Grand Tour/IX
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Visita alla cantina dalla quale è scaturita la rinascita del vino siciliano, matrice di un decennio di straordinari successi commerciali. Il primo obiettivo del presidente, Diego Planeta, fu infrangere la soggezione al commercio francese, che chiedeva vini sfusi al prezzo più vile. Il secondo, la vendita in bottiglia. E il vino imbottigliato dalla cantina Settesoli ha, in vent’anni, radicalmente mutato i propri connotati, alla preminenza del nettare delle uve siciliane sostituendosi progressivamente quella dei vitigni internazionali che pretendono i supermercati inglesi, tedeschi e americani.
Ho incontrato il barone Diego Planeta due volte, tra il 1979 e il 1982. Era presidente, a Menfi, sul lembo più meridionale della Sicilia, della maggiore cantina sociale del quadro italiano, la Settesoli., più grande dei maggiori organismi enocooperativi spagnoli e francesi. I suoi duemila soci raccoglievano, su seimila ettari, quindi da aziende mediamente piccole, l’astronomica quantità di 700.000 quintali di uve, ricavate dai tipici vitigni bianchi della tradizione trapanese, la tradizione del Marsala. Ricordo di avere fotografato quelle uve, caricate su cento e cento rimorchi, in fila, sulla statale, in attesa di entrare in cantina a scaricare, ribollendo al sole impietoso del settembre siciliano. Erano i tempi della guerra del vino, per il bianco isolano i negozianti francesi offrivano 1.750 lire ettogrado, un prezzo che presupponeva che il vino fosse fabbricato con vinacce, acqua e zucchero, un’operazione che i vitigni da cui si era ricavato, per un secolo, il Marsala, consentivano di effettuare con risultati eccellenti. Siccome con quel prezzo i vignerons della Provenza non potevano competere, le strade del Midi erano inondate dal vino acquistato in Sicilia dai négociants parigini, che i piccoli viticultori del Sud non lasciavano transitare. La “guerra” culminò con l’arrembaggio, in mare, di una vinaccera italiana, l’Ampelos, nelle cui cisterne il commando francese riversò taniche di cherosene.
Nel modesto ufficio di presidente Diego Planeta mi spiegava che la viticoltura siciliana doveva emanciparsi dai négociants francesi che la sfruttavano per ucciderla, che il vino siciliano si doveva vendere in bottiglia, che per fare un vino di gusto adeguato alle esigenze del mercato il suo direttore, che aveva assoldato ad Asti, sosteneva che non si potevano vinificare quelle uve surriscaldate dal sole, che bisognava raffreddarle. Ma come raffreddare 700.000 quintali d’uva? Ricordo grandi agricoltori trapanasi che sostenevano che pensare di vendere il vino siciliano in bottiglia fosse una follia: il costo del trasporto lo avrebbe reso invendibile.
Oggi, imposta la Settesoli come primo venditore di vini siciliani di gamma media in tutti i supermercati europei, universalmente riconosciuto come l’artefice della svolta che ha sospinto il vino siciliano al clamoroso successo degli anni recenti, Diego Planeta ha creato, nell’azienda di famiglia, una cantina che produce vini che competono nella fascia più alta del vino italiano: conservando l’antica presidenza orienta le sorti dell’intera gamma dei vini siciliani, dall’eccellente vino da pasto alla bottiglia di alto lignaggio.
Partendo per il periplo della nuova agricoltura siciliana chiedo, al telefono, alla responsabile delle relazioni pubbliche della cantina di incontrarlo, il presidente mi fa sapere che mi rivede volentieri, per ripercorrere vent’anni di progresso del vino siciliano. Quando arrivo, accompagnato da un amico di Trapani, il barone Salvatore Battiata, a Menfi, la cortese signora con cui ho concordato l’incontro, Roberta Urso, mi informa che il presidente soffre di una violenta influenza, mi accompagna alla visita degli impianti e mi conduce alla palazzina degli uffici, dove, con siciliana cortesia Diego Planeta, visibilmente sofferente, mi raggiunge per un saluto e per affidarmi, per conversare di passato e futuro del vino siciliano, al direttore del complesso, Salvatore Li Petri.
E’ un giovane, dinamico manager cooperativo, al tempo delle mie visite alla cantina sedeva, probabilmente, sui banchi di un liceo. Conosciuta l’antichità dei miei rapporti con la cantina mi illustra i mutamenti intervenuti in vent’anni, i vent’anni del successo. Sono stati mutamenti ingenti. Impareggiabile condottiero della numerosa compagine sociale, Diego Planeta ha guidato i soci a rinnovare radicalmente i propri vigneti: conoscevo una cantina che vinificava le tipiche uve bianche della Sicilia, oggi metà delle uve prodotte dai soci deriva dai caratteristici vitigni internazionali, il 60 per cento della produzione è costituita da uve rosse, tra Trapani e Agrigento vent’anni addietro praticamente sconosciute. Una metamorfosi radicale: altrettanto radicale è stata la riduzione della produzione, imposta da un piano sistematico di miglioramento della qualità. I 700.000 quintali di uve si sono ridotti a 500.000: l’entità resta imponente, ma la contrazione è ingente. Né meno impegnativo è stato il rinnovamento degli impianti: per ogni linea di produzione sono state scelte le apparecchiature necessarie ad esaltare le peculiarità del prodotto cui ciascuna è destinata. Gli investimenti sono stati imponenti.
