I magnati degli affari conquistano i domini nobiliari

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I magnati degli affari conquistano i domini nobiliari
Grand Tour II

SIENA: IL NUOVO FAR WEST DELL’AGRICOLTURA ITALIANA


L’immagine tradizionale dell’agricoltura italiana è quella di un universo di piccole e piccolissime aziende. Cinquanta ettari sono già grande proprietà. E la norma vale dall’alta Val d’Adige alla Conca d’oro. Ma proprio nel cuore della Penisola c’è una provincia che impone un’eccezione clamorosa alla regola. E’ la provincia di Siena: fino a vent’anni fa dominio della grande fattoria nobiliare, all’estinguersi della mezzadria l’agricoltura senese ha conosciuto anni di profondo decadimento, fino a quando le grandi aziende semiabbandonate sono state scoperte dai nuovi manager della finanza e dell’industria, dai grandi commercianti, dai trafficanti dalla più difficile classificazione. E’ cominciata allora un’autentica corsa al Far West. Nella sfida tra i contendenti a decidere della vittoria non è stata la sveltezza ad usare la Colt o il Winchester, è stata la prontezza a firmare assegni di miliardi, di molti miliardi.



Dal feudo alla fattoria mille anni di storia italiana

Abbiamo conosciuto tutti il momento di commozione, davanti alla pellicola americana, alla rievocazione della corsa alla terra dei pionieri del West: i grandi carri coperti di tela che varcano deserti e catene montuose, l’arrivo alla fertile praterie da dissodare, donne e bambini che fanno cerchio in attesa, il colpo di pistola dello sceriffo che lancia i concorrenti alla conquista dei lotti già segnati: il più forte avrà al terra migliore. Immancabilmente sono la Colt o il Winchester a risolvere la lite insorta tra i contendenti: la riaffermazione più inequivocabile della regola che è al più forte che tocca il lembo di terra più fertile, sulla riva del fiume, un gruppo di vecchie querce tra le quali costruire la casa di legno.

Immagini che non sapremmo trasporre nelle nostre campagne, dove da millenni ogni lembo di terra è stato misurato, censito, ceduto e acquistato da generazioni di notai pedantemente scrupolosi nella descrizione di ogni fosso, del muricciolo di cinta, del pozzo, del selciato.

Eppure, proprio nel cuore di questa terra segnata da una ragnatela inestricabile di parcelle e di confini di proprietà c’è una grande provincia, una delle più vaste della Penisola, dove da quasi due decenni si combatte una corsa alla terra che ripete tutti i caratteri della corsa verso l’Ovest dei pionieri americani. Oggetto della corsa di conquista non sono suoli i suoli vergini della Prateria: le terre di cui i nuovi conquistatori si sono impadroniti allo stato vergine parevano destinate a tornare da un destino ineluttabile, il destino che aveva segnato la fine di un’altra epopea, un’epopea tipicamente italiana, l’epopea della proprietà nobiliare toscana. Un’epopea che per non aver suscitato l’interesse dei cineasti è forse meno conosciuta di quella del West, ma che nella storia dei rapporti tra l’uomo e la terra, e di quelli tra gli uomini per il dominio della terra, non è meno significativa della storia della colonizzazione della Prateria americana.

Nella composizione multiforme di civiltà, tradizioni, assetti sociali ed economici tra loro incomparabili che porta il nome d’Italia, ogni regione, ogni provincia ha scritto la propria storia della proprietà della terra. Se assumiamo come termine di partenza l’assetto fondiario dell’alto Medioevo, quando l’intera Penisola è ripartita tra signori feudali e grandi monasteri, e lavorata da una plebe rurale legata alla terra da una gamma di rapporti che vanno dall’autentica schiavitù all’enfiteusi, dalla compartecipazione all’affitto, possiamo seguire una serie di processi di evoluzione che portano, ad esempio, in Lombardia alla diffusione della media proprietà borghese già sulle soglie del Cinquecento, al persistere, in Sicilia, della feudalità, con il diritto del barone di dettare giustizia ai propri contadini, fino sulle soglie dell’Ottocento. In Toscana, a metà strada, per evoluzione civile ed economica, tra la Conca d’oro e le rive dell’Adda, le fondamenta del sistema feudale vengono smantellate alla metà del Settecento dall’azione riformatrice di Leopoldo di Lorena. Morto il feudo non muore, tuttavia, la grande proprietà: la nobiltà del Granducato sa perfezionare, anzi, un sistema di conduzione delle proprie tenute non privo di efficienza tecnica ed economica: la fattoria mezzadrile.

