Gli orrori della Siberia/Capitolo XXXIII – La frontiera mongola

Capitolo XXXIII – La frontiera mongola

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Capitolo XXXIII – La frontiera mongola
Capitolo XXXII – I khalkhas Capitolo XXXIV – La torre cinese

Capitolo XXXIII – La frontiera mongola


I khalkhas, che al pari di tutte le altre razze della Mongolia, come i buriati, gli eulethi, gli ordas, i tsakhari ed i souniti, sono tributari dell’impero cinese, formano una nazione numerosa, la quale occupa la parte settentrionale di quell’immensa regione che dalle montagne degli Altin-tag e del Nam-sciam si estende fino alle frontiere meridionali della Siberia.

Sono disseminati, in piccole tribù, dal deserto di Gobi fino alla Mantsciuria ed ai primi contrafforti del Grande Altai, separate le une dalle altre da grandi distanze, ma possono radunarsi rapidamente se un pericolo le minaccia, essendo tutti i khalkhas abilissimi cavalieri.

Quantunque le regioni da essi occupate siano aride, interrotte solo da magre pianure dove spuntano delle erbe dure, sono tutti pastori e si occupano dell’allevamento dei montoni, dei cavalli e anche dei cammelli. Si dedicano però molto anche alla caccia e, quantunque non posseggano per lo più che delle picche e degli archi, essendo molto scarsi di armi da fuoco, assaltano intrepidamente perfino le tigri, che non sono rare nel grande deserto di Gobi.

Questi pastori non hanno stabile dimora. Quando il territorio comincia a mancare di foraggi, smontano le loro tende o jurte, le caricano sui cammelli o sui cavalli e se ne vanno in cerca di altre terre, spingendosi innanzi i numerosi capi di bestiame.

Del resto, poco basta loro per vivere, costituendo il latte la base del loro nutrimento. Ciò non impedisce che diventino tutti robustissimi e che anche quando hanno raggiunta una tarda età possano percorrere a cavallo perfino venti leghe al giorno.

Si cibano però di carne di montone, di cinghiale e non sdegnano quella dei cammelli e anche dei cavalli, quando questi animali muoiono di malattia.

Non bevono però mai acqua. La loro bevanda è il the, che acquistano dai mercanti cinesi, e per averne sempre di pronto, nelle loro tende non manca mai una caldaia d’acqua bollente. Qualche volta si permettono il lusso di bere anche dei liquori, l’arak ed il koumis bevande spiritose d’importazione cinese.

I nomadi della Mongolia sono soprattutto ospitali, forse più ancora degli arabi. Qualunque straniero può entrare liberamente nelle loro tende, senza essere obbligato a dire chi sia e da dove venga, e prendersi i viveri che meglio gli piacciono, senza domandarne.

Se un mongolo rifiutasse l’ospitalità, dai compagni e dal capo verrebbe costretto, come punizione, a consegnare due capi di bestiame; se lo straniero, per rifiuto di ospitalità, morisse di fame o di freddo, la multa si eleva a nove capi; se poi l’ospitato venisse derubato, il proprietario della tenda in cui è avvenuto il furto deve immediatamente indennizzarlo!...

Cosa davvero strana, quando si pensi che i mongoli, più o meno, sono tutti rapaci e che sovente esercitano il brigantaggio su vasta scala.

. . . . . . . . . . . .

Il capo dei khalkhas, dopo d’aver presentato gli stranieri ai suoi sudditi, una trentina di robusti uomini quasi tutti armati di fucili a pietra, li introdusse nella sua jurta dove stavano le donne abbastanza graziose, malgrado la loro tinta giallastra ed i loro occhi obliqui, vestite come gli uomini, colle trecce adorne di cianfrusaglie d’argento.

Quella tenda era coperta all’intorno di tappeti di grosso feltro. Al centro ardeva il fuoco su cui bolliva un pentolone di rame esalante un delizioso odore di stufato, e in parte una cocoma monumentale contenente l’acqua pel the.

Il mobilio si riduceva a poche casse contenenti, forse, le vestimenta della famiglia, e a due o tre piccoli divani. Vi erano invece delle selle ornate d’argento e di rame, delle pelli di tigre e di cammello, alcuni utensili di ferro per la cucina, alcuni fucili a miccia, delle sciabole corte, e qualche arco e una specie di chitarra a due corde.

Il capo fece accomodare gli stranieri, poi dalle sue donne fece offrire il the in alcune tazze di legno con intarsi d’argento, poi del montone e delle pagnotte di sorgo.

Per ultimo sturò un fiasco di koumis e lo mise dinanzi al colonnello, pregandolo di farlo vuotare da tutta la compagnia, mentre le sue donne offrivano a Maria una grande coppa di latte caldo.

