Gli orrori della Siberia/Capitolo VI – Il pellegrino
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Capitolo VI – Il pellegrino
Vileulovsk è una misera borgata che non ha altra importanza che di essere la prima tappa per le carovane di forzati e di esiliati, che da Tobolsk vanno a Omsk, e quindi a Tomsk, per proseguire poi per Irkutsk. Non conta che una cinquantina di casupole costruite di tronchi d’albero, di isbe, come si chiamano in Siberia, ed un vasto ed immondo carcere, la tappa dei forzati.
La sua popolazione non ammonta che ad un centinaio e mezzo di anime, composta per lo più di tartari calmucchi, uomini di media statura, ma ben proporzionati, robusti, colle ossa facciali assai prominenti, gli occhi obliqui come quelli dei cinesi, il naso schiacciato, le labbra grosse e carnose.
Questa razza, che occupa buona parte delle steppe meridionali, è ospitale, laboriosa, leale e si occupa dell’allevamento del bestiame. È forse una di quelle che ha dato meno da fare al governo russo, di tutte le altre che occupano quella sterminata regione.
La tarantassa, attraversata la borgata sempre di gran galoppo, s’arrestò dinanzi alla tappa. I cosacchi fecero scendere brutalmente i due prigionieri e li spinsero in un vasto camerone, rischiarato da piccole finestre difese da grosse inferriate, occupato in gran parte da un lunghissimo tavolato, e col suolo coperto da un fango nero e attaccaticcio che esalava un odore pestilenziale.
– È la tappa degli esiliati, – disse Sergio allo studente, che si era appoggiato al tavolato, come se fosse stato colto da un improvviso malore.
– Questo!... – esclamò Iwan. – Io lo chiamerei un porcile. Qui dentro gl’insetti devono brulicare a milioni.
– Bisogna abituarsi, mio povero amico. Questa tappa è un palazzo e saremmo ingrati a dolerci ora. Aspettate di aver raggiunto la catena vivente; allora saprete che cosa è la vera tappa. Rosicchiamo il nostro pane e procuriamo di dormire, poiché domani non ci arresteremo che a Camisceuk, sulla via di Tiumen.
– Ma fin dove ci conducono?
– Mi hanno detto che la catena vivente doveva trovarsi ieri a Kolywan, a mezza strada fra Omsk e Tomsk, quindi non la raggiungeremo che in quest’ultima città, oppure a Marünsk.
– Dovremo quindi galoppare ancora molto.
– Cinque o sei giorni.
– Raggiungeremo la colonna colle costole fracassate.
– Vorrei raggiungerla a Irkutsk colle reni spezzate: quante sofferenze di meno!... Orsù, non pensiamoci e cerchiamo di dormire fin che abbiamo tempo.
Quantunque lo studente fosse ben disposto a fare una bella dormita, per riposare il corpo fracassato dai trabalzi disordinati della malcomoda tarantassa, penò assai a chiudere gli occhi. Il fango nerastro di quella prigione esalava tali miasmi pestilenziali, che si sentiva asfissiare; erano odori acri, nauseabondi, prodotti probabilmente dagli escrementi lasciati là ad imputridire dalla colonna dei forzati che aveva dovuto ricoverarsi colà pochi giorni innanzi. Inoltre il tavolato pullulava d’insetti, di pidocchi e di cimici, lasciativi dai disgraziati che vi avevano dormito, e tormentavano senza posa il povero studente ed il colonnello.
La stanchezza però ben presto trionfò ed entrambi caddero in un sonno di piombo che si prolungò fino all’alba.
Divorata una poltiglia di farina di segala mal cucinata, cibo ordinario degli esiliati e dei forzati, risalirono sulla tarantassa, alla quale erano stati attaccati tre nuovi cavalli forniti dal mastro di posta. Un altro cocchiere la guidava, era un jemskik di professione, il quale indossava il cappotto a mostre incrociate sopra i bottoni colla cifra imperiale, stretto da una cintola di panno rosso ed il cappello colle tese rialzate.
La scorta era già a cavallo, ma anch’essa aveva cambiato corsieri, prendendo i migliori della borgata. Il freddo era acuto, reso più aspro da un vento tagliente che faceva arrossire i nasi e gli orecchi; il sole però splendeva, non già quel bel sole dorato che si ammira nei nostri paesi, anche durante le più rigide giornate invernali, ma pallidissimo, quasi bianco, come si vede sempre in Siberia dopo le prime nevicate.
Il cielo era d’una purezza ammirabile, poiché quella immensa regione può vantarsi di avere il cielo più limpido di tutte le altre, tale anzi che è il più adatto per fare le più minuziose osservazioni astronomiche. La tarantassa, spinta a corsa sfrenata, dopo d’aver attraversato su di un ponte di chiatte un affluente dell’Irtish, si slanciò sulla strada di Camisceuk. I cavalli, coi ferri da ghiaccio, galoppavano bene su quella pianura nevosa, che cominciava ad indurirsi sotto il freddo acuto che soffiava dalle regioni settentrionali.
