Gli orrori della Siberia/Capitolo XXXI – La vendetta del colonnello
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Capitolo XXXI – La vendetta del colonnello
Ormai i cosacchi, scoperta la troika a così breve distanza dalla capanna del lebbroso, non potevano avere più alcuno dubbio sul luogo ove si celavano i fuggiaschi. Erano prontamente risaliti a cavallo e si dirigevano verso la jurta emettendo formidabili hurrah e facendo volteggiare in aria i loro moschetti, giunti però a cinquanta passi s’arrestarono. La paura della lebbra li tratteneva e malgrado fosse grande il loro desiderio d’impadronirsi dei fuggiaschi, non si sentivano il coraggio di affrontare le mefitiche esalazioni di quel covo.
Un di loro però, più ardito, si spinse fino a venti passi, gridando:
– Arrendetevi o facciamo fuoco!...
– È inutile rimanere nascosti, – disse il colonnello, volgendosi verso i compagni. – Ormai sanno che noi siamo qui e ci assedieranno fino all’arrivo di nuovi rinforzi. È meglio che diamo battaglia finché sono pochi.
– E vostra sorella? – chiese Iwan, impallidendo. – Se una palla la colpisse?
– Questa jurta è fabbricata di tronchi d’albero abbastanza grossi per arrestare le palle dei moschetti, le quali non hanno molta penetrazione. Se i cosacchi fossero armati di fucili Grass o di remington non ne risponderei: fortunatamente non ne hanno.
– È vero, – disse l’ingegnere. – Questa jurta è per noi una piccola fortezza, un vero ridotto.
– Canaglie, rispondete! – urlò il cosacco.
– Aspetta che ti mozzerò la lingua, furfante! – vociò lo studente, facendo atto di slanciarsi all’aperto.
Il colonnello lo trattenne, dicendogli:
– Lasciate fare a me, Iwan.
– Fratello mio! – esclamò Maria.
– Non temere, sorella.
Impugnò il fucile e s’affacciò alla porta gridando:
– Cosa volete da noi?
I cosacchi salutarono la sua comparsa con un hurrah fragoroso.
– Cosa volete? – ripeté il colonnello, con voce tuonante.
– Arrendetevi! – gridarono i cosacchi.
– Il motivo?
– Perché siete forzati fuggiti dalla miniera di Algasithal.
– Chi ve lo prova?
– La vostra fuga, – rispose il cosacco che si trovava più vicino. – Vi seguiamo da venti ore.
– Ebbene, venite a prenderci: vi avverto però che siamo tutti armati e che ci difenderemo fino all’ultima goccia di sangue. Volete un consiglio? Andatevene o vi uccideremo tutti.
Quel consiglio fu accolto da una clamorosa risata da parte dei cosacchi.
– Ehi!... Birbante d’un galeotto!... – gridò il cosacco più vicino. – Ci credi pul...
Non poté finire la frase. Iwan, comparendo improvvisamente a fianco del colonnello, aveva fatto fuoco sul brutale soldato, piantandogli una palla nel petto.
L’uomo barcollò sulla groppa del cavallo, aprì le braccia, poi stramazzò pesantemente a terra, rimanendo immobile.
I suoi compagni, furiosi, alzarono i moschetti e fecero fuoco sulla jurta. Il colonnello e lo studente, vista la mossa, con un rapido salto si erano riparati dietro i tronchi d’albero.
– Sei ferito? – chiese Maria, con ansietà.
– No, – rispose il colonnello.
– E nemmeno voi, Iwan?
– No, grazie, signora Maria, – rispose il giovanotto.
– Apriamo delle feritoie e cerchiamo di abbattere quei soldatacci, – disse l’ingegnere. – Le nostre armi hanno doppia portata dei loro moschetti e ci riuscirà facile respingerli.
– Vi sono tre fessure qui, – disse Dimitri.
– A posto di combattimento, – comandò il colonnello. – Uno di noi farà fuoco attraverso la porta.
– Miei buoni signori, – disse il lebbroso con voce piangente. – Volete farmi uccidere?
– Non temere, – disse Sergio. – Ritirati in un angolo e le palle non ti toccheranno.