Mentre il colonnello ed i suoi amici bevevano e chiacchieravano, entrarono tre giovanetti muniti di chitarre e collocatisi in un angolo della tenda improvvisarono un concerto che non mancava di una certa originalità, quantunque i loro istrumenti non avessero che due sole corde.

– Questa tenda è un paradiso! – esclamò lo studente, messo in buon umore da quel pasto e da qualche bicchiere di koumis. – Non mi sarei mai aspettato di trovare tanta gentilezza fra questi nomadi.

– L’ospitalità dei mongoli è proverbiale in tutta la Cina, – rispose Sergio.

– E credete che spingano la loro cortesia fino a proteggere la nostra ritirata verso la frontiera?

– Il capo ha promesso di aiutarci e manterrà la parola, Iwan.

– Purché i cosacchi non vengano invece qui a sorprenderci e ci facciano pagare cara questa fermata.

– È vero, – disse Sergio. – Possono aver sospettata la nostra fermata fra i khalkhas.

Poi volgendosi verso il capo che invitava la giovanetta a bere:

– Una parola, capo, – disse.

– Parla, – rispose il khalkha.

– Hai pensato a guardarci dai cosacchi?

Un sorriso sfiorò le labbra del pastore. Si alzò e sollevando la tenda che serviva di porta gli disse:

– Guarda: vedi ancora i cavalli che poco prima pascolavano intorno alle jurte?

– No.

– I miei uomini sono partiti verso la frontiera e sorvegliano le mosse dei cosacchi.

– Credi che questa notte noi possiamo tentare il passaggio?

– Le donne della aimak (tribù) stanno demolendo le armature delle jurte e radunando il bestiame.

– Cosa vuoi dire?

– Ci prepariamo a partire.

– Viene anche la tua tribù con noi?

– Valgono più tre dozzine di uomini che sette od otto persone. Tu hai chiesto ospitalità a noi: dobbiamo quindi condurti in luogo sicuro e proteggerti.

– Tu sei un brav’uomo, – disse Sergio, stringendogli vigorosamente la mano.

– Non sono né migliore né peggiore degli altri. Obbedisco alle leggi dell’ospitalità e null’altro.

– Dubito che altri farebbero tanto per degli stranieri.

– Tutti i khalkhas farebbero altrettanto. Bevi, mangia e non occuparti per ora dei tuoi nemici.

Il bravo capo e le donne, durante tutta la giornata tennero buona compagnia al colonnello ed ai suoi compagni, usando ogni sorta di cortesie, poi, giunta la sera, fecero smontare anche la grande jurta. Tutte le altre erano già state ripiegate e caricate sui cavalli e tutto il bestiame era stato radunato sul margine del boschetto.

Verso le dieci i cavalieri, che erano stati mandati verso la frontiera per sorvegliare le mosse dei cosacchi, tornarono al campo. Recavano la notizia che verso la vecchia torre il passo pareva libero, ma che avevano veduti dei soldati accampati in parecchi luoghi, specialmente alle falde della collina.

– Partiamo, – comandò il capo. – Se vorranno arrestarci, tanto peggio per loro.

– Dove ci dirigeremo? – chiese Sergio.

– Verso la torre, – rispose il khalkha. – Colà vi è un posto di soldati mantsciuri e quegli uomini non permetteranno ai russi di violare il confine, se volessero inseguirci sul territorio mongolo.

Fece dare ai fuggiaschi dei cavalli, i migliori ed i più rapidi, per metterli in grado di gareggiare con vantaggio con quelli dei cosacchi, poi diede il comando di mettersi in marcia.

Il bestiame, guardato da alcuni pastori e da parecchi grossi cani, apriva la marcia, poi venivano le donne, quindi tutti gli altri uomini raggruppati intorno al colonnello ed ai suoi compagni per essere più pronti a difenderli.

L’oscurità della notte favoriva la fuga, essendo il cielo coperto da fitti nuvoloni. I belati delle pecore ed i nitriti dei cavalli potevano allarmare i cosacchi, però i pastori erano ben decisi di far fronte a qualsiasi attacco ed a difendere i loro nuovi amici.

Lasciato il boschetto di abeti, la lunga carovana si diresse verso la collina la cui cima serviva di confine fra i vasti possedimenti dello Czar e quelli non meno immensi dell’Impero cinese.

I pastori, il colonnello ed i suoi compagni aguzzavano gli sguardi verso le piante che coprivano i fianchi dell’altura, però non scorgevano nulla.

Senza dubbio i cosacchi stavano forse esplorando la frontiera da altra parte o s’erano addormentati nei loro accampamenti. Tuttavia Sergio non era affatto tranquillo.