Arthur Young, l’agronomo inglese che percorre il Continente per misurare la ricchezza agraria delle nazioni che si opporranno nel duello napoleonico, confrontando la fattoria toscana con i metodi di conduzione britannici esprime critiche impietose: osservata nel proprio ambiente specifico, un ambiente difficile, dove l’unico sfruttamento razionale della terra è la coltura promiscua, in cui i miglioramenti fondiari sono lenti e costosi, alla fattoria toscana non può disconoscersi razionalità ed efficienza. Nonostante l’intrinseca povertà dei terreni, per tutto l’Ottocento è grazie alla fattoria mezzadrile che le campagne toscane conservano un autentico primato di prosperità tra quelle di tutta la Penisola.

Prima ancora che impresa agricola, la fattoria è un’autentica società civile, un complesso organismo economico e giuridico: una superficie che spesso conserva l’estensione degli antichi feudi, ripartita in dieci, cinquanta, cento poderi, ciascuno con casa, stalla, porcile, e una famiglia che sfrutta qualche seminativo, un poco di vigna, una parcella di bosco. Al di sopra dei contadini una complessa organizzazione gerarchica, che dal ministro, il vero vicario del proprietario, passa attraversi fattori e sottofattori, fino alle guardie campestri e al guardiacaccia. Estesa su tutta la regione, è tra i dossi senza fine delle argille senesi, tra le paludi della Maremma, tra i monti che fanno corona all’Amiata che la fattoria toscana conosce le dimensioni più sconfinate: tra i boschi della Maremma le grandi casate romane, fiorentine, senesi conservano, per secoli, proprietà le cui dimensioni si misurano in centinaia di ettari, quando le centinaia non si compongono in migliaia, e il caso è tutt’altro che raro. Colli senesi e Maremma grossetana: due storie divergenti nell’Italia del dopoguerra

Perduto lo splendore di paradigma di efficienza aziendale, ridotta a dominio incontrastato di fattori che verso i proprietari lontani non nutrono altra preoccupazione che presentare, a fine annata, il conto delle perdite da saldare, tra Siena e Grosseto la grande fattoria protrae per inerzia la propria esistenza fino ai primi anni del dopoguerra. E’ un evento clamoroso a disgiungere i destini delle campagne di Grosseto da quelli di Siena, la Riforma fondiaria, un provvedimento che infrange le grandi proprietà della Maremma distribuendole tra migliaia di nuovi piccoli proprietari. A molti la terra assegnata non basterà per vivere, fuggiranno in città, crolleranno in rovina le case inaugurate dai ministri e dai presidenti del Consiglio, alcuni sapranno dare vita ad aziende fiorenti, cellule di una nuova agricoltura di piccoli proprietari.

Ma la riforma si arresta sui primi lembi delle colline prospicienti il Tirreno: dalla metà del corso dei torrenti che scendono dall’alta Maremma a tutto il perimetro di colli che attorniano, per un raggio di cinquanta chilometri, la massa compatta dell’Amiata, il mondo chiuso della grande fattoria continua la propria esistenza. Un’esistenza sempre più faticosa: per fare fiorire una terra tanto difficile occorreva il sudore di uomini il cui lavoro non aveva praticamente valore, occorrevano le privazioni delle famiglie mezzadrili che si sgranavano sui campi dall’alba al tramonto, a rivoltare con la vanga le pendici dove i buoi non riuscivano a salire. Quando quel lavoro cominciò ad avere un prezzo, il prezzo che le industrie che si aprivano a Poggibonsi e a Pontassieve offrivano agli operai per sottrarli alla terra, alle pendici toscane mancarono le cure manuali che avevano costituito la condizione insostituibile dello sfruttamento agricolo.

