Gli orrori della Siberia/Capitolo XXXVI – Charazainsk

Capitolo XXXVI – Charazainsk

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Capitolo XXXV – Il tradimento dei mongoli Capitolo XXXVII – Il maresciallo della polizia

Capitolo XXXVI – Charazainsk


Dieci minuti dopo lo squadrone abbandonava rapidamente il territorio mongolo e rivalicava la frontiera conducendo con sé Sergio, Maria, l’ingegnere, Dimitri e l’jemskik.

Tutti i prigionieri erano stati disarmati e perfino frugati per la tema che avessero nascosta qualche arma sotto le vesti.

La colonna fece una breve sosta là dove si trovava ancora radunato il bestiame dei khalkhas, poi, mentre alcuni drappelli di cosacchi si accampavano per guardare il bottino e fors’anche per impedire un ritorno offensivo dei poveri nomadi, riprendeva le mosse dirigendosi verso l’est, direzione che doveva condurla a Charazainsk, la città più prossima alla frontiera.

Sergio, che dapprima aveva temuto che li riconducessero a Irkutsk, respirò liberamente. Nella capitale della Siberia orientale, nulla avrebbero potuto tentare, ma la cosa era ben diversa se la colonna si dirigeva a Charazainsk, cittadella situata a così breve distanza dalla frontiera, poco guardata e così vicina alla Selenga.

Con Iwan libero, poiché quel bravo giovane doveva aver avuto il suo piano per scomparire così in buon punto, approfittando dello scoppio e della confusione, e coi khalkhas per alleati, qualche cosa si poteva sperare.

Chissà!...

Forse in quel momento lo studente aveva abbandonato il suo nascondiglio e si trovava già nell’accampamento dei nomadi per organizzare la liberazione dei suoi compagni.

– Maria, – diss’egli, curvandosi verso la sorella e parlando in francese. – Non disperiamo.

La giovane, che era in preda ad una cupa disperazione e che piangeva in silenzio, udendo quelle parole rialzò vivamente il capo che teneva chino sul seno.

– Cosa vuoi dire, fratello? – chiese con ansietà.

– Che tutto non è perduto ancora.

– Cosa speri?

– Conto su Iwan.

– Iwan, – mormorò Maria, arrossendo e quindi impallidendo. Poi scuotendo tristamente il capo, disse:

– Forse l’hanno ucciso.

– No, sorella mia; egli è stato più furbo di tutti.

– E come vuoi che sia fuggito?...

– Io non lo so. Forse nel momento che diroccava la torre si è cacciato in qualche nascondiglio, pensando di poter essere più utile libero che prigioniero. I cosacchi, credendo di averci presi tutti, non si sono presi la briga di frugare tutte le stanze della torre, e quel bravo giovane ha potuto sfuggire all’arresto. Iwan non è un uomo da abbandonarci, Maria.

– Lo so, – rispose la giovane prontamente e tornando ad arrossire.

– Ed il cuore mi dice che presto avremo sue notizie, – aggiunse Sergio. – Se i cosacchi ci avessero ricondotti a Irkutsk avrei perduta ogni speranza, poiché di là più nessuno ci avrebbe tratti vivi, nemmeno il Baunje; a Charazainsk la cosa è diversa.

– E rimarremo molto in quella cittadella?

– Forse delle settimane.

– Perché ci conducono a Charazainsk?

– Sospetto il motivo. Forse il Baikal ha cominciato a sgelare e per parecchi giorni le comunicazioni fra le due sponde rimangono interrotte.

– Vi è la nuova strada.

– Sì, ma fortunatamente è troppo lunga e troppo cattiva in questa stagione.

– E di me, cosa farà la polizia?...

– Di te?... Spero che ti metteranno in libertà, assieme a Dimitri e all’jemskik. Voi non siete iscritti sui registri degli esiliati, ma bisogna che ignorino che tu sei mia sorella.

– Mi sarà facile provarlo. Dirò che io sono una viaggiatrice francese, che tutto il bagaglio mi è stato rubato dai briganti o che è rimasto in mano ai khalkhas, e inventerò una storia per spiegare il come mi trovavo in vostra compagnia.