– Temo che ci tendano un agguato, – disse al capo che cavalcava alla sua destra. – È impossibile che non odano i belati delle tue pecore ed i nitriti di tantI cavalli.

– Lo sapremo, – rispose il khalkha. – Vi sono due dei miei uomini in vedetta sulla collina e non tarderanno a venirci incontro.

– Io non temo per la mia vita, essendo un uomo abituato alle guerre, bensì per quella di mia sorella.

– Le palle dei cosacchi non la toccheranno; noi le faremo scudo.

– Taci, capo. Qualcuno scende la collina.

– Vedo uno dei miei uomini che s’avanza correndo, – disse il khalkha, aggrottando la fronte. – Che i russi ci tendano proprio un agguato?... Fortunatamente siamo tutti armati e in buon numero.

Il capo non si era ingannato. Un pastore s’avvicinava a loro, aprendosi il passo fra i montoni e i cavalli che erano stati fermati dai loro guardiani.

– I cosacchi guardano la frontiera, – diss’egli, quando fu vicino al capo.

– Sono giunti ora? – chiese il khalkha.

– Sì, capo.

– Da dove sono venuti?

– Dall’Oriente.

– Quanti sono?

– Una dozzina.

– Occupano la cresta della collina?

– Sì, capo.

– Sta bene.

Poi volgendosi verso il colonnello:

– I cosacchi vorranno vederci in viso uno per uno per accertarsi che non vi sono stranieri fra di noi, quindi bisognerà forzare il passo.

– Io ed i miei compagni siamo pronti a far tuonare i fucili, – rispose Sergio. – E non possiamo evitarli?

– No, poiché non vi è che questo sentiero ed i nostri montoni si sbanderebbero o cadrebbero nei burroni.

– Comanda, capo.

– Ci metteremo alla testa della carovana e tua sorella rimarrà alla retroguardia colle donne della mia tribù. Se i cosacchi vorranno impedirci il passo daremo battaglia e ti farò vedere come si battono i khalkhas.

Poi, rizzandosi sulle corte staffe e alzando il fucile, tuonò:

– Avanti, miei prodi!... Alla retroguardia le donne!...

Sergio ebbe appena il tempo di abbracciare sua sorella. I pastori si erano già lanciati tutti dietro al loro capo, armando i fucili.

– Non temere, Maria, – gridò il colonnello, spronando il cavallo. – Combattiamo per la nostra libertà.

Il drappello attraversò l’ultimo lembo della pianura e si mise alla testa del bestiame, procedendo in tre gruppi.

I cavalli, frenati a stento, si misero a salire il sentiero che conduceva sulla cresta della collina, un sentiero da capre, fiancheggiato da profondi burroni e da gole coperte da una folta vegetazione.

Mezz’ora dopo i cavalieri giungevano su uno stretto altipiano interrotto qua e là da gruppi di abeti e di pini, e s’arrestavano a trecento passi dalla frontiera, indicata da alcuni pali dipinti di rosso.

Dietro di loro salivano i montanari, le capre ed i cavalli, formando una lunga fila che perdevasi sui fianchi della collina.

– Chi vive? – gridò una voce rauca, che partiva da una macchia di pini.

– Nomadi khalkhas, – rispose il capo.

– Fermatevi.

– Attendo.

Poco dopo quattro cosacchi a cavallo uscivano dalla macchia, dirigendosi verso i pastori. Impugnavano lunghe lance e tenevano i loro moschetti dinanzi alla sella.

– Si avanzi il capo, – disse un cosacco, arrestandosi a trenta passi dai pastori.

– Eccomi, – rispose il khalkha, facendosi innanzi.

– Dove vai?

– Sul territorio cinese.

– A quest’ora?

– Devo raggiungere la mia tribù che all’alba parte per le regioni del deserto.

– D’ordine del governatore d’Irkutsk, non si può varcare la frontiera senza uno speciale permesso.

– Io sono mongolo e non suddito russo e ciò non mi riguarda.

– Chi ti ha dato l’ordine di passare sul nostro territorio?

– Me lo sono preso io il permesso.

– E allora rimarrai sul nostro territorio.

– I khalkhas da secoli varcano la frontiera e la varcherò anche oggi.

– Te lo impediremo.

– Provati, se l’osi.

– Capo, – disse il cosacco, con voce minacciosa. – Sai che la tua fretta di lasciare la Transbaikalia mi mette dei sospetti?

– E quali?

– Che tu conduca alcuni di quei cani fuggiti dalle miniere.

– Non conduco che i miei cani incaricati di guardare i miei montoni, – rispose il capo.

– Tu ti burli di noi! – urlò il cosacco furioso.

– Basta, – urlò a sua volta il capo. – Lasciami il passo; ho fretta di raggiungere la mia tribù.

– A me, cosacchi!...