Aveva inizio l’agonia di un organismo i cui confini avevano costituito l’orizzonte della vita di una successione interminabile di generazioni. Ad ogni famiglia che partiva il costo dell’apparato della fattoria diventava più alto e più inutile. Anche dove le famiglie restavano partivano i figli: le vanghe e i perticali dovevano essere sostituiti dalle macchine, ma i magri raccolti di grano, le poche damigiane di vino del podere non erano sufficienti per comprare i trattori. Alla fine di ogni annata i conti che il ministro presentava al proprietario si chiudevano con perdite più vistose. Alla presentazione dell’ennesimo conto passivo qualcuno dei proprietari cominciò a pensare di vendere. Quando vendere fosse possibile. Nell’epicentro della crisi trovare chi fosse disposto a rilevare una grande fattoria poteva rivelarsi impresa disperata: la mezzadria ancora elevata a rango di problema politico capitale, le macchine ritenute ancora un oggetto di lusso, occorreva una spiccatissima propensione al rischio per acquistare centinaia di ettari semioccupati e semiabbandonati, con strutture obsolete, rapporti di conduzione che sommavano i frutti di un’atavica rivalità e di un’incolmabile diffidenza. Sarebbe stato il procedere del processo di abbandono a trasformare, poco a poco, le condizioni della transazione: mentre le grandi fattorie si convertivano in immensi gerbidi, ai commercialisti ed ai legali delle grandi casate cominciarono a pervenire le prime proposte di acquisto, le grandi casate cominciarono a vendere.


I conquistatori

Qualcuno vendette tutto, liberandosi con un rogito solo da un incubo che durava, ormai, da troppo tempo, qualcuno vendette una, due tenute, conservandone un’altra, altre due, sulle quali il denaro ricavato dalle vendite consentiva di intraprendere una conduzione diretta secondo criteri moderni, con investimenti, nuove macchine, nuovi vigneti. Dopo vent’anni dall’inizio del processo di una provincia intera di proprietà nobiliari, le famiglie patrizie in possesso delle antiche tenute si contano, ormai, sulle dita di una mano: Vieri Delci Pannocchieschi, Cianughi de’ Pazzi, Galeotti Ottieri dell’Acciaia, Forteguerri, Gaetani d’Aragona: nell’esiguo novero è ancora minore il numero di quelle che possiedono le estensioni di un tempo. Per conservare parte delle proprietà la maggioranza ha sacrificato parti diverse, generalmente più ampie. Qualche grosso podere è passato nelle mani dei vecchi fattori, gli antichi protagonisti borghesi di un’agricoltura contadina, da vassalli convertiti in imprenditori. Il resto della provincia ha cambiato proprietà: oggi i padroni delle terre senesi sono lombardi e siciliani, romani e veneziani, sudamericani e statunitensi. Uomini di origine diversa, che al di là delle provenienze sono giunti alla proprietà della terra da strade che, pure convergendo, muovevano da poli lontani. Di matrice economica lontana, spinti all’acquisto da motivazioni difformi. La molteplicità dei profili è tale da rendere ardua qualunque classificazione: ci sono gli autentici contadini, come i membri della famiglia siciliana che nelle argille di Asciano ha ritrovato lo stesso ambiente della Sicilia interna, di Enna e Caltagirone, che ha acquistato quasi 1.500 ettari e che su una terra da sempre ritenuta ingrata ricava raccolti di grano tali da suscitare l’invidia della pianura bolognese, ci sono i coltivatori veneti che hanno venduto il podere a Iesolo ricomprando, con lo stesso denaro, una superficie quattro volte maggiore di suolo non meno generoso per il mais, i pugliesi che hanno trasformato, rendendoli irriconoscibili, 300 ettari a Sant’Ansano. Ci sono i gioiellieri e i pellicciai, dagli inconfondibili cognomi ebraici, di via Frattina e di via Condotti, che hanno comprato poderi di dimensioni medie, 40-60 ettari, fatto restaurare la casa colonica dai migliori architetti di Roma, che mantengono qualche cavallo per lo svago proprio e degli amici, e affidano la terra al vecchio fattore che, smembrata l’antica tenuta si è trasformato in libero professionista, amministrando per conto di quattro o cinque proprietari diversi. Ci sono i manager della grande agricoltura: emblematica la figura di Edro Gabellieri, il creatore del maggiore impero bieticolo italiano degli anni Sessanta, esteso su migliaia di ettari affittati in quattro province, ridimensionato per dirigere una grande azienda, quasi 2.000 ettari, di cui è comproprietario, insieme al fratello Sergio, con un’impresa assicuratrice. Ci sono i grandi industriali, il bresciano Marniga, 500 ettari a Radicondoli, il perugino Nardi, 300 ettari a Buonconvento e Montalcino.

