Gli orrori della Siberia/Capitolo XXXV – Il tradimento dei mongoli
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Capitolo XXXV – Il tradimento dei mongoli
Quell’ospitalissimo mandarino, dopo di aver colmati di cortesie Sergio ed i suoi compagni e d’aver promesso di condurli l’indomani appena allontanatisi i cosacchi dalla frontiera, in una vicina borgata ove avrebbero potuto acquistare dei cavalli e fare le loro provviste per la traversata del deserto, s’era ritirato assieme ai soldati onde permettere loro di riposare.
I fuggiaschi, ormai certi di non correre più alcun pericolo, dopo d’aver vuotata un’ultima tazza di sam-sciù s’erano sdraiati sui letti per gustare un po’ di sonno, contando di mettersi in viaggio assai presto.
Essendo tutti stanchissimi, non avevano tardato ad addormentarsi profondamente, avendo completa fiducia nel mandarino e nei suoi soldati.
Dormivano forse da un paio d’ore, quando l’ingegnere, che aveva l’udito molto acuto e che per abitudine dormiva con un solo occhio, come si suol dire, essendo per natura diffidente, credette di udire dei passi affrettati scendere le scale del torrione.
Temendo una qualche sorpresa da parte dei cosacchi, s’affrettò ad alzarsi per andare in cerca dei cinesi ed interrogarli.
La porta era stata lasciata aperta, quindi gli fu facile trovare la scala che metteva ai piani superiori.
Tutte le lanterne erano state spente, però essendo la notte piuttosto chiara, l’ingegnere poté giungere facilmente sulla terrazza. Con sua grande sorpresa non vide alcuna sentinella.
– Che questi bravi cinesi si credano così sicuri da non prendersi la briga di vegliare? – mormorò l’ingegnere. – Si vede che hanno molta fiducia nei cosacchi loro vicini.
Si curvò sul parapetto e guardò. In lontananza gli parve di scorgere alcuni uomini a cavallo ed una grande macchia oscura che occupava le falde d’una collina.
– Deve essere il bestiame predato a quei poveri khalkhas, – disse. – Finchè i cosacchi lo guardano, non vi è alcun pericolo per noi.
Stava per ritirarsi onde scendere al piano inferiore, quando i suoi sguardi furono attirati da alcune forme umane che scendevano cautamente la collina, come se fossero dirette all’accampamento dei cosacchi.
– Toh!... – mormorò, facendo un gesto di sorpresa. – Chi sono quegli uomini?... Si direbbe che sono venuti a ronzare presso la torre e che ora si allontanano frettolosamente. Che i cosacchi abbiano avuto qualche sospetto e che abbiano violata la frontiera?... Andiamo ad interrogare il mandarino.
Scese nel piano sottostante ed avendo trovato una porta, la spinse bruscamente. Non essendo chiusa cedette e si trovò in una vasta stanza illuminata da un lanternone di carta oliata.
In mezzo vi era un letto in muratura, coperto da una pelle di montone variopinta, e all’intorno alcuni tavolini laccati, ripieni di ninnoli graziosi, di vasetti, di teiere, di chicchere color del cielo dopo la pioggia, di mostriciattoli di porcellana, di oggetti d’avorio, e sulle pareti, coperte di carta fiorita, numerose armi, grandi sciabole, degli archi, dei fucili a pietra, e delle picche antiche.
Guardò all’intorno, credendo di vedere il mandarino, supponendo che quella fosse la sua stanza, ma non vide alcuno.
– Dove è andato il comandante? – si chiese con stupore.
Avendo scorto un’altra porta, l’aprì e si trovò in una seconda stanza dove vi erano altri letti ed altre armi, e anche quella la vide vuota.
– Che i cinesi siano fuggiti? – si chiese l’ingegnere. – Fuggiti!... E perché?... Non credo che abbiano avuto paura dei cosacchi, trovandosi sul loro territorio e possedendo dell’artiglieria. Io non ci vedo chiaro in questa faccenda. Andiamo ad avvertire il colonnello.
Scese rapidamente al pianterreno e svegliò Sergio.
– È già spuntata l’alba? – gli chiese questi, preparandosi ad abbandonare il suo poco soffice giaciglio.
– L’alba è ancora lontana, – rispose l’ingegnere. – Temo però che prima che spunti debbano accadere dei gravi avvenimenti.
