Gli orrori della Siberia/Capitolo V – Fra le steppe della Baraba

Capitolo V – Fra le steppe della Baraba

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Capitolo V – Fra le steppe della Baraba
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Capitolo V – Fra le steppe della Baraba


L’indomani, ai primi albori, una tarantassa tirata da tre cavalli e scortata da otto cosacchi montati su piccoli destrieri, col pelo lungo, gli occhi vivaci, le zampe robuste, attraversava di gran corsa la città, dirigendosi verso l’immensa steppa biancheggiante all’orizzonte.

Le tarantasse in uso in Russia ed in Siberia, sono specie di carrette costruite con una semplicità ammirabile, che permette di accomodarle sull’orlo di qualunque foresta, se avviene qualche rottura. Si compongono di lunghe e flessibili traverse di pino bianco, appena squadrate, sostenenti una cassa piuttosto ampia, pure di legno, riparata, ma molto imperfettamente, da un mantice di pelle.

Quattro ruote sorreggono quel rotabile abbastanza primitivo, privo di molle, imprimendo ai poveri diavoli che le montano, delle scosse brusche, dei trabalzi disordinati, che finiscono, dopo alcune ore, per spezzare o poco meno le loro reni.

Quella che attraversava di gran galoppo e con un fracasso indemoniato le vie mal selciate di Tobolsk, era montata da un colossale jemskik, ossia da un cocchiere coperto d’una veste di pelle di renna che doveva garantirlo contro il freddo, e da un alto berrettone di pelle di lupo, e dai due prigionieri, solidamente incatenati, in maniera che potevano appena muovere le gambe e le braccia.

Erano però entrambi tranquilli e non dimostravano alcuna velleità di rivolta, cosa del resto impossibile con quella scorta armata fino ai denti che galoppava attorno alla tarantassa, senza perdere di vista uno solo dei loro gesti.

Guardavano distrattamente le case che fuggivano rapidamente a destra ed a sinistra ed i radi passanti che camminavano stentatamente fra la neve già alta, e non ancora rassodata, che ingombrava le vie.

I tre piccoli cavalli villosi, eccitati dall’jemskik che faceva scoppiettare la corta e robusta frusta, in pochi istanti attraversarono il borgo orientale ed oltrepassato l’ultimo posto di guardia, si slanciarono di galoppo sull’immensa e nevosa steppa che s’apriva dinanzi a loro, perdendosi verso l’est.

La Wladimirka, ossia la grande strada siberiana battuta dalle colonne dei forzati, che da Ekaterimburgo corre fino all’estremità di quel vasto impero, seguendo la linea telegrafica che tocca Kassimew, Ickim, Omsk, Elamsk Kolywan, Tomsk, Krasnoiarsk, Nisne-Udinsk, Verkne, Nertsckink, Streliuk, Albazine, Blagowstenks, Radde, Orlomskaya, Alesandrowska e Nikolawsk, si delineava nettamente fra le alte erbe della steppa, già irte di ghiacciuoli, segnalata da pali collocati di distanza in distanza.

Gruppi di pini si rizzavano qua e là, sull’orlo di ampi stagni già coperti da uno spesso strato di ghiaccio, quantunque l’inverno fosse appena cominciato, e ad intervalli, ma a grandi distanze, appariva su quell’immenso manto bianco qualche piccola isba1 dalla cui cima alzavasi, rigido come una sbarra di metallo, un filo di fumo. Qualche contadino si vedeva pure, occupato a tagliare legna, fra i gruppi di cedri che crescevano nelle paludi a fondo roccioso od a raccogliere gli ultimi piselli maturati stentatamente in mezzo alle prime nevicate.

Ben presto alberi, capanne e uomini scomparvero, e dinanzi alla tarantassa ed alla scorta galoppante, non apparve che l’immensa, smisurata steppa, interrotta da radi gruppi di salici, di betulle, di larici, di pini, ma coperta da un’erba fitta, già rigida pel gelo e tanto alta che un uomo avrebbe potuto nascondervisi in mezzo assieme al suo cavallo.

Larghi e numerosissimi stagni e paludi immense si distendevano a destra ed a sinistra della Wladimirka, già coperti da uno strato di solido ghiaccio, sopra il quale volteggiavano, emettendo grida rauche e discordi, bande innumerevoli di oche selvatiche, di anitre, di gabbiani, di cigni grossissimi e di pellicani.