Ci sono i grandi uomini d’affari internazionali, l’italo-venezuelano Giovanni Mastropaolo, 1.700 ettari alla confluenza dell’Orcia nell’Ombrone, forse la piana più fertile della Toscana, trasformata in giardino di frutteti, vigneti e oliveti, gli italoamericani Mariani, i maggiori vinai degli Stati Uniti, 700 ettari a Sant’Angelo Scalo, sui quali è in corso un progetto di ristrutturazione e di impianti industriali che dovrebbe trasformare una fattoria acquistata in completo abbandono in una delle aziende vitivinicole d’avanguardia dello scenario enologico mondiale.

Ci sono i signori degli affari segreti della politica: l’esempio più chiacchierato è quello della tenuta Piana di Buonconvento, proprietari, sulla carta, gli azionisti della società Meridiana, un elenco di nomi sconosciuti nel mondo agricolo, in quello finanziario e commerciale, proprietari di fatto, si proclama come cosa nota, i membri del clan di uno degli uomini politici di maggior peso del Paese, che, si racconta, avrebbe acquistato l’azienda in tempi immediatamente successivi all’affare più clamoroso della storia finanziaria recente, nel quale il gruppo sarebbe intervenuto come mallevadore. Estesa su 600 ettari, attorno ad una villa sontuosa acquistata, risulta notorio, con gli arredi che ne facevano la degna dimora estiva dei principi Della Rovere. Dall’azienda è stato alienato, recentemente, un corpo di oltre 200 ettari: la vendita sarebbe stata realizzata, si racconta, dalla persona che della proprietà si sarebbe sempre presentata come il titolare di fatto: il drammatico confronto tra i membri della famiglia del leader politico e i suoi collaboratori, un evento che ha campeggiato, per qualche mese, sulle pagine dei grandi giornali, sarebbe forse risultato meno incomprensibile ai commentatori se fosse stata prestata qualche attenzione alla conduzione agraria e immobiliare della Piana.

Ci sono, infine, le grandi società per azioni, quali la Riunione Adriatica di Sicurtà, 400 ettari, in prevalenza vigneti, a Castelnuovo Berardenga, i gruppi finanziari, la Raut, 1.000 ettari a Chiusi, le Cantine del Chianti Classico, con cinque aziende e 500 ettari di vigneti nel Chianti, la gloriosa tenuta di Broglio dei baroni Ricasoli, con 300 ettari di vigneti, oggi controllata dalla multinazionale Vinefood. Moltiplicato in proporzione alle dimensioni maggiori si ripete, sulle colline senesi, un fenomeno che conobbe le prime manifestazioni nell’area tipica del Chianti fiorentino: l’attrazione verso la viticoltura dei gruppi multinazionali.

Propone un esempio eloquente di grande progetto vitivinicolo siglato dal capitale finanziario internazionale la tenuta di Castelgiocondo, 870 ettari, 220 di vigneti, acquistati in joint venture da una società italiana, la Mittel di Milano, e una francese, la Viticole européenne, unite in una società di gestione la cui presidenza è stata affidata ad uno dei nomi più prestigiosi dell’enologia toscana, il marchese Frescobaldi.


Un carosello di acquisti, investimenti, cessioni

Figure in primo piano, ombre sullo sfondo, in un quadro variegato, ricco di chiaroscuri, per completare il quale occorrerebbe aggiungere non poche pennellate di colore, arricchendo ulteriormente i contrasti dello scenario, menziono la colonia di pastori sardi che ha preso possesso dei crinali al confine con il Lazio, anch’essi protesi a trasformarsi in proprietari delle terre sulle quali pascolano le proprie greggi. Tra i quali non manca chi sia implicato in casi di rapimento, il più tragico dei quali ha avuto la propria vittima in uno dei nuovi proprietari delle terre senesi, un industriale lombardo non più rilasciato dai rapitori. Una storia tragica, che ha reso insistenti voci e illazioni sulle origini del denaro impiegato ad acquistare più di una delle tenute passate di mano nel Senese, che non sarebbero, in qualche caso, origini assolutamente trasparenti.