Alcuni calmucchi, che riconducevano i loro armenti verso le regioni meridionali, in cerca di climi più miti, apparivano di quando in quando sull’orlo delle steppe, attirati dalle grida selvagge della scorta, dal galoppo di quegli undici cavalli e dal campanello sospeso alla duga che suonava disperatamente.
Indossavano i loro strani e pittoreschi costumi consistenti in lunghe zimarre ricamate, chiamate bechmet, sovrapposte ad un’altra più corta, la hitaika, ed in grandi berrettoni di pelle, che lasciavano sfuggire le lunghe trecce dei capelli. Erano tutti armati di lunghi moschettoni, per lo più a pietra e qualcuno perfino a miccia.
Si vedevano pure, fra quei pastori nomadi, delle donne che indossavano dei bechmet aperti sul dinanzi, vesti che portano solamente nell’inverno.
Avevano sul capo degli alti cappelli di seta finissima, detti scialban, ed agli orecchi pesanti pendenti d’argento.
In breve però la steppa deserta riprese il suo impero e sparve ogni traccia d’abitanti. Ricominciavano allora i terreni acquitrinosi che seguono il corso dell’Irtish fino al di sotto di Semipalat, cioè fino ai primi contrafforti della catena dei Grandi Altai.
Il freddo intanto diventava sempre più pungente e faceva soffrire assai i due prigionieri, che non indossavano che le loro vesti ordinarie, e che, incatenati come erano, non potevano muoversi. Lo studente specialmente, abituato al tiepido clima di Odessa, si lagnava assai.
– Cane d’un paese! – esclamava di tratto in tratto, cercando di affondare la testa nelle spalle, per ripararsi gli orecchi. – Cominciano per tempo i freddi, in Siberia!
– E questo è ancora nulla. Me lo saprete dire questo gennaio, – rispondeva il colonnello.
– Perderò il naso.
– Speriamo però per quell’epoca di essere giunti alle miniere.
– Quale temperatura raggiungerà il freddo?
– Quella ordinaria è di trenta a trentacinque gradi Réaumur, ma la Siberia vanta di possedere il paese più freddo del mondo.
– Più freddo delle regioni polari?
– Sì, Iwan. Prima si credeva che fosse Iakoustk, ma ora si è constatato che è Warciojanslc, poiché colà il termometro scende a cinquantasette ed anche a sessanta gradi sotto zero.
– Ma come si può vivere in quel villaggio? Gli abitanti fuggiranno più al sud all’avvicinarsi dell’inverno.
– Niente affatto, Iwan.
– L’atmosfera deve essere irrespirabile.
– No, però diventa senza dubbio più densa ad una certa altezza, poiché fu veduto un giorno un corvo che, volando, lasciava dietro di sé come una traccia, una lunga striscia nebbiosa candidissima.
– Quali tremendi effetti si devono provare a simili temperature, colonnello?
– Dolorosi, Iwan. A quarantacinque gradi sotto lo zero la respirazione diventa difficile, gli occhi si riempiono di lagrime, le quali non tardano a trasformarsi in piccoli grani di ghiaccio; il fiato si cristallizza sui baffi e sulla barba; tutte le facoltà sono come annichilite, gli occhi diventano torvi ed una sonnolenza continua, una specie di torpore, invade gli uomini più robusti.
– Che cosa dovranno provare gli abitanti di Warciojansk quando il termometro scende a sessanta gradi?
– Sono costretti a chiudersi in casa e non uscirne più, sotto pena di vedersi gelare il naso o le estremità dei piedi e delle mani.
– Pericolo che correremo anche noi, se questa corsa indiavolata continua per parecchi giorni ed il freddo aumenta. Guardate: ecco che comincia a nevicare. Speriamo che questi dannati cosacchi cerchino qualche rifugio.
– Speranze deluse, Iwan. I cosacchi non temono né il freddo, né la neve e continueranno la loro corsa.
– Ed i cavalli?
– Bah! I cavalli siberiani sono abituati e non rallenteranno. Cerchiamo di ripararci alla meglio sotto il mantice e speriamo di giungere presto alla tappa.
La tappa invece pareva che non dovesse apparire tanto presto, poiché la neve, che cadeva ormai a larghe falde, rendeva malagevole il cammino alla tarantassa, le cui ruote affondavano in quello strato tenero. Mezz’ora era stata sufficiente per coprire la neve, caduta nei giorni precedenti e già indurita, d’un vero strato alto quasi mezzo metro, tanto cadeva fitta quella nuova.
A mezzodì, malgrado tutti gli sforzi dei cavalli e le grida e le frustate dell’jemskik, la tarantassa, aveva non solo da raggiungere ancora la grande via che da Tiumen va a Omsk, tagliando quella che scende da Tobolsk; ma non aveva nemmeno riattraversato l’affluente dell’Irtish. I cosacchi, che temevano di dover passare la notte all’aperto, senza un sorso di vodka, abbreviarono la fermata e si misero in sella appena terminato il magro pasto, eccitando vivamente i cavalli colle fruste e cogli speroni.