– Cosa volete dire? – chiese Sergio balzando in piedi.
– Che i cinesi hanno abbandonato la torre.
– È impossibile!...
– Vi dico che sono fuggiti.
– E quando?...
– Io non lo so.
– Siete certo di quello che dite?
– Le stanze sono tutte deserte.
– Che abbiano avuto paura?...
– O che ci abbiano traditi, colonnello?... Poco fa io ho veduto degli uomini scendere la collina e dirigersi verso l’accampamento dei cosacchi.
– Miserabili!... Che siano andati a venderci?...
– Comincio a sospettarlo, colonnello.
– Andiamo a visitare le stanze.
Svegliò Maria, Iwan, Dimitri e l’jemskik, e si slanciarono tutti su per le scale, visitando tutte le stanze, essendo le porte tutte aperte. Dovettero ben presto convincersi che l’ingegnere non si era ingannato. Il mandarino ed i suoi soldati, approfittando del sonno dei loro ospiti, avevano abbandonato alla chetichella la torre.
– Canaglie!... – esclamò il colonnello, che cominciava a perdere la sua calma. – Sono fuggiti!... Amici, alla porta!...
Tornarono al pianterreno e s’avvidero che la porta che metteva sulla spianata era stata chiusa per di fuori.
Un urlo di rabbia e di furore sfuggì a tutti i petti. Ormai avevano la certezza che il mandarino li aveva traditi.
Il miserabile, dopo di averli colmati di cortesie, onde allontanare qualunque sospetto, era andato probabilmente a venderli ai cosacchi per ottenere il premio del tradimento.
– Siamo perduti, – disse Iwan. – Fra poco i cosacchi saranno qui e ci prenderanno.
– Cerchiamo di fuggire prima che vengano, – disse il colonnello. – Forse siamo ancora in tempo.
La torre aveva numerose feritoie, si poteva quindi, col mezzo di una fune, calarsi sulla spianata e prendere il largo prima dell’arrivo dei due squadroni.
I fuggiaschi s’affrettarono a slanciarsi verso le finestre, e solo allora si accorsero che erano tutte difese da sbarre grossissime che non si potevano né forzare né tagliare senza l’aiuto di leva o di lime.
Si volsero allora contro la porta, sperando di poterla scassinare o di spezzare i chiavistelli. S’avvidero subito che tutti i loro sforzi a nulla avrebbero approdato, essendo grossissima e per di più laminata.
– Quei miserabili sapevano di tenerci nelle loro mani, – disse il colonnello.
– Tentiamo di calarci dalla terrazza, – disse Iwan.
– Non abbiamo nemmeno una fune, – rispose l’ingegnere. – Ho frugato dappertutto senza alcun risultato.
– E dovremo arrenderci, proprio ora che ci troviamo sul territorio cinese?... – disse Maria. – Tentiamo di aprire una breccia nella muraglia.
– Ne avremo il tempo? – chiese Sergio.
– Vediamo, – disse l’ingegnere. – Se i cosacchi non hanno ancora lasciati gli accampamenti, forse potremo riuscire ad aprirci un varco. Se vi sono due pezzi di artiglieria vi sarà anche della polvere, e con una buona mina si può diroccare un angolo della torre. Venite, colonnello!... Forse tutto non è ancora perduto.
Si slanciò sulla scala seguito dal colonnello e da Maria e giunto sulla terrazza, guardò verso l’accampamento dei cosacchi. I suoi sguardi avevano appena percorso la collinetta, che un grido di furore gli usciva dalle labbra.
– Troppo tardi!... – aveva esclamato.
– I cosacchi?... – chiesero il colonnello e Maria con ansietà.
– Guardateli, signori.
Sergio e Maria s’erano precipitati verso il parapetto. Ai primi riflessi dell’alba avevano scorto otto drappelli di cosacchi che s’avanzavano verso la torre, chiudendola a poco a poco entro un vasto cerchio.
I soldati dello czar erano di già entrati in territorio cinese, di certo col consenso di quel briccone di mandarino e si preparavano anche a far uso delle armi, come se si trovassero ancora al di là del confine, sulla loro terra.
