Gli orrori della Siberia/Capitolo XXXII – I khalkhas

Capitolo XXXII – I khalkhas

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Capitolo XXXI – La vendetta del colonnello Capitolo XXXIII – La frontiera mongola

Capitolo XXXII – I khalkhas


Non bisognava perdere un istante di più; si erano già fermati fino troppo sulle rive di quel torrente. I cosacchi fuggitivi non dovevano tardare a far ritorno coi compagni che avevano lasciati nella vallata, ed a riprendere l’inseguimento colla massima velocità.

Iwan, impadronitosi di un cavallo che era rimasto illeso, e che invece di fuggire erasi arrestato presso il cadavere del padrone, ci fece salire la coraggiosa ragazza, e tenendolo per le briglie si mise a scendere la sponda, colla speranza di trovare un passaggio. Il colonnello ed i suoi compagni si tennero alla retroguardia, per respingere gli assalitori che non dovevano indugiare a mostrarsi.

Nella vallata si udiva ancora echeggiare il suono del campanello e pareva che si avvicinasse rapidamente. Senza dubbio i cosacchi, rimasti senza cavallo, erano saliti sulla slitta per continuare l’inseguimento.

– Scorgete nulla, Iwan? – chiese il colonnello, dopo alcuni istanti.

– La sponda è sempre alta, – rispose il giovinotto, che non abbandonava le briglie del cavallo montato da Maria.

– È sempre incassato fra le rocce il fiume?

– Sempre, colonnello.

– Quale direzione tiene la corrente?

– Mi pare che scenda verso la valle.

– Allora bisogna risalirla invece di scenderla, – disse Storn. – Continuando andremo a gettarci in bocca ai lupi del governatore d’Irkutsk.

– Credete che sia partito migliore gettarsi verso la montagna, signor Storn.

– Sì, colonnello; così facendo renderemo più difficile l’inseguimento dei cosacchi, non potendo i loro cavalli galoppare su questo versante così ripido.

– Ci allontaneremo dalla frontiera?

– Non lo credo; e poi, quando questo nebbione si sarà alzato, dalla cima di queste vette potremo meglio dirigerci.

– Ritorniamo, Iwan, – disse Sergio. – Non abbandonate le briglie o il cavallo scivolerà.

– Non temete, colonnello, – rispose lo studente. – La signora Maria non correrà pericolo alcuno.

Dimitri e l’jemskik si misero alla testa per cercare i passaggi migliori, non avendo alcuna conoscenza di quelle montagne; Iwan si mise dietro a loro conducendo il cavallo, ed il colonnello e l’ingegnere in coda per proteggere la ritirata.

Il nebbione favoriva la fuga, ma impediva di scoprire i sentieri, sicché erano costretti a procedere a casaccio in mezzo alle nevi. Si tenevano però sempre vicini al fiume, sperando di poter trovare qualche guado; ma la sponda si manteneva sempre alta, anzi il fiume pareva che s’incassasse sempre più fra le rupi.

I cosacchi. non si vedevano apparire, ma si udivano. Giù nella valle echeggiava ancora il campanello della slitta e di quando in quando si alzavano delle voci umane e dei nitriti di cavalli.

Probabilmente avevano perdute le tracce dei fuggitivi o forse si erano arrestati sul margine del bosco, credendo che vi si fossero nascosti dentro.

Ma non dovevano tardare a rimettersi sulla buona via, poiché le orme del piccolo drappello rimanevano profondamente impresse sulla neve.

Il colonnello e l’ingegnere, sapendo il pericolo che correvano, cercavano di affrettare la marcia per frapporre il maggior spazio possibile fra loro e gl’inseguitori. Era necessario guadagnare le vette di quelle montagne prima che si alzasse il nebbione. Solamente lassù, in mezzo alle rupi, inaccessibili pei cavalli, potevano considerarsi se non del tutto sicuri, almeno fuori di portata da una sorpresa.

I sentieri però mancavano e le balze della montagna erano così ripide da rendere estremamente difficile la salita. Il cavallo soprattutto affondava nella neve fino al ventre e di frequente scivolava, minacciando di balzare di sella la coraggiosa ragazza.