– Non in nostra compagnia, Maria, coi khalkhas.

– Hai ragione, fratello. Potrebbero sospettare in me una parente di qualcuno di voi.

Mentre discorrevano a voce bassa e sempre in francese, Il drappello si era scostato dalle montagne che segnavano la frontiera, piegando verso il nord-est.

Fatta una breve fermata ad un piccolo posto di frontiera, una baracca in legno guardata da una mezza dozzina di cosacchi, per concedere un po’ di riposo ai cavalli che parevano sfiniti, verso le sei del mattino l’ufficiale dava il comando di rimettersi in cammino.

Pareva che avesse fretta di trovarsi al sicuro, coi suoi prigionieri, in Charazainsk. Probabilmente temeva sempre un repentino attacco da parte dei khalkhas che si trovavano al di là della frontiera, immaginandosi forse che fossero tutti alleati degli esiliati.

Alle otto, in fondo ad una gola solcata da un grosso affluente della Selenga, apparvero le prime case della cittadella e mezz’ora dopo il drappello faceva la sua entrata.

Charazainsk più che una cittadella è un posto di guardia della frontiera.

Conta circa un centocinquanta abitazioni di legno, una prigione, un ufficio di polizia e qualche chiesa malandata. I suoi abitanti però, che sono di origine buriata, trafficano con Khiachta facendo buoni affari. Spediscono specialmente molte pellicce che acquistano dai cacciatori transbaicali e molto pesce salato del Baikal.

Il comandante del drappello condusse senza indugio i prigionieri nell’ufficio di polizia, facendoli rinchiudere nel piccolo carcere annesso, una specie di tappa non meno indecente delle altre, non meno lurida, e consistente in un unico stanzone colle pareti di legno, colle finestre difese da grosse sbarre di ferro, e prive di vetri, quantunque il clima fosse tutt’altro che mite.

– Orsù, – disse l’ingegnere, che pareva rassegnato al suo triste destino. – Ci siamo ancora nelle mani della polizia e ci faranno pagare cara la nostra scappata. Fortunatamente uno è riuscito a salvarsi e questa è già una consolazione, è vero, colonnello?

– Sì, ingegnere, ma non so se noi potremo raggiungerlo. Temo che tutto sia finito per noi, – aggiunse abbassando la voce. – Dovremo rispondere dell’uccisione dell’ispettore della miniera e so come si puniscono tali vendette, ma... bah!... Sono un soldato, e mi basterà che si salvi Maria.

– Appiccheranno l’uccisore dell’ispettore e non tutti gli altri, colonnello.

– Meglio per voi, – disse Sergio, sorridendo tristamente.

– Non mi avete compreso.

– Cosa volete dire?

– Che nessuno avendovi veduto a ucciderlo, posso dire che l’ho mandato io all’altro mondo.

– No, ingegnere.

– Sì, colonnello. Voi avete una sorella. Io non ho nessuno che possa piangere la mia morte. Lasciate dunque che m’appicchino.

– Non vi permetterò mai un tale sacrificio.

– Lo farò, – disse l’ingegnere con voce risoluta. – Del resto cosa perdo io?... Abbrevierò i tormenti della miniera e null’altro.

– No, mai, non lo voglio...

– Zitto, colonnello. Qualcuno s’avvicina.

I grossi ed arrugginiti chiavistelli stridevano e la porta stava per aprirsi.

– Silenzio, – ripeté l’ingegnere, vedendo che Sergio stava per aprire ancora la bocca.

Un maresciallo d’alloggio, alto quanto un granatiere di Finlandia, con due baffi di recente coperti di sego, entrò, tenendo in mano una carta. Esaminò attentamente, uno ad uno, i prigionieri, poi disse, volgendosi verso Sergio:

– Siete voi l’ex-colonnello Wassiloff?

– Sì, maresciallo, – rispose Sergio.

– E voi siete l’ex-ingegnere Storn?

– Sì, – rispose l’ingegnere.

– Sta bene; gli altri mi seguano dal comandante.