I cosacchi intanto si erano sparpagliati, descrivendo una specie di semi-cerchio dinanzi alla jurta. Si erano tosto affrettati a prendere terra, avevano fatto coricare i cavalli e vi si erano nascosti dietro per non offrire i loro corpi alle palle degli assediati.
– I furbi! – esclamò Iwan.
– È il loro modo di combattere, – disse il colonnello, – tuttavia li costringeremo a sloggiare. Intanto uccidiamo i loro cavalli: il cosacco a piedi non è più da temere.
– Questa valle diventa la tomba dei cavalli, – disse lo studente, ridendo.
– Ecco là un bel cavallo bianco che mi offre uno splendido bersaglio.
– Ed io ho un morello, – disse Dimitri.
Tre colpi di moschetto echeggiarono al di fuori. Gli assediati udirono le palle cacciarsi nei tronchi d’albero con un lungo sibilo.
– Fuoco! – comandò il colonnello.
I due remington e i due Grass s’infiammarono formando una detonazione sola. Tre cavalli, fra i quali il bianco ed il morello, si distesero sulla neve agitando pazzamente le gambe; la quarta palla colpì invece un soldato il quale stramazzò da un lato emettendo un urlo d’angoscia.
Gli assedianti, spaventati da quella scarica micidiale, parve che ne avessero abbastanza. Quattro balzarono precipitosamente sui loro destrieri allontanandosi di galoppo; gli altri rimasti senza cavalcatura, fuggirono a tutte gambe salvandosi nel vicino bosco. Sul luogo del combattimento non rimase vivo che un cavallo, quello del cosacco poco prima abbattuto da Iwan, il quale caracollava attorno all’estinto padrone.
– Fuggiamo!... – esclamò Iwan.
– È impossibile, – rispose il colonnello. – Credete che quei cosacchi ci lascino tranquilli? Con due speronate ci sarebbero addosso e ci darebbero battaglia in campagna rasa e non voglio esporre Maria a tale pericolo.
– È vero, – disse Iwan.
– Tanto più che i cosacchi si sono arrestati e che si mettono in osservazione fuori di tiro, – disse l’ingegnere.
– Che attendano dei soccorsi? – chiese Dimitri.
– Ho udito parlare d’un ispettore, – disse Sergio.
– La nostra situazione minaccia di aggravarsi, signor Wassiloff.
– È vero, signor Storn.
– Se giungono degli altri cosacchi, non so se potremo respingerli. Cosa intendete di fare?
– Attendere la notte e cercare di raggiungere i boschi.
– Infatti mi sembra il piano migliore, colonnello. Non dobbiamo essere molto lontani dalla frontiera e con una rapida marcia possiamo entrare nella Mongolia.
– Purché non giungano prima dei rinforzi a quei cosacchi del malanno, – disse Iwan.
– Sono già le tre pomeridiane, – disse Dimitri levando di tasca un vecchio orologio: – Fra un’ora e mezza sarà notte.
– Abbiamo allora il tempo per mangiare un boccone, – disse il colonnello. – Approfittiamo finché ci lasciano tranquilli.
Mentre l’jemskik si metteva di sentinella dinanzi alla jurta per sorvegliare le mosse dei cosacchi, gli altri levarono da un sacco da viaggio dei biscotti e della carne conservata e si rifocillarono alla meglio. Il lebbroso non fu dimenticato e siccome quei disgraziati serbano un appetito invidiabile fino agli ultimi istanti della loro vita, fece molto onore alla cena.
Avevano appena terminato, che già le tenebre calavano con quella rapidità che è propria di quelle fredde regioni. Per colmo di fortuna, assieme alla notte scendeva nella valle una nebbia che pareva volesse diventare assai densa.
– Dio ci protegge, – disse Sergio. – Se la nebbia non si dirada, fra pochi minuti i cosacchi non scorgeranno più la jurta.
– Io non vedo quasi più i loro cavalli, – disse Iwan.
– Eppure devono essersi avvicinati, – disse l’ingegnere.
– Che circondino pian piano la jurta? – chiese Dimitri.
– Passeremo egualmente in mezzo a loro, – rispose Sergio.
– Ed il povero lebbroso? – disse Maria. – Se domani i cosacchi s’accorgono della nostra fuga, lo uccideranno.
– Non possiamo condurlo con noi. Gli daremo un centinaio di rubli e penserà lui a salvarsi nei boschi.