– A me, khalkhas!...

Otto soldati che si tenevano imboscati in mezzo ai pini si slanciarono fuori colle lance in resta, pronti a caricare, mentre i pastori si stringevano attorno al capo.

– Amici! – gridò Sergio. – Fuoco!...

Prima che i cosacchi potessero piombare sul gruppo, quindici o venti detonazioni echeggiarono e stramazzarono a terra sei cavalli e cinque uomini. I superstiti, sorpresi e spaventati per quella strage, esitarono un momento; poi ripresero la corsa supponendo forse che ai khalkhas mancasse il tempo di ricaricare le armi, ma Sergio ed i suoi compagni, possedevano delle armi a retrocarica.

Schieratisi dinanzi ai pastori che stavano estraendo le loro corte sciabole per caricare alla loro volta, ricominciarono il fuoco, facendo stramazzare altri tre cavalli coi loro cavalieri.

Gli altri quattro, vedendo ormai la partita perduta, fuggirono ventre a terra scomparendo in mezzo ai boschi.

– Avanti! – tuonò il capo. – Affrettiamoci o fra mezz’ora avremo addosso uno stormo di cosacchi.

I pastori si dispersero aizzando il bestiame, mentre Sergio, Maria ed i suoi compagni, che li avevano presto raggiunti, ricaricarono frettolosamente le armi.

Già non distavano che duecento passi dalla frontiera, quando si udì il capo dei khalkhas gettare un urlo di furore.

– Cos’hai? – chiese il colonnello.

– Guarda! – rispose il capo.

Una lunga linea nera si avanzava con fantastica rapidità salendo la cresta della frontiera, mentre un’altra usciva dal bosco.

– I cosacchi! – esclamò il colonnello con voce rauca per la collera.

– E ci piombano addosso.

– Cosa fare?

– Volete un consiglio?...

– Dite.

– Mentre io cerco di far fronte ai cosacchi, voi ed i vostri compagni fuggite attraverso le mandrie e cercate di guadagnare il torrione cinese.

– Vi sono dei soldati mongoli colà?

– Lo credo.

– Non ci respingeranno?...

– Bah!... Sono soldati troppo paurosi per impedirvi di entrare. Presto, fuggite prima che i cosacchi ci chiudano il passo.

– Ci rivedremo?...

– Vi aspetto sul territorio mongolo.

Il khalkha strinse la mano al colonnello, indicandogli un’ultima volta il torrione cinese, poi raccogliendo le briglie ed impugnando la sua larga scimitarra, gridò:

– Avanti, miei bravi!...

I cosacchi non erano lontani che tre o quattrocento passi e si preparavano ad attaccare i nomadi. L’ufficiale che comandava lo squadrone, prima di dare il segnale della carica, fece intimare l’alt, onde evitare una strage.

Il capo dei khalkhas guardò dietro di sé e non scorgendo più il colonnello ed i suoi compagni, urlò con voce formidabile:

– Diamo addosso a quei cani!... I nostri ospiti ormai sono in salvo!

I nomadi si slanciarono furiosamente addosso allo squadrone che era sceso dalle creste della frontiera, urlando e scaricando i loro lunghi fucili.

L’urto fu così violento e così improvviso, che i cosacchi non ressero. Lo squadrone fu tagliato per metà e attraverso a quella breccia si scagliarono i nomadi sciabolando a destra ed a manca, e spronando vivamente i cavalli per varcare la frontiera prima che giungessero i cosacchi che erano usciti dalla foresta.

– Avanti, miei bravi!... – urlò il capo. – Alla torre!... Alla torre!...

Lo squadrone rimessosi dalla sorpresa, s’era subito gettato sulle tracce dei nomadi, ma s’era trovato dinanzi alla turba delle donne ed alle mandrie.

Gli animali, destramente guidati dalle donne dei khalkhas, si erano gettati fra i fuggiaschi e gli assalitori, formando una immensa barriera che lì per lì non si poteva né attraversare, né sfondare.

I nomadi, protetti alle spalle, salirono al galoppo le alture cercando di accostarsi al torrione onde cercare, possibilmente, di porgere aiuto agli ospiti e condurli al di là della frontiera. Il loro progetto però doveva fallire in causa del secondo squadrone che saliva la collina costeggiando il margine della foresta.

Vedendosi in procinto di venire nuovamente assaliti, varcarono la frontiera e s’allontanarono ventre a terra, lasciando nelle mani dei cosacchi le loro donne e le loro mandrie.

Prima però di mettere i piedi sul territorio cinese, il capo si era voltato verso i cosacchi gridando loro, con un gesto di minaccia:

– Ci rivedremo presto, cani della steppa!... I khalkhas del deserto mangeranno i lupi del padre bianco!...