse.

Giuseppe. Leggete pure e lasciate dare il giudizio ad altri di questo, perché voi altri fiorentini siate parziali.

Baccio. Per la mia fede che avete ragione: noi ce ne curiamo assai; io mi rido che ciascuno dice i suoi vocaboli proprii da quegli che trova nel Boccaccio in fuori.

Giuseppe. Se non sa i vostri, qual volete che egli dica?

Baccio. Io ve la do vinta: lasciatemi lèggere, questo benedetto birbilegio. [p. 261 modifica]

il privilegio della laurea

di messer Francesco Petrarca

la quale onoratamente gli fu donata a roma in campidoglio
alli ix d’aprile mcccxli
.

A perpetua memoria del fatto, noi Orso, conte dell’Anguillara e Giordano dei figli d’Orso cavaliere, senatori di Roma, facciamo sapere a tutti coloro ai quali arriveranno le presenti nostre lettere. Essendo noi composti d’anima e di corpo, e cosí avendo gli uomini due strade d’acquistarsi gloria, l’una delle quali s’esequisce con le forze della mente, l’altra del corpo, l’onnipotente Iddio fin da principio del mondo volse che ’l principato d’amendue si ritrovasse in questa gloriosissima cittá. Lá onde giá s’è veduto che questa medesima cittá per lo tempo passato o vero ha generato o, generati altrove, ha nodrito, accresciuto e illustrato infiniti uomini notabili cosí nell’arti d’ingegno quanto nell’esercizio della guerra. E veramente che fra le molte cose le quali si fanno con le forze dell’animo, lasciando per ora di ragionare degli atti del corpo, nella nostra republica altre volte sono stati in grandissimo prezzo di floridissimi e d’ogni lode degni istorici e sopra tutto poeti, con la industria e la fatica dei quali cosí a loro medesimi come agli altri uomini chiari, i quali essi degnavano nobilitare coi versi suoi, ne veniva a nascere fama immortale. Per opra di costoro principalmente n’è venuto che noi abbiamo memoria di questa cittá, dell’imperio, dei nomi, della vita e dei costumi degli altri uomini illustri di ciascuna etade, i quali da loco alcuno per corso di tanti secoli a noi non potevano aggiungere. E certo, sí come l’abondanza dei poeti e degli istorici a molti è stata cagione di gloriosa e divina gloria, cosí non è dubbio che la carestia di quegli a lungo andare di tempo a infiniti altri ha recato indegne tenebre d’oblio alla eternitá del nome loro. Di qui spesso viene che, non sapendo le lode di quegli uomini i quali sono vissuti con noi (cosa maravigliosa da credere), di tutti i piú antichi certa notizia abbiamo. E certo che i poeti nella gloria del tempo passato sono egualmente famosi, e saranno; perché, come abbiamo detto, a se medesimi e agli altri immortalitá acquistavano e, [p. 262 modifica] oltr’agli onori e ai privilegi che gli erano donati di publico, giá per premio e proprio ornamento degli studi meritavano la corona di lauro. Onde la republica di tanto onore gli giudicò degni che un medesimo ornamento della laurea volse che si desse agli imperadori e ai poeti: perciò che coronavano di lauro i Cesari e i capitani vincitori dopo i travagli della guerra e similmente i poeti dopo le fatiche degli studi, volendo per l’eterna verdura di quello arbore significare l’eternitá della gloria acquistata cosí con la milizia quanto con l’ingegno. E credesi che spezialmente fosse per questo, perché, sí come questo arbore solo non è folminato da Dio, cosí è da giudicare che quella gloria degli imperadori e dei poeti, la quale a uso di folgore tutte le cose abbatte, essa sola non possa essere offesa dalla vecchiezza. E veramente ch’all’etá nostra questo poetico onore, il che con dispiacere ricordiamo, non si sa bene da quale tarditá d’ingegni o malizia di tempi di modo lo veggiamo esser posto in oblio, ch’ancóra quasi non sanno gli uomini nostri quel che si voglia significare questo nome «poeta»; credendosi molti che l’uffizio del poeta altro non sia che fingere o mentire: che se cosí fosse, parrebbe questo ornamento e cosa leggiera e d’ogni onore indegna. Non sanno ancóra che l’ufficio del poeta, sí come abbiamo inteso da uomini dottissimi e sapientissimi, consiste in questo, di spargere la virtú della cosa celata sotto ameni colori, e quasi come una bella ombra ornata di figmenti e celebrata di sonori versi, con la soavitá del dolce parlare, la quale sia piú difficile d’acquistare e, ritrovata, divien piú dolce. Per questa cagione intendiamo che i famosi poeti solevano essere coronati in Campidoglio a modo di trionfanti; ed èssi questa usanza di maniera invecchiata che da mille e trecento anni non leggiamo che alcuno vi sia stato di questo ornamento onorato. La qual cosa considerando l’ingegnoso uomo e ardentissimo investigatore di cosí fatti studi fin dalla sua giovanezza messer Francesco Petrarca fiorentino, poeta e istorico, giudicando ben fatto ch’a questo tempo spezialmente si devesse aiutare questa scienzia quanto piú ella era sprezzata dagli uomini e abbandonata, dopo che egli ha avuto con gran diligenza rivolto i libri degli autori e dopo l’opere proprie del suo proprio ingegno, massimamente d’istorie e di poemi, parte dei quali egli ha ancóra tra le mani, ardendo d’onesto desiderio della laurea non tanto per gloria, sí come egli medesimo ha affermato alla presenza nostra e del popolo romano, quanto per accendere gli animi d’ogn’uno a simil desiderio degli studi, [p. 263 modifica] benché chiamato da studi