I prigionieri e la loro scorta attraversavano allora quella desolata e quasi deserta regione che si chiama la Baraba.

La steppa della Baraba stende le sue pianure erbose e paludose dall’Irtish all’Obi meridionale e verso il nord risale fino all’Omsk.

È una specie di deserto non già di sabbia, bensì di graminacee d’un verde cupo, costellato qua e là dalle macchie biancastre delle betulle, e di ortiche gigantesche, alte quanto un uomo a cavallo, attraversato da una infinità di paludi che servono di serbatoio a tutte le acque piovane che non trovano sfogo nell’Obi o nell’Irtish.

Tutto quell’immenso tratto di terra è piano, senza la più lieve altura, argilloso o torboso, difficilissimo ad attraversarsi. Non vi è che una sola via che lo solchi, la Wladimirka, la quale sovente passa sopra zatteroni dondolanti, fatti costruire dal governo russo, con grandi spese e molte fatiche.

In estate il soggiorno od anche la traversata della Baraba è quasi impossibile, in causa di milioni e milioni di voracissimi tafani che ronzano sopra quei terreni acquitrinosi e malefici. Sono tanti e così avidi di sangue, che per affrontarli impunemente i viaggiatori sono costretti a premunirsi d’una specie di maschera e di guanti di crini.

Tuttavia vi sono degli abitanti, appartenenti per lo più alle tribù meridionali dei samoiedi e dei ghirghisi. Allevano grandi bande di bestiame, ma sono costretti a mantenere giorno e notte dei grandi fuochi di legno verde ed a tenersi sempre sottovento di quelle colonne di fumo se vogliono difendere sé stessi e gli armenti dalle crudeli punture dei tafani.

D’inverno invece la traversata è più facile, poiché tutti quegli acquitrini gelano, i tafani muoiono e le tarantasse o le slitte possono, volendo, abbandonare anche la Wladimirka e prendere delle scorciatoie.

– Che desolazione! – esclamava Iwan, che guardava con vivo interesse quella regione, ormai tutta coperta di neve. – Si sente stringere il cuore.

– Ma quali ricchezze si potrebbero trarre qui, se il governo russo lo volesse, – disse Sergio. – Quali fertilissimi terreni da coltivare vi troverebbero dei bravi contadini, se tutte queste paludi avessero uno sfogo!

– Bah! Il nostro governo ha ben altro da pensare. È troppo ricco di terre per occuparsi del miglioramento della Siberia. Pure quanta popolazione vi potrebbe stare qui!

– La Siberia potrebbe nutrire per lo meno cinquanta milioni di abitanti, Iwan.

– Si dice però che la Siberia settentrionale è spaventosa, colonnello, ed anche inabitabile.

– Spaventosa sì, poiché sulle coste settentrionali non possono crescere che i pini bianchi ed i pioppi balsamiferi, ma inabitabile, no, Iwan, ve lo assicuro. Forse che non vi sono numerose tribù al nord?... I samoiedi settentrionali non occupano che le coste, una parte degli ostiaki pure, gli yakuti vivono presso il grande delta della Lena, gli youkaghiri quello del Kolima, i koriaki ed i ciuki tutta la costa che va fino allo stretto di Behring.

– Devono condurre un’esistenza miserabile, colonnello.

– Al contrario, Iwan. Quantunque nulla possano ricavare dalla terra, trovano il loro alimento e anche la loro ricchezza sul mare e nella caccia. Sono abili pescatori, grandi cacciatori ed anche buoni pastori. Uccidono le gigantesche balene, le foche, le morse e tutti gli animali da pelliccia, e voi sapete che fra questi ve ne sono di quelli che si pagano cari. Vi sono delle pelli di lontra che costano bene perfino cinquecento rubli2.

– E la Siberia centrale e quella meridionale sono coltivate?

– In piccolissima parte, poiché quasi tutti gli abitanti hanno un odio profondo pei lavori agricoli. Non vi sono che pochi russi e pochi tartari che dissodano una parte delle terre presso l’Jenissei; tutti gli altri si occupano ad allevare bestiame od a cacciare od a lavorare le miniere.

– È molto ricca di miniere la Siberia?

– Assai, Iwan. Ne ha delle inesauribili, come quelle di Nerciusk, di Zmeiogorsk, di Darnaul, di Kolgavan, di Beresow sulla Lena, di Smeiow e quelle del Baikal. Ve ne sono di rame, di oro, d’argento, di ferro, ed in certune si trovano numerosi smeraldi. Il governo russo ricava in media dai trentasette ai quaranta milioni all’anno.