Dimitri aveva dovuto aiutare lo studente, lasciando all’jemskik l’incarico di trovare da solo i migliori passaggi. Maria si era offerta più volte di scendere e li aveva consigliati di abbandonare l’animale, che in quel momento era più d’impiccio che di utilità, ma tutti si erano opposti, poiché quel quadrupede poteva più tardi rendere forse dei grandi servigi, specialmente nelle vicinanze della frontiera. Verso le tre del mattino, dopo una salita faticosissima, credettero di aver raggiunta la cima di quella montagna, essendosi improvvisamente trovati su una specie di altipiano. Continuando però la nebbia a mantenersi fitta, non potevano accertarsene.

Essendo tutti affranti, deliberarono di sostare alcune ore, fino al mattino, se non venivano disturbati. Avendo scorto confusamente, dinanzi a loro una massa oscura che sembrava un bosco, si diressero da quella parte e si trovarono sul margine d’una pineta.

– Fermiamoci qui sotto, – disse il colonnello. – Se i cosacchi verranno, ci sarà facile trovare un rifugio in mezzo al bosco.

– Non si odono più, – disse l’ingegnere.

– Che abbiano rinunciato all’inseguimento? – chiese Maria.

– Non crederlo, sorella mia, – rispose Sergio. – Forse noi ci troviamo molto vicini alla frontiera e ci avranno preceduti per avvertire i posti di guardia.

– Come faremo noi a varcarla?

– Bah!... I posti di guardia sono scaglionati a distanze considerevoli e non potranno accorrere dappertutto. E poi, aspetteremo un’altra notte nebbiosa per passare, a dispetto della loro vigilanza e dei loro fucili.

– E troveremo delle persone che ci aiuteranno al di là della frontiera? – chiese Iwan.

– Vi sono numerose aimaks, ossia tribù di khalkhas.

– Non ci tradiranno, invece di aiutarci?

– No, Iwan, i khalkhas sono ospitali. Ah! Se potessimo sapere su quali montagne ci troviamo e se la frontiera è vicina! Lo sai, tu, jemskik?

– No, padrone, – rispose il cocchiere.

– Allora spettiamo che il nebbione si alzi.

– Speriamo di vedere qualche capanna, – disse Iwan. – Abbiamo lasciato tutto nella slitta e nulla abbiamo da porre sotto i denti.

Si raggrupparono gli uni addosso agli altri, per meglio difendersi dal freddo che si faceva sentire assai acuto su quell’altipiano, e attesero pazientemente che il nebbione si alzasse.

Un profondo silenzio regnava sulla montagna e nelle vallate sottostanti.

Nessun soffio d’aria agitava i bianchi pini che giganteggiavano intorno ai fuggiaschi come immani fantasmi; anche le grida dei cosacchi ed il suono della slitta erano cessati. Solamente di quando in quando, udivasi per aria come un sordo fragore, prodotto dalle possenti ali di qualche grande aquila, precipitantesi nelle vallate vicine.

Quel silenzio però non rassicurava nessuno. Temevano una improvvisa comparsa dei cosacchi e vegliavano attentamente, scrutando il margine dell’altipiano.

Verso le sei, colla comparsa del sole, il nebbione principiò ad alzarsi, ma lentamente. Cominciarono a distinguersi i rami più bassi dei pini, poi gli altri posti più in alto, finalmente le cime, mentre tutto intorno all’altipiano si formava il vuoto.

Mezz’ora dopo, un vigoroso colpo di vento, il quale aveva cominciato a soffiare poco prima dell’alba, cacciò via quelle masse vaporose, spingendole in direzione del Baikal e accumulandole nella sottostante vallata.

Tutti si erano alzati, spingendosi verso il margine opposto dell’altipiano per vedere dove conduceva quel versante. Un grido sfuggì dalle labbra del colonnello:

– La frontiera mongola!...

La montagna scendeva dolcemente verso il sud, distendendo i suoi ultimi scaglioni su di una grande pianura quasi sgombra di neve, ed interrotta da quelle alte erbe che si vedono nelle steppe.

A cinque o sei chilometri, sulla cima di una collinetta che correva dall’est all’ovest, si scorgevano dei pali indicanti la frontiera, e più oltre una specie di torre quadrata, semi-diroccata, col tetto arcuato, irto di punte.