Maria fece atto di slanciarsi verso il fratello, ma questi con un gesto rapido come un lampo la trattenne, impedendole di tradirsi. Lo comprese subito e malgrado l’intenso desiderio che aveva di abbracciarlo, pensando che era forse l’ultima volta che si sarebbero trovati assieme, si limitò a salutare i due prigionieri colla mano, aggiungendo poi:

– Spero di rivedervi in breve liberi, signori. Io spiegherò l’equivoco.

Poi seguì il maresciallo soffocando un sospiro e appoggiandosi a Dimitri.

– Coraggio, padrona, – le sussurrò questi. – Cercate di non tradirvi, poiché bisogna uscire da qui, se vogliamo salvare il colonnello e l’ingegnere.

– Sarò forte, – rispose ella.

Poi volgendosi verso l’jemskik:

– Ricordati di dire che le mie carte sono rimaste nelle mani dei khalkhas, – gli disse.

Il cocchiere sorrise e fece un gesto colle labbra che voleva dire: «Non temete».

Il maresciallo introdusse Maria ed i suoi due compagni in una stanzetta colle pareti di legno, ammobiliata con poche sedie, con un solo tavolo ingombro di carte, ed una delle solite stufe di dimensioni enormi.

Dinanzi al tavolo stavano seduti il comandante dello squadrone che li aveva fatti prigionieri ed il comandante del posto, un mezzo poliziotto e mezzo cosacco, con una barba arruffata, un naso adunco come il becco d’un pappagallo e due occhi da uccello di rapina.

– Sono questi? – chiese il poliziotto al comandante dello squadrone, dopo d’aver osservato con viva attenzione i prigionieri.

– Sì, – rispose l’ufficiale.

– Ed il terzo forzato?

– Non abbiamo preso che quei cinque.

– Che l’abbiate ucciso?

– Non abbiamo ucciso che dei khalkhas.

– Che sia riuscito a fuggire?

– Mi sembra impossibile, – rispose l’ufficiale.

– Eppure manca colui che si chiamava Iwan Sandorf.

– Siete proprio certo che non sia uno di questi uomini?...

– È un giovanotto quel Sandorf e non è possibile scambiarlo con quell’uomo già attempato, né coll’altro che si vede subito essere un jemskik siberiano.

– È vero, – disse il comandante dello squadrone. – Allora quel furfante è fuggito assieme ai khalkhas approfittando della confusione e delle tenebre.

– Così deve essere.

– E quella signora? – chiese l’ufficiale, indicando Maria.

– Sapremo presto con che specie di persone abbiamo da fare, – rispose il poliziotto con disprezzo.

– Eh, signor mio, non siamo né canaglie, né ladri delle strade siberiane, – disse Maria con accento straniero e guardando alteramente il poliziotto. – Badate!... Non sono suddita russa io!...

Il comandante del posto di polizia arrossì lievemente sotto quella frustata, mentre il comandante dello squadrone s’inchinava galantemente sorridendo, forse non scontento di veder maltrattare il ruvido poliziotto.

– Al fatto, signore, – riprese la fiera giovane, con maggior alterigia. – Non è mia abitudine fermarmi negli uffici della polizia.

– Chi siete voi, innanzi tutto? – chiese il poliziotto.

– Appartengo alla nobiltà francese, signore, e non ho nulla a che fare colle autorità russe.

– Vi ho chiesto il vostro nome.

– La contessa Marie Vaupreaux.

– Da dove venite?

– Da Parigi.

– Da Parigi!... – esclamò il poliziotto, con sorpresa. – E cosa fate voi qui, in fondo alla Siberia?...

– Viaggio, signore.

– Voi!... Così giovane?...

– Vi sorprende forse?...

– Infatti, signora!...

– Ed io invece non sono affatto sorpresa di trovarmi in fondo alla Siberia, o, se vi piace meglio, nella Transbaikalia.

– E cosa facevate con quegli evasi dalle miniere?...

– Quali?... – chiese Maria, fingendo il più vivo stupore.

– Quelli che vi hanno tenuto compagnia fino a pochi minuti fa.

– Degli evasi, coloro!... Eh via!... Volete scherzare, signore?... Un colonnello ed un ingegnere, forzati!... Ah!... Non sono gente che rubano costoro.