– E sono tutte lavorate dai forzati?

– No, ma in gran parte.

– Ditemi, colonnello, sono molti gli esiliati che si trovano in Siberia?

– Si calcolano a trecentomila. Nel 1835 erano novantanovemila, fra cui ventimila donne, ma da quell’epoca sono aumentati spaventosamente. Le insurrezioni polacche ed il nichilismo hanno dato un grosso contingente.

– E sono parecchi secoli che il governo russo continua a mandare carovane d’infelici a marcire in fondo alle miniere?

– Dal 1697, ed il primo forzato che provò gli orrori della Siberia fu Samoiloff, d’Uhrania, che fu esiliato a Tobolsk. La pena dell’esilio però ben presto decadde e non fu rimessa in vigore, ma con molta lena, che nel 1799.

– Spera forse il governo di popolare la Siberia coi forzati e cogli esiliati.

– È stato sempre il suo sogno, ma non si avvererà mai, Iwan. I duri lavori delle miniere, le sofferenze, i maltrattamenti e le lunghe eterne e penose marce, fanno dei vuoti spaventevoli fra gli esiliati ed i forzati. È quasi un secolo che la Russia manda senza posa numerose carovane, eppure la popolazione è quasi stazionaria, poiché anche oggi non supera i quattro milioni.

– Una miseria di fronte a così vasta regione.

– Una vera miseria, Iwan, quando si pensa che questa regione ha una superficie di ben 12 406 955 chilometri quadrati.

– Un terzo dell’Asia.

– Abbondante.

Mentre così discorrevano, tranquilli come se facessero una gita di piacere od un viaggio d’istruzione, anziché forzato, la tarantassa, trascinata in una corsa vertiginosa, correva sulla sconfinata steppa, sollevando turbini di nevischio che scintillavano sotto i pallidi raggi di sole come miriadi di diamanti.

I tre cavalli, eccitati dall’jemskik, non rallentavano un istante: quello di mezzo, che sosteneva la duga3 facendo tintinnare vivamente il campanello appeso sotto l’arco, filava diritto essendo trattenuto fra le stanghe, e gli altri due, trattenuti da sole tirelle, galoppavano ai suoi fianchi, volgendo di quando in quando il capo verso il cocchiere, quasi attendessero un segnale per accelerare o per arrestarsi.

La scorta non abbandonava un solo istante la tarantassa. Quei cosacchi, valenti cavalieri quanto i gauchos della pampa argentina od i cow-boys del Far-West, spronavano senza posa le loro piccole cavalcature, procurando che non affondassero nella neve che era ancora poco solida. Mandavano di quando in quando selvaggi clamori, come i loro connazionali delle steppe del Don, e si divertivano a gettare in aria le loro lunghe lance od i loro fucili adorni di lunghi peli, riprendendo le une o gli altri di volo.

A mezzodì, dopo una corsa furiosa di sei ore, la tarantassa sostava presso una piccola foresta di pini, sull’orlo di un grande stagno già coperto di ghiaccio. Era necessario dare un po’ di riposo alle povere bestie, che non potevano venire cambiate che a Vileulovsk, prima tappa fra Tobolsk ed Omsk.

I cosacchi gettarono ai cavalli alcune bracciate di graminacee semi-gelate, tagliate sull’orlo della steppa, diedero ai prigionieri due pani secchi e un po’ di pesce salato, quindi si sdraiarono in mezzo alla neve come veri orsi bianchi, divorando la loro parca colazione che innaffiarono però abbondantemente con acquavite di segala. Manco a dirlo i due prigionieri dovettero accontentarsi di fiutarla da lontano. Quei cosacchi, bevitori inestinguibili, avrebbero piuttosto dato loro le proprie vesti che un sorso dell’ardente liquore.

Alle due riprendevano la corsa indiavolata, passando attraverso a paludi senza limiti, sopra immensi zatteroni gettati su quei terreni acquitrinosi e che oscillavano e crepitavano sotto il peso dei cavalli e dei cavalieri, ed al tramonto giungevano alle prime case di Vileulovsk.


Note

  1. Capanna di tronchi d’albero.
  2. Il rublo vale lire 3,75.
  3. Semicerchio di legno, in forma di ferro di cavallo, che si applica all’animale di mezzo della slitta. Sostiene la briglia e porta nel mezzo un campanello.