Gli orrori della Siberia/Capitolo XXX – La “jurta” del lebbroso

Capitolo XXX – La “jurta” del lebbroso

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Capitolo XXX – La “jurta” del lebbroso
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Capitolo XXX – La “jurta” del lebbroso


Mezz’ora dopo, i fuggiaschi abbandonavano la folta pineta, ridiscendendo sulla via che doveva condurli verso le sponde meridionali del Baikal.

L’oscurità era diventata profonda, essendosi il cielo coperto di densi nuvoloni gravidi di neve, che salivano dal lago ed il freddo era acutissimo in causa del vento che soffiava dal nord, il quale produce sempre dei bruschi abbassamenti di temperatura, dei salti di quindici e talvolta di venti e più gradi.

I cavalli, vigorosamente sferzati e sorretti dai loro ferri da ghiaccio, galoppavano rapidamente sulla nevosa via, sollevando turbini di nevischio, i quali investivano i viaggiatori avvolgendoli in una specie di nuvola che aveva, alla luce dei fanali della troika, degli strani scintillii. Tutta la notte corsero in tal guisa, non accordando ai cavalli che dei brevissimi riposi.

Verso le cinque del mattino erano già giunti in prossimità del lago e già si disponevano ad abbandonare la via fino allora percorsa, quando scorsero un drappello di cosacchi il quale aveva, allora allora, attraversato di gran galoppo il Baikal.

– Alt! – gridò l’ingegnere. – I cosacchi!...

La slitta e la troika s’arrestarono di colpo.

– Dove si dirigono? – chiese il colonnello, con trepidazione.

– Ci tagliano la strada, – disse Iwan, che era salito sul sedile per meglio vederli.

– Che cerchino noi? – chiese Maria.

– È possibile, – rispose il colonnello. – Il governatore avrà spedito parecchi drappelli verso le coste meridionali, per impedirci di raggiungere la frontiera per la strada di Chaia-Mürinsck. A quest’ora deve avere appreso la nostra fuga.

– Mi pare che si dirigano da questa parte, – disse Iwan.

– Che abbiano udito i campanelli delle dughe?

– Ne sono certo, colonnello, – disse l’ingegnere, – e vorranno sapere chi sono i notturni viaggiatori che preferiscono scendere l’aspra strada, invece di prendere quella più comoda del lago.

– Gettiamoci nel bosco. Dimitri, stacca i campanelli delle dughe.

Il vecchio soldato con due strappi staccò i campanelli sospesi ai cerchi di legno dei due cavalli di mezzo.

– Frusta ora!...

La slitta e la troika abbandonarono la strada salendo di galoppo le alture, in direzione del sud. Ormai i fuggiaschi avevano abbandonata l’idea di fare una punta in prossimità di Chaia-Mürinsk, per ritrovare i loro compagni, dovendo pensare innanzi a tutto alla loro salvezza; e poi, poteva darsi che i tre politici ed il galeotto, stanchi di attenderli o minacciati dai cosacchi, fossero fuggiti verso la frontiera cinese.

Giunti sulla cima delle colline, volsero gli sguardi verso il lago e scorsero i cosacchi galoppare ventre a terra sulla strada che avevano poco prima lasciata. Ormai non vi era più alcun dubbio: avevano scorto i fuggiaschi e, messi in sospetto da quella rapida ritirata, si preparavano ad inseguirli.

– Fratello mio! – esclamò Maria, impallidendo.

– Non temere Maria, – disse il colonnello, con voce energica. – Sapremo difenderci!

– Le armi non mancano, – disse Dimitri. – E poi abbiamo almeno tre miglia di vantaggio, Maria.

– E quei cosacchi non sono che otto, – aggiunse Dimitri. – Due palle ben assestate, pareggeranno il numero. Di galoppo, mio colonnello!

I cavalli, quantunque galoppassero da tre ore, salivano le alture senza dare segno di stanchezza e senza scivolare, essendo tutti muniti di ferri da ghiaccio. Giù nella valle però si udivano le grida dei cosacchi i quali seguivano le tracce, lasciate sul ghiaccio dai pattini dei due veicoli.

Quantunque pel momento non vi fosse pericolo alcuno, non potendo i cavalli dei soldati guadagnare via su quel terreno malagevole che non permetteva un galoppo sfrenato, i fuggiaschi avevano preparato le armi.

Disponevano di due remington, di due Grass a retrocarica, di tre rivoltelle di grosso calibro e di cinquecento cartucce, tanto insomma da tener testa a due compagnie di soldati.

