Gli orrori della Siberia/Capitolo XXXIV – La torre cinese
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Capitolo XXXIV – La torre cinese
Mentre i khalkhas s’azzuffavano contro i cosacchi per forzare il passo della frontiera e per attirare su di loro stessi l’attenzione degli avversari, il colonnello ed i suoi compagni s’erano cacciati fra le file delle mandrie e aprendo a forza il passaggio, erano riusciti a giungere inosservati in mezzo ad un boschetto di nocciuoli e di nespoli, il quale s’incassava in un piccolo burrone.
Vedendo che nessuno li aveva seguiti, dopo un momento di sosta, ripresero la corsa seguendo quel valloncello il quale doveva sboccare nella vicinanza del torrione cinese.
I khalkhas in quel momento avevano impegnata la lotta coi cosacchi e gli spari rintronavano fragorosamente fra le colline, seguìti dalle urla selvagge dei nomadi e dagli hurrah dei cosacchi.
Il colonnello ed i suoi compagni s’erano arrestati, porgendo ascolto alle grida dei combattenti. A quei valorosi rincresceva di non poter prender parte alla pugna e di non accorrere in aiuto dei loro generosi ospiti, ma d’altronde sapevano che solamente una pronta ritirata poteva dar loro la sospirata libertà!
Seguendo le macchie che tappezzavano i fianchi ed il fondo del burrone, in breve tempo guadagnarono la cima della collina e si slanciarono sulla spianata che s’apriva dinanzi a loro.
A cinquanta passi, proprio in mezzo a quella specie di cono tronco, si rizzava la torre cinese.
Era una costruzione assai massiccia, di forma quadra, alta una trentina di metri e sormontata da un cocuzzolo di forma singolare, a margini rialzati e irti di punte adorne di campanelli e di palle di rame dorato.
Tre o quattro feritoie, situate le une sopra le altre, si scorgevano su ogni lato; ma in alto, sotto il cocuzzolo, si distingueva confusamente una specie di terrazza armata da alcuni pezzi di artiglieria, probabilmente dei cannoni vecchi quasi quanto l’attuale dinastia regnante e che mai avevano sparato un solo colpo.
Il colonnello e l’ingegnere fecero segno a Maria ed agli altri di arrestarsi dietro ad un muricciuolo di sassi e s’avanzarono verso la torre non sapendo ancora se era guardata o abbandonata.
Stavano per giungere dinanzi alla porta, quando due soldati manciù che fino allora dovevano essere rimasti nascosti in mezzo ad una macchia di nespoli selvatici, si fecero innanzi come per sbarrare loro il passo.
Erano due uomini di statura piuttosto bassa e ossuta, col petto assai largo, il collo molto grosso, e dai lineamenti selvaggi, fieri.
Indossavano delle casacche di cotone azzurro assai grosso, lunghe e larghe, orlate di strisce di stoffa giallo-oscura, e sulle spalle portavano delle cappe di pelle di montone, colla lana all’infuori.
Sul capo poi avevano dei cappelli di feltro nero, colle tese ripiegate in alto ed il cocuzzolo adorno d’un fiocco di seta rossa ed ai piedi stivali di stoffa nera e grossa, colle suola di feltro bianco.
Quei due soldati vedendo quegli europei, puntarono verso di loro i vecchi fucili a pietra, lunghissimi e di efficacia molto dubbia, specialmente nelle mani di quei mal destri moschettieri.
– Abbasso le armi, – disse il colonnello. – Noi non veniamo che a chiedervi ospitalità per questa notte.
Uno dei due soldati, che comprendeva il russo, fece cenno al compagno di abbassare il fucile, poi disse:
– Qui siete nel confine russo–tartaro.
– Lo sappiamo, – rispose il colonnello.
– E laggiù si combatte.
– E cosa vuoi dire?...
– Che noi non possiamo immischiarci in ciò che succede sul territorio russo e che quindi non possiamo ricevere dei sudditi d’un governo straniero.
– Non chiediamo che una breve ospitalità, – disse il colonnello. – Domani, all’alba, noi lasceremo la torre, così vi eviteremo qualsiasi complicazione colle autorità russe.
Poi, sapendo quanto siano venali i cinesi, fece scivolare nella tasca del soldato alcuni rubli, mentre l’ingegnere faceva altrettanto coll’altro.
– Venite, – disse il manciù. – Vedremo di accomodare ogni cosa.