– Intendo dire forzati politici.

La giovane guardò il poliziotto e l’ufficiale con una sorpresa così naturale, che entrambi credettero in buona fede che ella tutto ignorasse.

– È impossibile, – mormorò poi. – Voi volete ingannarmi, signore.

– No, signora, – disse il poliziotto. – Il colonnello Wassiloff e l’ingegnere Storn sono due condannati a vita nelle miniere d’Algasithal.

– A me parvero due gentiluomini, signore.

– Non dico che non lo siano, pure erano due pericolosi nichilisti. Ma, udiamo signora, dove li avete incontrati?...

– Non li ho incontrati, signore; sono stati loro a raggiungere la tribù dei khalkhas, presso la quale mi trovavo da parecchie settimane, per studiare gli usi ed i costumi di quei nomadi interessanti.

– Quanti forzati erano?

– Tre.

– E dov’è fuggito il terzo?

– Io non lo so. Prima del combattimento l’ho veduto col fucile in mano, poi non lo scorsi più. Probabilmente quel disgraziato sarà stato ucciso.

– Può darsi, – disse il poliziotto, crollando il capo con malumore. – Avete la vostra podarosnaia?

– No, signore.

– Come!... – esclamò il poliziotto. – Voi viaggiate in Siberia senza la carta imperiale?...

– Cioè l’avevo, ma ora non l’ho più.

– Dove l’avete lasciata?

– Fra i miei bagagli.

– E dove sono?...

– Chissà ove me li avrà portati il capo dei khalkhas. La borsa contenente i miei documenti la portava il capo nel momento dell’attacco brutale dei vostri cosacchi, e temo di aver perduto anche i ventimila rubli che vi erano dentro.

– Ventimila rubli!...

– Però il vostro governo me li pagherà, non dubitatene, – disse Maria. – È per colpa dei suoi cosacchi che io li ho perduti e ci penserà l’ambasciatore francese a Pietroburgo a farmeli pagare.

– Diavolo!... Andate per le spicce voi.

– Sono suddita francese, signore, e non russa.

– Pure non avete nessuna carta che possa provare che siete realmente la contessa Marie Vaupreaux?

– Nessuna, se non torna il capo khalkhas.

– Oh, siate certa che non oserà rivarcare la frontiera.

– Allora non vi è che un mezzo.

– E quale?

– Quello di spedire un corriere a Irkutsk e di là telegrafare all’ambasciata di Francia di Mosca o di Pietroburgo.

– È vero, signora, ma occorreranno due o tre settimane prima che giunga la risposta, poiché la linea è interrotta fra Irkutsk e Tomsk e per di più il Baikal non è praticabile.

– Mi hanno detto che la nuova via del lago è ormai compiuta.

– Sì, pure in questa stagione è così cattiva, che nessuno la percorre.

– Ebbene, aspetterò, non qui, ve lo assicuro. Io non sono abituata a dormire nelle prigioni.

– Siamo russi, signora, ma conosciamo anche noi la galanteria, – rispose il poliziotto. – Vi farò cercare un alloggio al centro o all’estremità della cittadella e colà aspetterete la risposta. Mi perdonerete se vi trattengo per qualche tempo in questo brutto attruppamento di capanne, nondimeno vi lascerò libera di percorrere le vicinanze a vostro agio.

– Non mi rincresce studiare un po’ i buriati e approfitterò.

– Una parola ancora, signora.

– Parlate.

– Sono al vostro seguito questi due uomini?

– Sì, signore. Questo è il mio jemskik e l’altro è un servo che presi a Mosca per imparare il russo.

– Basta, signora: siete libera.

– Lo spedirete oggi il corriere?

– Fra tre giorni, signora. Vi ho detto che non si può attraversare il Baikal.

– E potrò trovare un alloggio in questa città?

– Ve lo procurerò io, se credete.

– È inutile, me lo cercherò io, poi manderò il mio servo ad avvertirvi onde mi possiate sorvegliare.

– Non occorre, signora, – disse il poliziotto, sorridendo.

Poi premette un campanello e disse al maresciallo che era accorso alla chiamata:

– Rendete la libertà a questa signora ed ai suoi due servi.