Però di passo in passo che salivano, la via diventava più aspra, più difficile. Non vi erano più sentieri, ma invece profondi burroni, spaccature che erano costretti a girare con molta perdita di tempo, e grandi boscaglie.

Alle dieci furono costretti a fermarsi. I cavalli non ne potevano più ed era necessario accordare loro un po’ di riposo per non rovinarli completamente.

I cosacchi non si vedevano, né si udivano più. Era però certo che continuavano l’inseguimento guidati dalle tracce dei pattini.

All’una ripresero la corsa scendendo e salendo parecchie colline, correndo venti volte il pericolo di capitombolare in fondo ai burroni e di fiaccarsi il collo.

Alle cinque i cavalli cominciarono a dare segni di stanchezza estrema.

Vacillavano, non obbedivano più alla frusta, né alle briglie ed ansavano fortemente.

– Padrone, – disse Dimitri, – bisogna arrestarsi.

– Odi i cosacchi?

– No, e credo che siano molto lontani.

– Fermati.

La troika e la slitta s’arrestarono.

– Jemskik, – disse il colonnello, – credi tu che siamo ancora molto lontani dalla frontiera?

– Almeno sessanta verste.

– Possiamo fare un tentativo disperato.

– E quale? – chiese l’ingegnere.

– Costringere i cavalli a correre finché rimane loro un atomo di forza. Dinanzi a noi abbiamo una vallata: li lanceremo a tutta carriera.

– E non rovineremo i cavalli?

– Li uccideremo, ma cosa importa? Oltrepassata la frontiera, le truppe cinesi non permetteranno una violazione di territorio da parte dei russi.

– Penso però, colonnello, che se i nostri cavalli sono stanchi, lo saranno pure quelli dei cosacchi.

– Possono aver deviato verso qualche borgata ed averli cambiati.

– È vero, – dissero Iwan e l’ingegnere.

– Tenete fermi i cavalli.

– Cosa volete fare? – chiese l’ingegnere.

– Ricorro ad un mezzo barbaro, ma necessario. Introduco una briciola d’esca nei loro orecchi.

– Accesa? – chiese Maria.

– Sì, sorella mia. Se avessi della sabbia otterrei il medesimo risultato.

– Poveri animali!...

– È una triste necessità, Maria, ma vale meglio la nostra libertà che la vita di questi cavalli. Jemskik, mi hai capito?

– Perfettamente, signore, conosco questo mezzo.

– Affrettiamoci.

– Lasciate fare a noi, colonnello, – disse Iwan. – Rimanete nella troika con vostra sorella e con Dimitri.

L’ingegnere e lo studente afferrarono i tre cavalli della troika per le nari e l’jemskik, accese l’esca, la spezzò in tre parti e la lasciò cadere negli orecchi degli animali.

Questi appena sentirono i primi morsi del fuoco s’inalberarono spaventosamente sollevando perfino gli uomini che li trattenevano, e mandando nitriti dolorosi.

– Via tutti!... – gridò Dimitri.

I tre animali, pazzi di dolore, si scagliarono a precipizio attraverso alla valle, divorando la via con celerità incredibile.

Poco dopo la slitta, si slanciava dietro di loro con eguale celerità: l’jemskik, Iwan e l’ingegnere erano riusciti a introdurre l’esca anche negli orecchi dei loro animali.

Ben presto la corsa divenne così vertiginosa, che gli stessi cocchieri cominciarono ad inquietarsi. I cavalli correvano come una tromba, senza più nulla vedere, senza più obbedire alla briglia. Guai se un ostacolo si fosse trovato sulla loro via.

Quante verste percorsero? Forse quindici, forse il doppio.

Ad un tratto però i cavalli della slitta stramazzarono l’uno addosso all’altro, ed il veicolo, arrestato di colpo, si rovesciò proiettando a destra ed a sinistra lo studente, l’ingegnere e l’jemskik.

I cavalli della troika continuarono ancora per trecento passi poi a loro volta caddero, lanciando in mezzo alla neve Maria, il colonnello e Dimitri.

Quantunque l’urto fosse stato violento, il colonnello si era prontamente rialzato, slanciandosi verso la sorella, la quale si dibatteva fra la neve che l’aveva mezza sepolta.

– Sei ferita? – le chiese, con ansietà.

– No, Sergio, – rispose la giovanetta, sorridendo. – La volata è stata brusca, ma la neve ha raddolcito il colpo.

– Ho tremato per te.

– Un semplice accidente di viaggio. E i compagni?

– Sono qui, padrona, – disse Dimitri, sbarazzandosi della neve.

– E gli altri s’avanzano verso di noi, – disse il colonnello.