Al di là, tuttavia, del profilo dei protagonisti, conosciuti o sconosciuti, della corsa alla terra di cui sono teatro le campagne senesi, il carattere più singolare del fenomeno può essere identificato nel dinamismo del mercato di proprietà di dimensioni spesso prive di riscontro nel resto del Paese. Pochi dei pionieri dell’epopea fondiaria sono ancora proprietari delle aziende acquistate. Finanzieri e industriali hanno comprato, hanno investito con entusiasmo, hanno condotto le aziende trasformate per qualche anno, le hanno rivendute.

Eseguite, senza risparmiare, le trasformazioni che i migliori tecnici consultati suggerissero come condizioni di redditività, grandi spianamenti, impianti irrigui, stalle e vigneti, hanno verificato che il reddito non corrispondeva alle aspettative. Approfittando dell’onda montante di un mercato che attribuiva valori sempre più elevati a terre acquistate per un pugno di milioni, molti hanno rivenduto. Sul piano finanziario hanno fatto un buon affare, sul piano economico non hanno fatto che confermare l’antica verità che a coltivare la terra si guadagna meno che a condurre un’industria, o a esercitare il grande commercio: fatti i conti hanno chiuso.

E chi ha comprato dai primi acquirenti, pagando la terra ai nuovi prezzi, e ripagando il valore degli investimenti realizzati, spesso, inseguendo lo stesso miraggio di un’agricoltura convertita in grande industria, ha investito altro denaro, e non sono rari i casi in cui anche il secondo acquirente abbia rivenduto facendo, anche lui, un buon affare. E il carosello continua: chi conosce le cose segrete del mercato immobiliare della provincia riferisce di aziende offerte da uomini d’affari che nella conduzione della terra parevano avere individuato la vocazione suprema della vita. Invece rivendono.

“E’ un processo complesso e intricato – mi spiega Mario Pucci, direttore del Consorzio agrario di Siena, uno tra i dieci in vetta alla classifica nazionale per volume di vendite, in una provincia di terre scoscese che non conosce la ricchezza delle grandi aree orticole, frutticole, zootecniche-, ma è stato proprio questo meccanismo che in vent’anni ha trasformato il volto della nostra agricoltura. Trasformato fisicamente: calanchi e poggi dove non c’erano che pascoli miserevoli e gerbidi sterili spianati, una terra arida irrigata dai grandi laghi sorti, in valli e conche, da impianti d’irrigazione d’avanguardia, case e ville in rovina restaurate facendone emergere la nobiltà di gioielli dell’architettura del Rinascimento. Opere che restano anche quando i proprietari cambiano. Perché il gioco dei passaggi non è finito: anche dopo essere stata trasformata nel modo più razionale una grande azienda non è facile da condurre. O ci si converte in agricoltori, o ci si affida al tradizionale fattore: ce ne sono di molto capaci, ma i migliori di aziende ne seguono tante. E non sarà mai la conduzione del proprietario. Così sono i bilanci a rendere inevitabili nuovi passaggi di mano. Che si protrarranno fino a quando sulla terra saranno rimasti solo agricoltori veri. Sarà allora che dell’immenso processo di trasformazione di cui siamo stati spettatori potremo verificare tutti i benefici, e l’impulso formidabile a trasformare un’agricoltura immota nel proprio assetto arcaico in un grande contesto produttivo, che vivrà dell’impiego dei migliori mezzi operativi offerti dalla tecnologia moderna.”

Un processo in peno svolgimento. Se, tuttavia, non è ancora possibile definire le linee dell’assetto fondiario e agrario che esso è destinato ad imprimere alle campagne senesi, la trasformazione di una galassia di grandi aziende costituisce evento compiuto: per comprenderne la portata è sufficiente esaminare alcune realizzazioni esemplari. Alla visita di alcune aziende senesi in cui sono in corso i progetti di ristrutturazione tecnologica più impegnativi dedicheremo le tappe future di questo viaggio tra il Chianti e l’Amiata.

Terra e vita n. 14, 5 aprile 1980

Rivista I tempi della terra]