– Signori, la nebbia è già fitta, – disse l’jemskik.
– Si odono i cosacchi? – chiese Sergio.
– Non odo nulla.
– Usciamo: io aprirò la marcia e l’ingegnere la chiuderà. Armi in mano e silenzio assoluto.
Maria diede al lebbroso un altro centinaio di rubli, poi uscirono senza far rumore, aprendo per bene gli occhi e tendendo gli orecchi.
La nebbia era densa e continuava a calare nella valle. Ormai non si scorgevano più non solo i cosacchi, ma nemmeno gli alberi delle vicine foreste.
Camminando con precauzione per non far scricchiolare la neve, s’avanzarono in linea retta, arrestandosi di tratto in tratto per ascoltare e dopo dieci minuti urtavano contro i primi alberi della foresta. Stavano per slanciarsi innanzi, quando udirono in lontananza il campanello d’una slitta.
– Alt!... – mormorò il colonnello. Sia che la sua voce fosse stata udita, essendo la nebbia una eccellente conduttrice dei suoni od altro, uno sparo echeggiò a breve distanza ed i fuggiaschi udirono in aria un sibilo acuto d’una palla. Guardarono nella direzione ove era echeggiato lo sparo e parve loro di distinguere, attraverso la nebbia, un’ombra oscura.
– Un cosacco!... – esclamò l’jemskik.
– Zitto!... – mormorò il colonnello. – Imprudente!...
Un altro sparo rintronò a breve distanza, seguito da una voce che gridava:
– All’armi!... I forzati fuggono!...
Sergio e l’ingegnere, vedendosi scoperti, scaricarono i loro fucili, gridando ai compagni:
– Fuggite!...
Iwan afferrò Maria per le braccia e la trascinò nel bosco, mentre un cavaliere si scagliava contro Sergio e l’ingegnere che si trovavano colle armi scariche.
– Arrendetevi! – urlò il cosacco, alzando la sciabola.
Il colonnello non si perdette d’animo. Rapido come il lampo impugnò il fucile per la canna e col calcio percosse così potentemente il cavallo in mezzo alla fronte, da farlo stramazzare a terra.
Dimitri, che era tornato prontamente indietro, scaricò i sei colpi della sua rivoltella sul soldato, poi tutti fuggirono nella foresta.
Dinanzi a loro avevano trovato una specie di sentiero e correvano per far perdere le tracce agli altri cosacchi che si erano già lanciati dietro di loro.
Fortunatamente la nebbia li proteggeva, impedendo agli inseguitori di scorgerli.
Sorreggendo la ragazza, s’internarono nella foresta, procedendo a casaccio, finché dopo mezz’ora giunsero dinanzi ad un torrente che tagliava loro la via, essendo incassato fra due sponde così alte da sfidare la discesa.
– Maledizione! – esclamò il colonnello.
– Retrocediamo, – disse l’ingegnere.
– No, – disse Iwan. – Odo i cosacchi galoppare nel bosco.
– Cerchiamo un nascondiglio, – disse Maria. – Vedo là un folto gruppo d’alberi. Domani vedremo cosa si potrà fare.
– Affrettiamoci, – disse l’ingegnere.
Deviarono seguendo la sponda del torrente e si cacciarono in mezzo ad un macchione di larici e di piccoli abeti che poteva celarli finché durava quell’oscurità. Misero Maria in mezzo, per proteggerla contro qualche improvvisa scarica e si sdraiarono all’ingiro coi fucili e le rivoltelle in mano, pronti a respingere qualsiasi attacco.
I cosacchi non si udivano più, però in lontananza echeggiava sempre il campanello della slitta, il quale diventava più distinto.
– Deve essere la slitta dell’ispettore, – disse il colonnello all’ingegnere.
– Certamente, – rispose questi.
– Che abbia condotto dei rinforzi?
– Se fosse seguito dai cosacchi, si udrebbero i loro hurrah, colonnello. Forse li avrà preceduti.
– Che sia un ispettore della polizia d’Irkutsk?
– È probabile.
– Comincio a diventare inquieto, signor Storn. Se giungono altri cosacchi non ci rimarrà che di farci uccidere.
– Ci difenderemo finché ci rimane una cartuccia e ne getteremo giù parecchi. Siamo tutti eccellenti bersaglieri.