– Anche Iwan?

– Sì, Maria.

– Ed i cavalli?

– Due sono morti ed il terzo sta per spirare, – rispose Dimitri.

– Poveri animali ma... toh!... Una capanna!...

– Dove? – chiesero il colonnello e Dimitri.

– Laggiù, sull’orlo di quel bosco.

Sergio guardò nella direzione indicata e scorse infatti, all’estremità della vallata, sul margine d’un bosco di larici e di betulle, una casa bassa con un tetto spiovente, costruita con grossi tronchi di albero, e d’aspetto miserabile.

– È una jurta, – diss’egli.

– Una casupola abitata da indigeni, vuoi dire?

– Sì, Maria.

– Colonnello!... – gridò in quell’istante Iwan, che s’avanzava correndo. – Siete salvo?

– Sì, amico.

– E la signorina Maria?

– Sì, Iwan.

– Ed i cavalli?

– Morti.

– Ed anche i nostri.

– Avete le armi e le cartucce?

– Tutto; colonnello.

– Padrone! – esclamò in quell’istante Dimitri. – Vedo un uomo scendere la valle.

– Un cosacco?

– Un buriato, se non m’inganno.

L’ingegnere, l’jemskik e lo studente erano vicini. Il colonnello fece loro cenno d’arrestarsi e di nascondersi, poi si sdraiò dietro un cumulo di neve assieme a Maria ed a Dimitri.

Un uomo vestito poveramente, con una vecchia pelle d’orso che aveva già perduto il pelo, scendeva attraverso i boschi. Portava una specie di canestro e sulle spalle un lungo bastone terminante in un uncino.

– Che sia un cacciatore? – chiese Maria, a Sergio.

– Armato di un uncino? – disse il colonnello. – Non saprei cosa potrebbe cacciare con quell’arma poco offensiva.

– Mi pare che si diriga verso la jurta.

– Sarà il proprietario.

– Se è un buriato possiamo chiedergli asilo; mi hanno detto che sono ospitali.

– Ma potrebbe essere anche uno spione mandato dai cosacchi.

Intanto l’uomo dall’uncino continuava a scendere, con una certa precauzione, dirigendosi verso la casupola. Giunto a pochi passi s’arrestò come se esitasse ad andare più innanzi, poi s’accostò rapidamente, con un calcio aprì la porta, indi passato il canestro sull’uncino, lo lanciò nell’interno.

Ciò fatto fuggì a precipizio, come se temesse d’esser inseguito, raggiungendo i boschi.

Il colonnello, Maria e Dimitri, avevano assistito a quella strana scena colla più grande sorpresa.

– Cosa vuol dire ciò, Sergio? – chiese Maria.

– Lo ignoro assolutamente.

– Che vi sia qualcuno nella jurta!

– Lo suppongo.

– Un uomo od un animale? Mi parve quel buriato fosse assai spaventato.

– Sarei anch’io curioso di saperlo, – disse Sergio.

– Ve lo dirò io, colonnello, – disse l’ingegnere, che lo aveva raggiunto. – In quella capanna v’è un lebbroso e forse più lebbrosi.

– Dei lebbrosi!... – esclamò Maria, rabbrividendo. – Fuggiamo, fratello!

– Bah! La lebbra non è così contagiosa come si crede, – disse il colonnello. – Le persone sane e ben nutrite, non hanno da temere tanto.

– E cosa fanno quei miseri, in quella capanna isolata? – chiese la giovane.

– Tirano innanzi finché la morte li colpisce, – disse l’ingegnere.

– Senza aiuti, senza medicine, senza un amico pietoso od un parente che li consoli.

– Senza gli uni e gli altri, signorina. La lebbra è una grande piaga della Siberia, e miete ogni anno un buon numero di vittime per l’incuria degli abitanti. Vi sono dei barbari costumi in queste regioni maledette che fanno raccapricciare. Quando un uomo è colpito, sia il padre, sia il fratello, sia la sorella od un figlio, lo si scaccia di casa senza pietà, tanta è la paura che ispira quell’orribile male. Il disgraziato, respinto da tutti inesorabilmente, non ha che un rifugio: la foresta. Va a nascondersi in fondo alle boscaglie deserte, si fabbrica una jurta e là attende, rassegnato, la morte.

– E chi reca il nutrimento a quei miseri?

– Lo avete veduto or ora: un uomo pagato od un parente. Picchia alla porta con un bastone uncinato e getta dentro i viveri, poi fugge.

– E quei lebbrosi, non escono mai?