e da cittá a pigliare questo onore altrove, tirato nondimeno dalla memoria degli antichi poeti e parimente dallo affetto e dalla riverenza di questa sacrosanta cittá di Roma, della quale si sa quanto egli sempre sia stato ferventissimo amatore, rifiutati i prieghi degli altri, ha deliberato venir qui dove gli altri inanzi di lui sono stati coronati. E perché sopra ciò non paresse ch’avesse voluto fidarsi della prosonzion sua, deliberò piú tosto credere ad altri che a se stesso; e per questo, rivolgendosi attorno, né ritrovandone alcuno altro piú degno in tutto ’l mondo, partendo dalla corte romana, la quale fa di presente residenza in Avignone, personalmente s’ha trasferito sino a Napoli innanzi al serenissimo Roberto illustrissimo re di Gierusalem e di Sicilia. In questo modo adunque sé ha sottoposto allo esame di quello cosí gran re abondantissimamente rilucente dei raggi di tutte le scienzie, preponendo lui a tutti gli altri uomini, sí come quello che gli è paruto dignissimo sopra tutti, e certo con maturo consiglio, e gran giudizio, acciò che, approvato da lui, da nessuno altro potesse essere rifiutato. Avendo dunque questo re, dopo averlo udito e letto parte dell’opere sue, giudicatolo dignissimamente degno di cosí fatto onore e sopra la sufficienzia di lui mandato a noi lettere di testimonio col suo sigillo e messi degni di fede, e avendo il detto messer Francesco in questo medesimo giorno in pieno Campidoglio solennemente chiesto la laurea poetica, per questa cagione, dando noi certissima fede al testimonio regio e alla fama publica, la quale a lui di lui molte cose aveva ragionato, ma molto piú credendo al testimonio dell’opere sue, in questo di presente, ch’è il giorno di pasqua, nel Campidoglio romano, cosí in nome del detto re quanto nostro e del popolo romano, dichiarámo il prefato messer Francesco gran poeta e istorico e l’onoriamo d’illustre nome di maestro; e spezialmente in segno della poesia, noi Orso conte e senator giá detto, per noi e per lo nostro compagno, con le nostre mani abbiamo posto la corona di lauro sul capo di lui, dandogli cosí nell’arte poetica quanto nell’istorica e in ogni altra cosa appartenente a lui, d’autoritá del detto re e del senato e popolo romano, cosí in questa santissima cittá, la quale non è dubbio ch’è capo di tutte l’altre cittá e terre, quanto in ogni altro loco, per tenore delle presenti lettere, libera possanza di lèggere, disputare e interpretare le scritture degli antichi e, con l’aiuto di Dio, di componere delle nuove da se stesso e libri e poemi ch’abbiano a durare per tutti i secoli, e ch’egli possa ancóra, ogni volta [p. 264 modifica] che gli piacerá, fare questi medesimi e altri atti poetici e coronare altrui di lauro, di mirto o d’edra, secondo ch’egli eleggerá, e farlo in quale atto e abito poetico publicamente e solennemente gli piacerá. Oltre di ciò, per vigore di questi scritti, approviamo tutte le cose che fino a questa ora sono state scritte e composte da lui, sí come uomo consumato in simili imprese; l’altre cose che gli accaderá a scrivere nell’avvenire, per la medesima ragione, giudichiamo che siano da essere approvate, dal giorno che da lui saranno publicate e poste in luce. Ordiniamo ancóra ch’egli abbia a godere quei medesimi privilegi, esenzioni, onori e insegne i quali qui e in ogni altro luogo usare possono e sono usati di potere i professori delle arti liberali e oneste; e tanto piú perché la raritá della professione lo fa degno di piú abondanti favori e di maggior benefizio. Appresso questo, per le notabili doti del suo ingegno, e per chiarissima divozione, la quale gli atti e le parole di lui e la fama comune testimoniano che egli porta a questa cittá e alla nostra republica, facciamo, pronunziamo, ordiniamo e dichiariamo il medesimo messer Francesco cittadin romano, onorandolo del nome e degli antichi e nuovi privilegi de’ cittadini. Di tutte le quali cose insieme e ciascuna per sé, essendo solennemente domandato il popolo romano del parer suo, sí come è costume di farsi, senza che pure alcuno contradicesse, ha risposto gridando che di tutte queste cose è contento. Per testimonio delle quali abbiamo comandato che si facciano le presenti lettere, confermate dalla soscrizione dell’una e l’altra sostanza del senato e col sigillo della nostra bolla d’oro. Dato in Campidoglio, presenti noi e infinita moltitudine, cosí di forestieri quanto di baroni e popolo romano, alli IX d’aprile negli anni del Signore MCCCXLI.


L’è stata un poco lunghetta la cosa, ma bell’udire ha ella fatto.

Giuseppe. Io, che son giunto oggi, sono stracco; però fia bene che io mi vadi a riposare.

Baccio. Son contento, ché egli è dovere; ma lasciatemi lègger una stanza di quelle dell’Aretino ancóra.

Giuseppe. Volentieri; e poi a Dio.

Baccio. Deh come mi piacciono questi disegni tirati in due tratti! oh son begli! [p. 265 modifica]

     Ha Marfisa due briglie in le man dure

e le pesa e le palpa e le rimira,
poi con parole piú che morte scure,
con quel suo cor che dove vuole aspira,
disse: — Le forze mie, che sepolture
sono a’ viventi, se le accenda l’ira,
vaglion col mio valor fiero iracondo
questo fren porre al ciel, quest’altro al mondo. —

Giuseppe. Bastivi questa; un’altra sera vedremo dell’altre cose.

Baccio. Avete ragione. Mi raccomando.