– Se si potesse trovare un passaggio attraverso a quel dannato torrente!...
– Volete che tentiamo una esplorazione, signor Wassiloff? Non odo più alcun rumore nel bosco e forse i cosacchi galoppano incontro alla slitta.
– Proviamo, signor Storn. Se troviamo il passaggio, siamo salvi.
Raccomandarono ai compagni di fare buona guardia, presero i fucili ed uscirono dalla macchia. Ascoltarono alcuni istanti con profonda attenzione, poi rassicurati dal silenzio che regnava nella foresta, orizzontatisi alla meglio, si misero a scandagliarla, ma si accorsero che anche in quel luogo scendeva quasi a picco, rendendo la discesa assolutamente impossibile.
La seguirono per parecchie centinaia di metri, senza miglior esito. Il torrente era incassato in una profonda fenditura del suolo, impedendo loro la ritirata verso la montagna.
– Bisogna aspettare l’alba, – disse l’ingegnere. – Ritorniamo.
Stavano per rimettersi in cammino, quando udirono sulla loro destra un nitrito soffocato e poco dopo l’urto d’una sciabola che batteva i polpacci di qualche cavaliere.
– Fermatevi, – mormorò il colonnello.
Una grande ombra nera, uscita dal bosco, si dirigeva lentamente verso il torrente. Non era possibile ingannarsi; era un cosacco che esplorava il terreno. L’ingegnere ed il colonnello si nascosero dietro ad un gruppo di betulle nane, tenendo i fucili imbracciati, poi quando lo videro allontanarsi, si rimisero in cammino, raggiungendo i loro compagni.
– Nulla? – chiese Iwan.
– Bisogna attendere l’alba, – rispose il colonnello. – Zitti perché i cosacchi ci sono vicini.
– Una parola ancora.
– Parlate.
– Non odo più il campanello della slitta.
– L’ispettore avrà raggiunto i cosacchi. Silenzio e aprite bene gli occhi.
S’accomodarono alla meglio in mezzo alle piante, attorno a Maria che si era addormentata sul caftano che lo studente aveva steso per terra, onde proteggerla dall’umidità della neve.
La notte trascorse fra continue angosce e continue ansietà, però senza allarmi.
Già la nebbia cominciava ad alzarsi, spazzata via da un vigoroso colpo di vento che scendeva dalle vicine montagne, quando i fuggiaschi scorsero alcune ombre che s’avvicinavano al loro nascondiglio. Non ci volle molto a riconoscere in quelle forme cinque cavalieri e due persone a piedi.
S’avanzavano con precauzione, arrestandosi di tratto in tratto come se cercassero sulla neve delle tracce, muovendo però dritti verso la macchia.
– Eccoli, – mormorò il colonnello, alzando il fucile. – Mirate giusto!... Fuoco!...
Quattro colpi di fucile e sei o sette colpi di rivoltella rintronarono. Due cavalieri ed i due uomini a piedi caddero assieme ad un cavallo. Gli altri tre, spronate furiosamente le loro cavalcature, fuggirono a briglia sciolta, scaricando a casaccio i loro moschetti e si udirono allontanarsi in direzione della valle.
– Bel colpo!... – disse Iwan.
– Al torrente!... – gridò il colonnello.
– Un momento, – disse l’ingegnere. – Vi è un uomo che cerca di fuggire.
– Dove?...
– Eccolo laggiù che cerca di strisciare verso il bosco.
Infatti un uomo, uscito da quel gruppo di morti, si trascinava carponi verso gli alberi, cercando di nascondersi.
Il colonnello in quattro salti gli fu addosso alzando su di lui il calcio del fucile. Ad un tratto indietreggiò coi lineamenti contratti da una collera tremenda, esclamando con voce rauca.
– Voi!...
L’uomo si alzò sulle ginocchia, mormorando con voce tremante:
– Il colonnello Wassiloff!...
– Non sono il colonnello Wassiloff, io sono il numero 844, – disse il gigante, con voce beffarda. – Ve lo ricordate, signor Demidoff, ispettore della polizia d’Algasithal?
L’ispettore poiché era proprio lui, a quelle parole impallidì orribilmente.