– È un posto mongolo, – disse il colonnello, prevedendo la domanda di tutti.

– Ed i cosacchi? – chiese Maria.

– Non si scorgono.

– Che non siano ancora giunti?

– Purché non ci abbiano teso un agguato fra quei boschi di pini che coprono i fianchi delle colline, – disse l’ingegnere.

– Passeremo egualmente.

– Colonnello! – esclamò in quell’istante lo studente. – Vedo del fumo alzarsi fra quella macchia di larici.

– E dei montoni che pascolano, – aggiunse Dimitri.

– Vi sarà qualche jurta di nomadi, – rispose Sergio. – I khalkhas varcano sovente la frontiera per cercare dei pascoli migliori. Amici, non perdiamo tempo e andiamo a chiedere ospitalità a quei pastori.

– In sella, signora Maria, – gridò Iwan allegramente, facendo alzare il cavallo. – Speriamo di potervi offrire un ricovero e un pranzo.

Dopo essersi bene rassicurati che nella pianura non vi era alcun drappello di cosacchi, si misero in marcia scendendo per un sentieruzzo che pareva fosse stato aperto dagli animali, forse dai montoni dei khalkhas.

Giunti nella pianura, si diressero verso il macchione di larici, attraverso i cui rami si vedevano innalzare delle colonne di fumo. Nei dintorni si vedevano pascolare liberamente due o trecento montoni dalla lunga lana, delle capre col pelo lungo e lucente come la seta, e alcune dozzine di cavalli di statura bassa, coi garretti secchi come bastoni coperti di cuoio, la testa piccola, il ventre stretto; destrieri ammirabili che divorano la via con rapidità prodigiosa e che resistono delle lunghe ore ad un galoppo anche sfrenato.

Senza alcun dubbio quegli animali dovevano appartenere a qualche jurta di khalkhas, essendo quei nomadi tutti pastori e cavalieri insuperabili.

I fuggiaschi si erano appena addentrati fra la macchia di abeti, quando videro sorgere, dietro un cespuglio, un uomo armato di un lungo fucile a pietra. Era di statura media, robustissima, col viso rotondo e di colorito terreo con dei riflessi giallastri, cogli occhi obliqui e assai incassati, col naso schiacciato ed i capelli neri raccolti in una lunga treccia come usano i cinesi.

Indossava una lunga zimarra di grossa lana tinta in azzurro, guarnita superiormente di risvolti di felpa nera, e stretta ai fianchi da un’alta cintura di pelle adorna di fibbie d’argento e sostenente un coltellaccio. Sul capo portava invece un piccolo berretto rotondo, colle teste rialzate e con tre nastri pendenti sulle spalle.

Vedendo quel drappello avanzarsi, armò risolutamente il suo lungo fucile, ma lo abbassò tosto, vedendo il colonnello tendere le mani in segno di pace.

– Non siamo nemici, – disse Sergio. – Siamo russi smarriti che veniamo a chiederti ospitalità.

– Se siete nostri amici, siate i benvenuti, – rispose il pastore. – L’ospitalità dei khalkhas è sacra.

– Vuoi condurci nella tua jurta? Questa donna ha freddo e noi abbiamo fame e siamo stanchi.

– Seguitemi e non avrete a lamentarvi di noi.

Il pastore si gettò ad armacollo il lungo fucile e si mise in cammino, addentrandosi nella piccola foresta.

Il colonnello ed i suoi compagni stavano per seguirlo, quando Dimitri, che si era arrestato per dare un ultimo sguardo alla pianura, comandò loro di arrestarsi.

– Cos’hai, Dimitri? – chiese Sergio, sorpreso ed inquieto.

– Guardate laggiù, padrone.

– I cosacchi! – esclamarono tutti, dopo d’aver guardato nella direzione indicata.

– Sì, mio colonnello, – disse il fedele servo. – I cosacchi che si preparano a tagliarci la via della frontiera.

Infatti, a circa due verste dal piccolo bosco, sfilavano al galoppo dodici cosacchi guidati da un caporale. Si dirigevano verso la collina sulla quale si scorgevano i pali indicanti il confine della Siberia, e precisamente verso il luogo ove sorgeva la vecchia torre mongola.