– Si guarderebbero bene, poiché ogni uomo che li incontrasse ha il diritto di freddarli con un colpo di fucile, – disse l’ingegnere.

– Quali infamie!...

– Che volete, signorina?... È forse l’unico mezzo per impedire al male di propagarsi.

– Ed il governo russo non se ne occupa?

– Bah!... Ha da pensare ai forzati.

– E da che cosa deriva la lebbra?

– È prodotta dall’umidità del suolo, dal clima malsano, da vitto cattivo ed insufficiente, dal sudiciume e dalle abitazioni troppo ristrette nelle quali l’aria è carica di esalazioni mefitiche, – disse il colonnello. – Si propaga quasi sempre fra gli indigeni che sono luridi, e quasi mai fra i russi qui domiciliati.

– Un lebbroso deve presentare un aspetto orribile.

– Orrendo, Maria.

– Io non entrerò mai in quella jurta.

– Temo invece, signora, che sarete costretta ad entrarvi, – disse l’ingegnere. – Solo là dentro potremo trovare un ricovero sicuro se i cosacchi ci piombano addosso.

– E perché, signor Storn?

– Perché non ardirebbero accostarsi alla capanna d’un lebbroso.

– Silenzio!... – esclamò l’jemskik.

– Cos’hai? – chiesero i fuggiaschi.

– Mi parve d’aver udito delle grida lontane.

– Che siano già qui? – chiese il colonnello, coi denti stretti, mentre gli occhi gli avvampavano per la collera.

– Non perdiamo tempo, – disse l’ingegnere. – Facciamo sparire i cavalli e le slitte, poi fuggiamo nella jurta.

Iwan, l’jemskik e l’ingegnere si slanciarono verso la slitta e levate due pale, si misero alacremente al lavoro seppellendo cavalli e veicolo sotto un ammasso di neve, mentre il colonnello e Dimitri facevano altrettanto colla troika e cogli altri animali.

Venti minuti furono sufficienti per far sparire tutto.

– Alla jurta, – disse l’ingegnere.

– Ma... colonnello, – disse Iwan. – E vostra sorella?

– Non avrà paura, – rispose Sergio. – È troppo coraggiosa.

– Se vai tu, ci verrò anch’io, – disse la giovane con voce risoluta. – Andiamo, fratello.

I fuggiaschi s’avvicinarono alla capanna, con una certa ripugnanza, e l’ingegnere, pel primo, aprì la porta, chiedendo:

– Si può?

– Chi osa visitare il povero lebbroso? – chiese una voce afona.

– Dei brod’ agà, – disse l’ingegnere. – Gente onesta, però, che non ti farà alcun male.

– E non avete paura del male?

– No.

– Entrate.

Appena varcata la soglia, un essere ributtante che stava accovacciato in mezzo alla jurta, fra un cumulo d’immondizie fetenti, s’offerse agli occhi dei fuggiaschi.

Era un uomo sui cinquant’anni, coperto malamente con un vestito di pelle di renna, tutto strappato. Aveva la pelle del viso cosparsa di pustole e di ulceri, gli occhi lagrimosi colle palpebre che parevano rovesciate, il naso incancrenito e le dita prive delle unghie e già corrose fino alle ossa. Alcune falangi gli erano già cadute ed altre stavano per cadere.

Quel misero alzò lentamente le palpebre e fissò sui nuovi venuti uno sguardo istupidito.

– È orribile!... – esclamò Maria, indietreggiando.

– Ma questo lebbroso ci salva, – disse Sergio. – Coraggio, sorella mia. Resteremo qui il meno possibile.

– I cosacchi! – esclamò in quell’istante l’jemskik, che si era messo in osservazione presso la porta.

– Dove sono? – chiesero Sergio e l’ingegnere.

– Eccoli laggiù che galoppano verso di noi.

Tutti si precipitarono verso la porta e scorsero infatti il drappello di cosacchi che s’avanzava di carriera, attraverso alla valle. Non vi era da dubitare sulle intenzioni di quegli uomini: avevano scorto la jurta, e si dirigevano appunto da quella parte, seguendo le tracce lasciate dalla slitta e dalla troika.

– Cosa facciamo? – chiese Iwan, che tormentava il grilletto del suo remington. – Non sono che otto.

– Cerchiamo d’ingannarli, – disse Sergio.

Si volse verso il lebbroso, dicendo:

– Puoi tu camminare?

– Sì, – rispose il disgraziato.

– Io ti regalo venti rubli se tu, colla tua presenza, ci salvi. Basta che tu ti mostri sulla soglia della tua catapecchia, per mettere in fuga quella banda d’avvoltoi.