– Un giorno, – proseguì Sergio con crescente ironia, – voi mi minacciaste di farmi sferzare perché io avevo osato parlare in vostra presenza, ve lo ricordate, signor Demidoff?... Lo knut faceva tanto bene ai nichilisti, è vero?... E rammentate che cosa vi risposi?... Che un giorno il colonnello Wassiloff avrebbe potuto ritornare libero e ricordarsi di voi...
– Ebbene? – chiese l’ispettore, coi denti stretti.
– Il giorno è venuto, signor Demidoff ed io mi ricordo ora di voi.
– Bravo colonnello! – esclamò Iwan.
– Volete uccidermi? – chiese l’ispettore, con voce cupa.
– L’hai detto! – disse il colonnello.
– Fratello mio! – esclamò Maria.
– Taci, Federowna, – disse Sergio. – Quest’uomo mi appartiene e vendico su di lui le umiliazioni sofferte nella miniera.
– Badate che se mi uccidete mi vendicheranno, – disse l’ispettore. – I cosacchi non sono lontani.
– Quando giungeranno qui, tu sarai morto.
– Badate!...
– Vile!... Hai paura della morte?... Ma non ti tremava il cuore quando facevi straziare a colpi di knut la carne degli infelici che si ribellavano contro le inaudite barbarie dei tuoi aguzzini.
– Assassinatemi, adunque.
– Assassinarti!... Il colonnello Sergio Wassiloff si batte, ma non assassina come te!... Dimitri, va a raccogliere le sciabole di quei due cosacchi.
– Sergio, – disse Maria. – Non esporre la tua vita contro quest’uomo.
– Appicchiamolo invece, – disse Iwan. – Il capestro è ancora troppo dolce per questa canaglia.
– No, – disse il colonnello. – Si batterà con me.
Dimitri aveva raccolte le sciabole dei due cosacchi. L’ispettore, che non era poi un pauroso, afferrò quella che gli veniva sporta e balzò in piedi con agilità sorprendente, esclamando:
– Ti bucherò la pelle, galeotto.
– Sorvegliate il bosco, – disse l’ingegnere a Dimitri e all’jemskik. – Se i cosacchi tornano, fate fuoco, poi ripiegatevi verso il torrente.
I due polacchi s’allontanarono, mentre Iwan conduceva via Maria per non farla assistere a quel duello che doveva terminare colla morte di uno dei due avversari.
– In guardia, – comandò l’ingegnere. – Attaccate!...
L’ispettore, senza quasi attendere il segnale, si precipitò addosso al colonnello vibrandogli un terribile fendente di figura che avrebbe dovuto spaccargli la testa, ma la botta fu prontamente parata.
Parve sconcertato dalla mala riuscita di quel primo colpo. Comprendendo d’avere dinanzi un abile schermidore, pienamente sicuro di sé che possedeva tale braccio da fendere una rupe, divenne più guardingo, limitandosi per il momento ad una serie di finte e di contro-attacchi, però trovava sempre il colonnello pronto alla parata. Allora perdé il lume degli occhi; non ebbe più che un desiderio: farsi uccidere, toccando però l’avversario.
Si mise a moltiplicare gli attacchi, vibrando colpi disperati a destra e a sinistra e colpi di punta, poi cominciò a rompere. Il colonnello, che fino allora erasi accontentato di parare, cominciava ad incalzarlo con grande energia, spingendolo in direzione del torrente.
– Indietro!... – gridava.
L’ispettore, che aveva alle spalle il torrente, faceva sforzi disperati per non perdere terreno, ma la sciabola dell’avversario gli minacciava sempre il cuore ed era costretto a rompere. Impallidiva orribilmente ad ogni passo indietro che faceva ed un freddo sudore gl’inondava la fronte.
Ad un tratto senti che il terreno gli mancava dietro al piede sinistro. Tentò un colpo di punta, ma gli mancò il tempo. La sciabola del colonnello scese rapida come il lampo, spaccandogli il cranio. Il miserabile si mantenne un istante ritto sull’orlo della riva, poi abbandonò l’arma e rovinò in fondo al torrente sfondando col proprio peso, la crosta di ghiaccio e scomparendo sott’acqua.
– Giustizia è fatta, – disse Sergio, gettando il ferro insanguinato. – Maria, Iwan, amici, fuggiamo!...