Ormai non vi era più alcun dubbio. Il mongolo, pure d’intascare il premio che il governo russo accorda a coloro che riescono a consegnare i deportati fuggiti, aveva accordata carta bianca ai cosacchi, poco importandogli di quella momentanea violazione di territorio.
– Siamo presi!... – aveva esclamato Sergio, guardando con angoscia sua sorella. – Non ci rimane che di farci uccidere.
– E sia!... Morremo, ma colle armi in pugno, tutti uniti!... – aveva risposto la valorosa giovane.
– Non qui, – disse ad un tratto l’ingegnere. – I cosacchi sono ancora lontani e possiamo uscire prima che stringano l’assedio.
– Cosa volete tentare? – chiese Sergio.
– Cerchiamo della polvere e apriamoci una breccia, signore.
– Volete dare battaglia all’aperto?...
– E tentare di fuggire verso Deltus. I cosacchi non oseranno forse inseguirci attraverso il territorio cinese.
– Sono pronto a tutto, – disse Sergio. – Cerchiamo la polvere.
Visitarono dapprima i cannoni, sperando che fossero carichi, e fu una ben amara delusione. Quei vecchi pezzi d’artiglieria non contenevano che degli stoppacci di legno e forse mai avevano conosciuta la polvere da quando erano stati collocati sulla torre.
Erano stati messi colà perché servissero da spauracchio, e nient’altro.
L’ingegnere, Sergio e Maria visitarono l’alloggio del mandarino e le stanze dei soldati, ma senza avere miglior fortuna. Quella torre era affatto sprovvista di munizioni e forse le poche che conteneva erano state portate via dai mongoli.
Allora si volsero contro la porta, decisi ad atterrarla. Avendo trovato due scuri ed alcuni sciaboloni, Iwan, Dimitri e l’jemskik, l’assalirono con furore, tentando di sfondare le grosse lamine di ferro, però s’accorsero ben presto che i loro sforzi non sarebbero riusciti prima dell’arrivo dei cosacchi.
Infatti erano appena riusciti ad intaccare il legno, quando all’esterno si udirono alcune scariche di moschetteria.
Il colonnello e l’ingegnere, armatisi di fucili, erano risaliti sulla terrazza. I cosacchi erano di già giunti ed avevano circondata la torre. Scorgendo i due fuggiaschi, l’ufficiale che li comandava si fece innanzi e intimò brutalmente la resa, minacciando, in caso di rifiuto, di far saltare la torre con una cartuccia di dinamite.
Sergio, pazzo di rabbia, invece di rispondere aveva armato risolutamente il fucile e l’aveva puntato contro l’ufficiale, deciso a ucciderlo. L’ingegnere però, con un rapido gesto, gli aveva abbassata l’arma, dicendogli:
– No, signore; pensate che qui vi è una donna, vostra sorella.
– Cosa volete fare adunque? – chiese Sergio coi denti stretti.
– Ogni resistenza sarebbe inutile, colonnello. Non aggraviamo di più la nostra situazione.
– Preferisco morire libero, colle armi in pugno, anziché tornare alle miniere.
– E vostra sorella?...
– È una valorosa che non teme la morte.
– Ebbene sia, colonnello!... Morremo vendendo ben cara la vita.
Stavano per discendere onde chiamare i compagni e tentare una lotta disperata, quando tutto d’un tratto una detonazione spaventevole echeggiò al di fuori. La vecchia torre oscillò come se fosse lì lì per crollare tutta d’un pezzo, poi un angolo diroccò con immenso fracasso assieme a parte delle scale.
Una cartuccia di dinamite era stata fatta scoppiare dai cosacchi e l’esplosione aveva aperta una larga breccia.
Prima ancora che Sergio e l’ingegnere potessero rendersi conto dei danni causati dallo scoppio, i cosacchi s’erano slanciati attraverso lo squarcio, invadendo bruscamente le stanze.
L’assalto era stato così rapido, che i deportati, ancora intontiti dallo scoppio, non ebbero nemmeno il tempo di far uso delle loro armi e di tentare una disperata difesa.
In un baleno furono afferrati, disarmati, sollevati e trasportati al di fuori.
– Finalmente sono tutti presi!... – gridò il comandante dello squadrone.
Tutti?... No, il cosacco s’ingannava, perché ne mancava uno, e quell’uomo così misteriosamente scomparso era Iwan.