Ad un segnale del colonnello, Maria, Iwan, Dimitri e l’jemskik si avanzarono cautamente e seguirono i due soldati nell’interno della torre.
In quel momento le grida e gli spari erano cessati, però in lontananza si udivano i muggiti delle mandrie e lo scalpitìo dei cavalli.
Il colonnello temendo che i cosacchi, non avendo trovato fra i khalkhas i prigionieri, si fossero dispersi per le colline onde scovarli, s’affrettò a far chiudere la porta della torre.
I due soldati, diventati gentilissimi dopo quella prima distribuzione di rubli, condussero gli ospiti in una stanzaccia pianterrena, dalle pareti malamente dipinte a draghi giganteschi vomitanti fiamme ed a tigri con tre o quattro teste ed una mezza dozzina di code e dove vedevansi sei di quei letti chiamati k-ang, in muratura, vuoti però sotto, onde potervi accendere un po’ di fuoco durante la stagione fredda e coperti con grossi feltri neri.
Una grande lampada coi vetri di conchiglie semi-trasparenti, tagliati a quadri e adorna di vecchi fiocchi di seta, illuminava malamente quella stanza.
I due soldati invitarono i fuggiaschi ad accomodarsi, poi uno di loro salì al piano superiore, onde avvertire il comandante della torre della presenza di quegli uomini.
Non erano trascorsi cinque minuti che già il comandante faceva la sua entrata.
Era un mandarino militare insignito del bottone di lapislazzoli con fibbia d’argento, grado ragguardevole che gli accordava il diritto di fregiarsi il petto con una testa di tigre, insegna di valore e di ferocia.
Quantunque avesse quel grado, quel comandante non aveva veramente un aspetto così fiero che giustificasse quella testa di tigre che si era fatta ricamare sulla zimarra azzurra.
Era un omiciattolo sui cinquant’anni, cogli occhi obliqui e astuti, con un paio di baffi lunghi assai e pendenti al suolo ed una treccia che gli giungeva fino ai talloni. Vedendo quegli europei, fece dapprima un gesto di stizza, ma subito si ricompose, anzi li salutò con un isin isin cortese, accompagnato da un sorriso mellifluo.
Sergio s’affrettò subito ad informarlo sul loro vero essere, aggiungendo però che nessun russo li aveva veduti entrare nella torre e promettendo che avrebbero lasciato quel posto appena scomparso ogni pericolo. Aggiunse inoltre che avrebbe pagata profumatamente l’ospitalità, parole che parvero suonare molto gradite agli orecchi del mandarino, poiché quel muso giallastro si rasserenò come per incanto.
– Vi prendo sotto la mia alta protezione, – disse il manciù. – Questa torre si trova sul territorio cinese, quindi voi ormai più nulla avete da temere da parte dei russi.
– Sono però capaci di violare il confine, se sapessero che noi ci troviamo qui, – disse Sergio. – Non sarebbe già la prima volta.
– Se non vi hanno veduti, nessuno verrà a cercarvi qui. D’altronde andiamo a vedere se quei cosacchi si sono allontanati.
Fece cenno al colonnello di seguirlo e lo condusse sulla terrazza che si apriva al di sotto della grande cupola e sulla quale si vedevano due vecchi cannoni in ferro, montati su dei cavalletti di legno, sistema usato probabilmente mille anni prima e religiosamente conservato da quei bravi soldati.
Da quell’altezza si poteva dominare un tratto immenso di paese ed anche i due versanti della frontiera. Senza aver bisogno di cannocchiale si potevano distinguere la cittadella di Charazainsk, quella di Chaia-Mürinsk e verso il sud a delinearsi nettamente la Selenga, uno dei più grossi affluenti della Scilca. Gli sguardi del colonnello si volsero subito verso le colline della Selenga e scorse, confusamente però, una colonna di cavalieri che s’allontanava al galoppo, sollevando una immensa nube di polvere.
– Devono essere quei bravi khalkhas, – mormorò. – Sono felice di saperli in salvo.
Volse gli sguardi verso la pianura dove poche ore prima pascolavano le mandrie e vide numerosi drappelli di cavalieri caracollare a destra ed a sinistra, come se fossero affaccendati a radunare qualche cosa.
Guardando con maggior attenzione, capì di che cosa si trattava.
– I cosacchi si sono impadroniti del bestiame e delle donne dei khalkhas. Povero capo!... E tutto per difendere degli stranieri!... Fortunatamente sono abbastanza ricco per risarcire la sua tribù.