Da 500.000 quintali d’uva la cantina ricava 350.000 ettolitri di vino e 50.000 di mosto muto. Il vino destinato alle bottiglie si ripartisce in quattro fasce, comprendenti, complessivamente, cinquanta etichette, da quelle destinate all’enoteca, dove saranno vendute a 6 euro la bottiglia, a quelle per la grande distribuzione, dove saranno vendute a 2-3,5 euro le bottiglie dei bianchi, a 3,5-4 quelle dei rossi. L’articolo più economico della gamma è il brik, ancora un vino di assoluta dignità, mi assicura Li Petri, venduto a 1 euro. La cantina vende anche vini sfusi di qualità medioelevata, i vini per imbottigliatori che vogliano apporvi la propria etichetta. Per offrirmi un termine di riferimento Li Petri mi informa che i vini dell’azienda Planeta vengono venduti, in enoteca, tra i 20 e i 40 euro. Gli innumerabili riconoscimenti non hanno indotto il Presidente a alzare i prezzi, mi spiega: l’azienda, 500 ettari, è cospicua, la produzione considerevole, Diego Planeta vuole essere certo della continuità delle vendite.
I vostri mercati, chiedo al mio ospite, e i vostri concorrenti? Vendiamo in tutto il Mondo, è la risposta, tramite un’agenzia londinese in cui tre operatori curano, rispettivamente, l’America, l’Europa, l’Oriente. In Italia, 120 agenti per la linea Mandrarossa, una rete specifica per il marchio Settesoli, nove agenti in Sicilia. Tra i concorrenti, uno solo costituisce un pericolo reale, l’Australia, che ha impiantato 120.000 ettari, tanti quanti la Sicilia, secondo un piano di rigore eccezionale. Un unico disegno agronomico ed enologico, una sola strategia mercantile, e il vantaggio di vendere in dollari, che significa un bonus del 30 per cento. Quei vini ci fanno paura, con tutti gli altri, proclama, ci possiamo confrontare agevolmente. Ma la Francia e la sua grandeur enologica, chiedo, la California, il Cile, la Nuova Zelanda, il Sudafrica? La Francia è stata tradita dal proprio orgoglio, che l’ha convinta di essere perfetta, e di non avere bisogno di rinnovarsi, la California è lontana dai mercati, il Cile produce molto bene, ma le quantità non sono comparabili a quelle australiane
Percorrendo la lunga strada tra Trapani e Menfi l’amico Battiata, antico viticultore, mi ha informato delle innumerabili cantine che, le cisterne colme, l’anno scorso non sono riuscite a erogare il saldo delle uve conferite, che in marzo debbono ancora pagare il primo acconto per la vendemmia 2005: quale è lo stato dei conti con i soci? Chiedo a Li Petri. Dal 1997 al 2004 abbiamo vissuto anni d’oro, risponde il direttore della Settesoli, che paiono finiti: la maggior parte delle cantine sociali, che vinificano ancora il 70 per cento del vino siciliano, per le uve della vendemmia 2004 ha distribuito un acconto di 10-12 euro per quintale, quelle che sono riuscite, poi più nulla. La Settesoli ha liquidato, in media, 21-22 euro, ma cifre maggiori per i vitigni di pregio: 65 per lo Chardonnay. Non sono i 35 euro liquidati, in media, per la vendemmia precedente, ma sono prezzi che consentono ai soci di chiudere positivamente i bilanci aziendali.
Quale insegnamento ricavare dalla differenza tra le vendite della Settesoli e l’incapacità di vendere della flotta delle cantine siciliane? Chiedo al mio interlocutore. Che il vino comune sfuso, ottenuto mescolando, come è ancora usuale, vitigni diversi, non ha più un mercato, è la risposta: noi produciamo vini per la fascia media del consumo, la fascia dei supermercati, ma su quella fascia offriamo vini di altissimo livello tecnologico, ricavati dai vitigni che pretende il mercato internazionale con la tecnologia appropriata. E disponendo dei vini che chiede il mercato internazionale contiamo di dilatare il nostro spazio: stiamo guardando con attenzione ai paesi dell’antico contesto sovietico.
E tra i produttori della fascia medioalta? Chiedo. La fascia medioalta interessa, in Sicilia, il 5-6 per cento della produzione, con nomi augusti, come Tasca d’Almerita, e sta vendendo bene, è la risposta. Alla fascia alta si sono aggregati grandi produttori settentrionali, che hanno acquistato grandi aziende. Con quali risultati? Chiedo. Hanno comprato la terra e impiantato i vigneti: aspettiamo che producano il loro vino, e che affrontino il mercato, è la risposta del mio ospite.
- Spazio rurale, LI, n. 5, maggio 2006