Grand Tour/X
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Spazio rurale, LII n. 10, ottobre 2007
Dall’economia della foresta all’industria del turismo
Lavorava in Maremma, bambino, col padre mezzadro. Ha partecipato alla Riforma, ha sperimentato tutte le strade della nuova agricoltura, per conservare l’azienda ai figli ha scelto l’agriturismo. Considera la Riforma, e l’agricoltura cui diede vita, un’epopea grandiosa, per sempre finita
“Ricordo questa corte occupata, tutta intera, da una catasta di carbone che pareva toccare il cielo. A tagliare il bosco un esercito di taglialegna, tutti montanari del Casentino, e a portarla dai boschi file di muli che non finivano mai. Qui era padrone Orlando Armenti, che solo in Maremma aveva cinque fattorie, e col carbone che mandava a Grosseto caricava treni interi: allora a Roma tutte le stufe bruciavano carbone di legna. Poi nei boschi tagliati si levavano i ciocchi col piccone, e si seminava il frumento. “
A tratteggiare, seduto al fresco della brezza che sale dal mare, nel portico della vecchia casa, il quadro dell’economia maremmana prima della Riforma fondiaria, l’economia della foresta e dell’allevamento brado, è Alvaro Cecconata, sessantaquattro anni, proprietario di una delle mille aziende che attuando la Riforma voluta dalla Democrazia Cristiana Giuseppe Medici disegnò sulla carta, infrangendo latifondi di migliaia di ettari, e nel 1953 assegnò a mezzadri e braccianti. Su quella terra al tempo dell’assegnazione Cecconata, penultimo di otto fratelli, a dieci anni sorvegliava il bestiame nel podere che il padre coltivava, come mezzadro, in una delle fattorie di Armenti. Dato il numero dei figli in età da lavoro il podere era vasto, 87 ettari, e anche l’assegnazione fu superiore alla media, 25 ettari, una dimensione che imponeva quattro coppie di buoi.
Ricordo l’orgoglio di Medici per avere trasformato una regione di pascoli aridi, dove la vita stessa era insidiata dalla malaria, in uno dei comprensori di maggiore dinamismo agricolo del Paese. Partecipe della grande trasformazione Cecconata ricorda la grandiosità dell’impresa: “Quegli uomini avevano deciso di fare un mondo diverso e lo fecero. A Grosseto un giorno arrivò un treno intero di trattori, un treno! I vecchi padroni credevano che in Maremma non potesse cambiare nulla. Qualcuno se ne andò promettendo agli assegnatari che sarebbe tornato, che avrebbe riavuto la terra. Ma la Maremma cambiò davvero!”
La Maremma è cambiata, riconosce il mio interlocutore, seppure alla fine il mutamento abbia creato uno scenario che non è quello cui erano legati i signori degli antichi feudi, non è quello progettato dal professor Medici, non è quello sognato da migliaia di assegnatari. Delle opportunità di sviluppo di una nuova economia agraria, spirito intraprendente, Alvaro Cecconata ha esplorato tutte le strade: è stato grande mediatore di uve, quando la Maremma mandava centinaia di autotreni di uva nei centri dell’industria enologica nazionale, il Chianti, il Piemonte, la Liguria, è stato grande mediatore di paglia, quando i campi della Maremma ne mandavano ogni settimana millecinquecento autotreni agli allevamenti del Piemonte, della Lombardia e dell’Emilia, è stato il maggiore ingrassatore di bovini da carne della Maremma, quando l’Italia importava vitelli da tutti i paesi d’Europa perché il silomais consentiva di pagare il vitello qualunque prezzo per produrre i vitelloni richiesti da un mercato letteralmente famelico della “fettina” assurta a status symbol degli antichi contadini convertiti in operai a Torino e a Milano. Cecconata i vitelli li acquistava sul mercato locale, prima vitelli maremmani, poi, quando la Maremma parve convertirsi in grande allevamento da latte, i meticci ottenuti fecondando le frisone col seme di tori maremmani o francesi. Ha persino gestito una stazione di monta, con tori maremmani di cui ricorda un campione che pesava, al termine della gloriosa carriera, diciassette quintali, e, quando in Maremma parve diffondersi l’allevamento suino, verri Large White e Landrace.
Ha percorso le strade diverse dello sviluppo agricolo della Maremma ma, una a una, le ha lasciate, tranne l’allevamento da carne, che ha proseguito riducendo il numero dei capi che alleva: alimentava cinquecento animali, ne alimenta centocinquanta, che vende ai macellai locali, a Orbetello e a Pitigliano, evitando Grosseto, il cui mattatoio si è convertito nel centro di scarico di autotreni di mezzene con i cui prezzi non è possibile misurarsi. Al contrarsi dell’entità dell’allevamento il figlio, Marco, seguiva la strada dei figli di cento assegnatari, che lasciavano il podere per un’attività che ripagava una fatica tanto minore con una remunerazione tanto maggiore. La scelta del figlio proponeva a Cecconata la prospettiva di cento e cento assegnatari, cui il rifiuto degli eredi di continuare l’attività del padre ha imposto la vendita di un podere cui la vicinanza al mare attribuisce, oggi, un valore superiore ad ogni valore agricolo. Cecconata la ha evitata scegliendo l’agriturismo, un’opzione apparentemente agevole, nella realtà immensamente impegnativa, siccome l’agriturismo fruisce di una legislazione vantaggiosa, ma impone investimenti cospicui, e obbliga ad un impegno della famiglia che l’esperienza prova poche famiglie di agricoltori disposte ad accettare.