Gli occhi del lebbroso brillarono di cupidigia: venti rubli erano per lui una sostanza e con tale somma poteva procurarsi un barile di vodka.

– Dammeli, – disse.

Maria lasciò cadere ai suoi piedi due biglietti da dieci rubli, che il meschino afferrò tosto colle sue mani incancrenite, nascondendoseli avidamente in petto.

– Ritiratevi all’estremità dell’isba, – disse poi. – Se i cosacchi s’accorgono che io cerco d’ingannarli, mi uccideranno.

– Abbiamo dei buoni fucili e ti proteggeremo noi, – disse Sergio.

Si ritrassero in un angolo della casupola, accostando gli occhi ad alcune fessure, per sorvegliare le mosse dei nemici.

I cosacchi si erano arrestati presso il primo cumulo di neve e pareva che cercassero le tracce della slitta. Senza dubbio si trovavano molto imbarazzati, non scorgendo più che quella della troika. Dopo d’aver girato e rigirato attorno al cumulo, si diressero verso l’altro, ma colà s’arrestarono nuovamente non ritrovando più nemmeno quelle del secondo veicolo.

Dopo d’aver tenuto un breve consiglio, armarono i fucili e s’avvicinarono con precauzione all’isba. Giunti a trecento passi, sei s’arrestarono e gli altri due s’avvicinarono lentamente, cercando di vedere cosa si nascondeva nella capanna.

Non udendo alcun rumore, né vedendo comparire alcuno, scesero da cavallo, si gettarono carponi e s’appressarono fino a pochi passi, tenendo i fucili puntati.

– Chi vive? – chiese uno dei due.

Un gemito, emesso dal lebbroso, fu la risposta.

– Olà, – riprese il cosacco, – uscite o facciamo fuoco!

Il lebbroso si trascinò penosamente presso la porta, mostrando il suo orribile viso deturpato.

– Cosa volete da me? – chiese con voce gemente.

I due cosacchi, scorgendolo, indietreggiarono vivamente come se si fossero trovati dinanzi ad una belva, esclamando con voce soffocata:

– Un lebbroso!...

– Sì, un povero lebbroso, – rispose il disgraziato, avanzandosi.

– Sta indietro, canaglia!... – urlarono i due cosacchi, retrocedendo ancora.

– Cosa volete da me?

– Che il diavolo ti appicchi!... – esclamò uno dei due. – Io me la do a gambe!... Non voglio prendermi la lebbra pei begli occhi del governatore.

– Io non me ne andrò senza essere certo che i forzati non si sono nascosti là dentro, – disse il compagno.

– Nel covo del lebbroso? Sei pazzo?...

– Hanno la pelle dura quei cani, e temono più la miniera e lo knut che la lebbra.

– Ti dico che nessuno osa entrare nella jurta d’un lebbroso.

– Vuoi che siano volati via? Le tracce della slitta finiscono in questa valle.

– Va’ a visitare la capanna se ti garba.

– Possiamo incendiarla. Se sono nascosti salteranno fuori.

– Dove troverai della legna secca, con questa neve? E poi, chi s’avvicinerà alla jurta?

– Allora ci metteremo in osservazione. È stato avvertito l’ispettore?

– Olao è ritornato sul lago e a quest’ora deve averlo incontrato.

– Deciderà lui cosa si deve fare. Allontaniamoci e non perdiamo di vista la jurta.

– Non domando di meglio. Ehi? lebbroso!... torna nel tuo covo e bada che se cerchi di uscire, ti fracasso il cranio con una palla. Così almeno avrai finito di soffrire.

I due cosacchi risalirono sui loro cavalli e raggiunsero i compagni, informandoli di quanto avevano deciso. Furono veduti arrestarsi alcuni minuti e parlare con animazione, poi allontanarsi, forse per cercare un posto acconcio per accampare.

Ad un tratto, uno dei loro cavalli, passando dinanzi al primo cumulo di neve, sotto il quale nascondevasi la troika, inciampò e cadde nonostante una viva strappata dell’uomo che lo montava.

I compagni del caduto prontamente s’arrestarono, poi scesero di sella e messi senza dubbio in sospetto da quel cumulo di neve che pareva nascondesse qualche ostacolo, si misero a frugarvi nel mezzo coi calci dei moschetti e colle sciabole.

Un urlo di trionfo avvertì i fuggiaschi che la troika era stata scoperta. Il colonnello impallidì e fece un gesto di furore, ma poi raddrizzando l’imponente statura, tuonò.

– Volete battervi?... Siamo pronti a difenderci!...