Poi, volgendosi al mandarino, gli disse:
– Come vedete, i cosacchi non sospettano di nulla, potete quindi essere certo di non venire disturbato,
– Oh!... Se i cosacchi volessero importunarci, troverebbero qui un’accoglienza tale da persuaderli a tornarsene indietro, – rispose il manciù, picchiando le mani sui due arrugginiti cannoni. – E poi sanno che il mio governo non tollererebbe alcuna violazione.
Stette zitto alcuni istanti, guardando i cosacchi che continuavano a galoppare per la pianura per raccogliere il bestiame predato, quindi volgendosi verso il colonnello, gli chiese a bruciapelo:
– È molto tempo che avete lasciate le miniere?...
– Dodici giorni, – rispose Sergio.
– Pesa qualche taglia su di voi?...
– Lo ignoro, – disse il colonnello, guardando sospettosamente il manciù.
– Per muovere tanti cosacchi, bisogna che vi sia da guadagnare molto per la vostra cattura.
– Non lo credo; non siamo personaggi così importanti da valere delle centinaia di rubli.
– Oh, non temete!... – disse il manciù, con vivacità. – Anche se pesasse una taglia enorme sulle vostre teste, non si troverebbe certamente qui un traditore. Venite, mio signore: vi offro un po’ di the, del migliore, e metto la mia dispensa a vostra disposizione.
Sergio abbandonò la terrazza e scese nella stanza pianterrena dove lo attendevano, con grande ansietà, Maria ed i suoi compagni.
– Sperate, – diss’egli. – Pare che i cosacchi non si siano accorti di nulla, almeno finora.
– Se ne vanno? – chiese Maria.
– Non ancora; però io credo che domani riprenderanno la marcia verso Charazainsk.
– E quei poveri khalkhas? – domandò l’ingegnere.
– Hanno attraversata la frontiera lasciando nelle mani dei cosacchi le loro donne ed il bestiame.
– Allora noi li vedremo ritornare.
– Lo supponete? – chiese Sergio.
– Ne sono certo, colonnello. Conosco quei nomadi e vi assicuro che non rimarranno tranquilli finché non verrà loro restituito il bestiame.
– E le donne? – chiese Maria.
– A quest’ora devono essere state certamente rimesse in libertà.
– Quando varcheremo la frontiera, fratello?...
– Domani all’alba, se i cosacchi si saranno allontanati.
– E ci getteremo nel deserto?
– Sì, Maria.
– E poi andremo a Pechino?...
– Tale è la nostra intenzione. Un viaggio attraverso la Mongolia non ti spiacerà forse.
– Tutt’altro, fratello.
Mentre chiacchieravano, il comandante della torre ed i suoi soldati, una mezza dozzina in tutti, avevano stesa al suolo una gran pelle di montone dipinta a vivaci colori ed avevano preparata una cena veramente cinese e molto abbondante.
Vi erano due superbe gru di Manciuria cucinate in una certa salsa nera che tramandava un odore un po’ sospetto; dei prosciutti molto piccoli ma grassotti, che non appartenevano a nessuna specie di maiali, essendo prosciutti di cani ingrassati con bachi da seta; del cacio di fagiuoli e di piselli formato con un impasto di farina, di gesso, di succo di certi semi e di legumi ed un tondo di lingue d’anitra in salsa bianca con aglio.
Gli uomini, poco schizzinosi, fecero onore al pasto, lasciando solamente da parte i prosciutti, con non poca sorpresa dei cinesi i quali invece hanno una grande passione per quel cibo. Maria invece si accontentò di trangugiare alcune tazze di the, veramente eccellente, essendo una specie scelta, il famoso pekol, chiamato dai cinesi the dai capelli bianchi, avendo una leggerissima peluria bianca.
Sorseggiate parecchie tazze, il mandarino fece portare del sam-sciù, specie di acquavite assai forte, ottenuta colla fermentazione del riso, parecchie pulah, pipe somiglianti un po’ ai narghilè orientali e mentre gli uomini accendevano il tabacco ed assaggiavano il liquore, con gentile pensiero; fece offrire alla giovane polacca certa specie di datteri chiamati whai–the, alcuni grappoli di uva verde, dagli acini grossi e assai gustosa, e dei kunquat canditi, specie di piccoli aranci, molto deliziosi e assai apprezzati dalle donne mongole.