Fatica vana. Se i cavalli, provveduti di ferri da ghiaccio, potevano trottare celermente, la tarantassa affondava sempre più nella neve, che un impetuoso vento del settentrione accumulava sulla Wladimirka. Sarebbe stata necessaria una slitta, ma attraversavano allora una regione affatto deserta, una steppa desolata, priva non solo di posti di ricambio ma anche di abitanti.
Alla sera, la strada di Tiumen non era stata ancora raggiunta. La neve continuava a cadere con furia incredibile, intirizzendo uomini ed animali, il vento gelato soffiava senza posa accumulandola dinanzi ai cavalli e fra le alte erbe della steppa si udivano i primi e cupi ululati dei lupi. Già delle forme nere si vedevano apparire e scomparire con fantastica rapidità, sulla candida superficie.
– Dove andremo a dormire questa notte? – chiese Iwan, che si rannicchiava addosso al colonnello, battendo i denti.
– Non lo so, – rispose Sergio, – di certo non a Camisceuk. I cavalli sono sfiniti e la tarantassa non può più avanzare.
– Per centomila fulmini! – gridò lo studente, volgendosi verso la scorta. – Ne ho abbastanza di questo freddo e suppongo che non abbiate l’intenzione di farci crepare.
– Zitto là, – rispose ruvidamente il capo dei cosacchi. – Credi tu che noi abbiamo caldo?
– Allora fermiamoci. Io sono tutto gelato.
– Bah! Un posselentsy di meno.
– Ah! Canaglia!...
– Un fuoco! – esclamò in quell’istante l’jemskik.
– Che vi sia un’isba laggiù? – chiese il capo dei cosacchi. – Vi fosse almeno un barilotto di vodka da vuotare!... Sarebbe il benvenuto con questo freddo cane. Fila diritto su quel fuoco, e voi altri, tenete pronti i fucili e le lance. Non si sa mai ciò che può accadere in questo paese; possono essere ghirghisi predoni e fors’anche dei brod’agà1.
Sull’orlo d’un bosco di pini, si vedeva infatti brillare, attraverso ai grossi tronchi degli alberi, una viva luce che pareva prodotta da un falò.
Chi potevano essere gli uomini che accampavano all’aperto, fra quell’uragano di neve ed i lupi minaccianti? Un mugichs2 no di certo, poiché non avrebbe osato abbandonare la sua calda isba con quel freddo.
La tarantassa, affondando nella neve o trabalzando sui rialzi del suolo, si diresse verso il bosco, mentre i cosacchi, schieratisi a destra ed a sinistra, armavano rapidamente i fucili.
Erano già giunti a soli cinquanta passi dal fuoco, quando dinanzi alla cortina di fiamme si vide spiccare un vecchio d’alta statura, con una lunga barba bianca, coperto da una grossa zimarra di panno bigio e da un alto cappello villoso.
– Chi vive? – chiese il capo della scorta, alzando il fucile.
– Chi è colui che Dio manda? – chiese invece quel vecchio.
– Cosacchi.
– Siano i benvenuti attorno al mio fuoco. Non posso offrire né pane né sale, come impongono i doveri dell’ospitalità; ma Bogadoroff è un povero pellegrino.
– Che Dio sia con te, sant’uomo, – rispose il capo della scorta. – Almeno questa notte i lupi non ti mangeranno.
La tarantassa ed i cosacchi erano giunti sul margine della foresta. Il capo della scorta balzò da cavallo ed avvicinatosi al vecchio, lo squadrò da capo a piedi con vivo interesse.
– Non saresti un furbacchione? – gli chiese bruscamente.
– Perché questa domanda? – chiese il vecchio.
– Bah! Ci sono dei forzati che fuggono di quando in quando.
– Non scorgi presso il fuoco la cassetta delle elemosine?... Contiene duemilaseicento rubli per erigere una chiesa a Ostrog.
Udendo il nome di quella città, il colonnello che non aveva perduto una sillaba; ebbe un tale sussulto che Iwan se ne accorse e lo guardò come per chiedergli il motivo.
Sergio rispose con un rapido gesto che voleva dire: «Silenzio ora».
– Ah! – riprese il capo della scorta. – Tu sei un polacco.
– Sì.
– Hai fatto un bel viaggio. Da quanto cammini?
– Da due anni.
– Fin dove sei stato?
– A Irkutsk.
– Ed ora ritorni in Russia?
– Sì, e per la via più breve. La somma raccolta basta per l’erezione della chiesa, e poi sono vecchio ed affranto.
– Hai la podarosnaia3 della Corona?
Il vecchio pellegrino estrasse, da una tasca interna della sua lunga zimarra, una carta untuosa, e la porse al cosacco che la guardò con grande attenzione.
– Va bene, – disse poi, restituendola. – Tu sei veramente un pellegrino. Accettiamo la tua modesta ospitalità.