– Maledizione! – esclamò il colonnello coi denti stretti, gettando uno sguardo disperato sulla sorella.

– Faremo parlare i fucili, signore, – disse l’ingegnere. – Essi sono tredici e noi sei, ma un paio di buone scariche pareggeranno il numero.

– Non possiamo esporre una seconda volta, al fuoco di quelle canaglie, la signora Maria, – disse lo studente.

– Oh! Non li temo i cosacchi, – disse la valorosa giovane.

– Una palla potrebbe cogliervi, signorina.

– Non tutte le palle colpiscono il bersaglio.

– Forzeremo prima noi il passo, – disse l’ingegnere. – Questa notte tenteremo il colpo.

Mentre discorrevano, il pastore si era pure arrestato e aveva scorto i cosacchi. Comprendendo perfettamente il russo, non dovevagli essere sfuggita una sola parola di quel dialogo, ma era rimasto silenzioso, non permettendogli le leggi dell’ospitalità di occuparsi delle faccende degli ospiti se non dietro interrogazione. Però sorrideva, guardando con ammirazione la valorosa giovane e lo studente.

– Hai compreso di cosa si tratta? – gli chiese il colonnello, avendolo veduto sorridere.

– Sì, – rispose il pastore. – I soldati del grande padre bianco v’inseguono.

– È vero; minacciano le nostre esistenze. Noi non vogliamo compromettere la tua tribù, ed esporla a delle rappresaglie da parte dei cosacchi, e ci arresteremo qui.

Il khalkha lo guardò con sorpresa, poi disse:

– Forse che i khalkhas non sanno più difendere i loro ospiti?... Io non so chi voi siate, né perché gli uomini del gran padre bianco dei russi v’inseguono, ma sotto le nostre jurte non dovete temere, poiché gli ospiti nostri sono sacri. Se tu vuoi entra liberamente nelle nostre tende e ti giuro su Buddha che noi tutti difenderemo te ed i tuoi compagni.

– Quei cosacchi possono più tardi punire la tua tribù.

Un sorriso di sprezzo spuntò sulle labbra del fiero nomade.

– Noi non siamo sudditi del gran padre bianco, – disse poi. – Io sono un uomo libero della Khalkha, capo indipendente di quindici jurte, e al di là della frontiera posso ridermi dei cosacchi poiché il mio grido di guerra echeggerebbe fino nei deserti di Sciamo, sollevando tutte le tribù. Voi siete miei ospiti: venite e nessuno oserà toccarvi un solo capello.

– Una parola, uomo generoso, – disse il colonnello.

– Parla.

– Nel mio paese io occupavo una carica elevata, pari a quella dei mandarini di guerra della Cina, e tutti i miei compagni sono persone che non hanno mai né ucciso, né rubato. Il nostro delitto è quello di aver troppo amata la libertà ed il nostro paese e per questo i soldati del gran padre bianco ci hanno trascinati in Siberia. Siamo sfuggiti miracolosamente alle miniere d’Algasithal, mercè il coraggio di questa valorosa donna che è mia sorella. Vuoi aiutarci a varcare la frontiera?... Noi ti daremo tanti rubli, quanti ne vorrai.

– Sappiamo come i soldati del gran padre bianco trattano gli uomini condannati alla deportazione, – disse il khalkha, sorridendo. – Ho salvato già parecchi di quei disgraziati e aiuterò anche voi; ma l’ospitalità presso di noi non si paga. Voi siete miei ospiti: sta bene!... Tocca a me pensare alla vostra salvezza.

– Grazie, – disse il colonnello, commosso. – Non pagheremo l’ospitalità, però ti regaleremo delle armi potenti come le nostre, e ci ricorderemo sempre di te.

– Seguitemi, – disse il capo.

Cinque minuti dopo il drappello giungeva in una radura aperta fra il boschetto di abeti, in mezzo alla quale si rizzavano quindici tende di feltro nero, di forma cilindrica, arrotondata sulla cima, disposte in semi-cerchio attorno ad una tenda assai più vasta e più alta, sulla quale ondeggiava una bandiera adorna d’un drago cogli occhi di corallo.

– Siate i benvenuti fra la mia aimak, – disse il capo.