Immagine:Maremma 002.gif|thumb|400px| Due giovani ospiti dell'agriturismo "La Marta" davanti ai tori a fine ingrasso ]]
Se le leggi sono favorevoli, sul piano fiscale, in provincia di Grosseto la molteplicità degli agricoltori che hanno tentato l’esperienza ha reso rovente la concorrenza per le disponibilità finanziarie, che, mi informa una fonte diversa, sono elargite prevalentemente a operatori che non vantano nessuna confidenza con trattori e bovini, ma buone amicizie politiche: un costume che chi scrive può confermare con cento esperienze emiliane. Avendo riposto i risparmi dell’attività svolta sui fronti molteplici dell’agricoltura Cecconata ha realizzato con i propri mezzi la conversione di una grande stalla in complesso di accoglienti appartamenti, affronta ora la costruzione di un nuovo complesso.
Ma realizzato un edificio capace di accogliere i clienti della stagione balneare e i turisti che visitano, nei mesi diversi dell’anno, i centri dello splendore etrusco, si impone il faticoso lavoro di assicurare la perfetta pulizia, anche dopo la permanenza di una notte, la gestione delle prenotazioni e delle disdette, la scelta di tariffe adeguate alla domanda, tanto variabile dalle settimane dell’affollamento balneare alle visite sporadiche dei mesi invernali. Mantenere la pulizia, proporsi ad ogni ospite con cordialità, offrendo il fiaschetto di vino e la bottiglia d’olio, guadagnando, con una cortesia che costituisce imperativo professionale, il cliente abituale, non sono attitudini naturali della famiglia rurale, che ha sempre amato la propria indipendenza, e che accetta malvolentieri, comprensibilmente, di sacrificarla alle esigenze, magari al capriccio, di un estraneo che chiede una notte di soggiorno ai prezzi della “stagione morta”. Fare l’operatore turistico è mestiere radicalmente diverso da quello dell’agricoltore. Per conservare l’azienda, e un’attività indipendente, Alvaro Cecconata ha condotto la famiglia alla radicale scelta professionale, premiata dal ritorno in azienda del figlio, rassicurato dal futuro nuovo, e da quello stagionale della figlia, Sabrina, che, sposata con un industriale di Prato, trascorre in azienda l’estate per occuparsi dei rapporti con i clienti.
Dall’economia della foresta a quella del turismo: l’agricoltura non ha messo radici in Maremma, suggerisco al mio ospite. L’agricoltura è sbocciata e si è rapidamente contratta, in Maremma, entro dimensioni che paiono, ormai, invalicabili, conferma il mio ospite. I fratelli Gabellieri, grandi amici di Amintore Fanfani, furono per tre lustri i maggiori coltivatori di barbabietole d’Italia. Irroravano, negli anni Sessanta, i seminati con l’aereo, per loro Fanfani decretò la creazione di uno zuccherificio. Si scontrarono, per l’acquisto di Maccarese, con il sottogoverno socialista, che ne decretò l’eclisse. Scomparvero. La Maremma si riempì di stalle da latte, la Centrale del latte di Grosseto parve divenire un colosso. Ora la riforniscono quattro o cinque grandi stalle: altre non è dato ritenere che sorgeranno più. Il grano duro realizzò, sui terreni ancora vergini, primati, ora sui colli non ripaga le spese, e chi lo semina non è certo per quanti anni lo farà ancora. C’erano in Maremma migliaia di greggi di ovini, sono rimasti quelle dei sardi, che hanno mandrie di più di mille pecore, ma il numero delle greggi continua a contrarsi. Frutticoltura ed orticoltura suscitarono speranze luminose, furono piantati migliaia di ettari di pesche. Non esiste più nulla, salvo i cinque alberi per alimentare le vendite dei chioschi posti sulla strada del transito balenare. Dei fasti dell’orticoltura sopravvive uno stabilimento cooperativo per la lavorazione del pomodoro, cui conferiscono i pochi produttori che coltivano superfici tali da disporre delle macchine necessarie all’intero ciclo colturale. Chi non ha le macchine pomodoro non ne semina neppure un’ara. Qualche vitale azienda viticola, e basta. Poche decine di aziende fanno l’agricoltura maremmana. Il resto è turismo, che assicura il futuro degli agricoltori che abbiano avuto la determinazione di inserirsi: ma due o trecento esercizi agrituristici non significano la continuità delle decine di migliaia di aziende agricole della Riforma fondiaria.
- Spazio rurale, LII n. 10, ottobre 2007