Gli orrori della Siberia/Capitolo VII – Una confidenza segreta
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo VI – Il pellegrino | Capitolo VIII – Da Omsk a Tomsk | ► |
Capitolo VII – Una confidenza segreta
Il vecchio Bogadoroff era realmente uno di quei pellegrini che intraprendono dei viaggi straordinari, che durano degli anni interi, spinti dalla fede e dal desiderio di dotare il loro villaggio natìo d’una chiesa.
Come già si sa, i contadini russi, in generale sono poveri, ma altrettanto religiosi. Fondato un nuovo villaggio, il loro primo pensiero è di avere una chiesa, ma malgrado tutta la loro buona volontà, mancano i mezzi necessari per erigerla. Due o tremila rubli sono una somma troppo grossa per quei poveri diavoli, che una parte dell’anno si trovano alle prese colla fame.
È necessario quindi l’aiuto degli altri. Gli anziani del villaggio si raccolgono, scelgono l’uomo più devoto, più fedele ed il più robusto, gli affidano una cassetta chiusa a chiave che non potrà aprirsi che al ritorno, ed il pellegrino parte con un solo bastone per sua difesa ed una pelle di montone per riparo contro le piogge e le nevi.
Dove andrà? Chi può dirlo? Quando ritornerà? Nessuno lo sa, nemmeno lui, perché se non ha raccolto la somma necessaria, non si presenterà agli anziani della borgata.
Va, cammina, cammina per monti e per valli, attraversa fiumi giganti e steppe sconfinate, vivendo di carità; attraversa le borgate più umili e le città opulenti, chiedendo l’elemosina per l’erezione della chiesa; attraversa i monti Urali e scende nell’immensa Siberia. Sfida senza lagnarsi i rigori dell’inverno e le punture atroci dei tafani estivi, la neve ed il sole, le piogge e la polvere, i lupi ed i predoni delle steppe siberiane, ma non s’arresta mai e cammina, cammina sempre, come l’ebreo errante. Il russo è troppo religioso per rifiutare l’elemosina al povero pellegrino che soffre, che si sfibra, che si martorizza per la sua futura chiesa e i rubli e talvolta le aquile1 riempiono a poco a poco la cassetta, che egli non può aprire e che d’altronde non oserebbe toccare, anche se fosse morente di fame.
Dopo un anno, dopo due, dopo quattro forse, dopo d’aver girato tutta quanta l’immensa Russia e buona parte della Siberia, ritorna al paese natio, felice perché ha raccolto la somma necessaria, ma moribondo forse pei disagi e le sofferenze sopportate. Ben pochi resistono, e per lo più, ritornati all’antico focolare, muoiono poco dopo, ma che importa? La chiesa verrà costruita e gli abitanti del villaggio si rimanderanno di padre in figlio il nome del povero pellegrino.
Il vecchio Bogadoroff era uno di quei pellegrini. Aveva attraversata tutta quanta la Russia, passando per Varsavia, Vilna, Mosca, Casan, Jekaterimburg, era entrato in Siberia passando per Tiumen, era risalito fino a Tobolsk, era poi disceso fino a Omsk, poi a Tomsk, spingendosi fino alla ricca Irkutsk, ed ora che aveva raccolto la somma necessaria, ritornava a marce forzate in Russia, per la via di Tiumen, prima che i lupi siberiani, spinti ed affamati dal freddo, divorassero la sua vecchia pelle.
Non avendo trovato il più misero tugurio in quelle vicinanze, si era riparato in quella foresta ed aveva acceso un grande fuoco di rami resinosi, per riscaldarsi le membra intirizzite e per tenere lontani i lupi, i cui ululati lugubri si ripercuotevano sotto le nevose piante.
I cosacchi legarono i cavalli al tronco d’un pino e si assisero dinanzi al fuoco, dividendo le loro provviste col pellegrino e coi prigionieri.
– Sono esiliati? – chiese Bogadoroff al capo della scorta, indicando Sergio ed Iwan.
– Sì, e dei più pericolosi, poiché sono nichilisti. Credo che uno sia tuo compatriota.
– Un polacco!... – esclamò il pellegrino con accento doloroso ed emettendo un sospiro. – Povera Polonia!...
– La compiangi forse? – chiese il cosacco, corrugando la fronte.
– No, penso però che la Polonia ne ha dati fin troppi degli esiliati.
– Non ci si ribella allo czar, nostro padre.
– È vero, – disse il pellegrino, con un’ironia così sottile che il cosacco non comprese, ma che Sergio rimarcò.
Terminarono la cena in silenzio, fecero poscia una nuova provvista di rami resinosi, quindi scavarono nove buche profonde nella neve, nove letti da cacciatori siberiani, i migliori per ripararsi dal freddo, quando nella steppa manca un ricovero.
Sei cosacchi, il colonnello, il pellegrino e l’jemskik, vi si cacciarono dentro; ma lo studente che temeva, ma a torto, di morire gelato là dentro, preferì coricarsi accanto al fuoco, in compagnia dei due cosacchi di guardia.
La notte era pessima; la neve continuava a cadere a larghe falde, adagiandosi silenziosamente su quella già caduta, ed un ventaccio rigido, che soffiava dal settentrione, scuoteva fortemente le alte cime dei pini e delle betulle. Dalle profondità più cupe della boscaglia, echeggiavano ad intervalli gli ululati dei lupi.
Iwan si era assopito, dinanzi alla fiamma crepitante, addossato al tronco d’un pino, ed i due cosacchi di guardia, affranti dalla lunga corsa, non avevano tardato ad imitarlo. D’altronde, che cosa potevano temere?... I due prigionieri, incatenati come erano, non avrebbero certo osato fuggire nel bosco, per cadere sotto il dente dei lupi, e questi non avrebbero ardito assalire l’accampamento finché il fuoco durava.
Dormivano da un quarto d’ora, colle mani raggrinzate sui fucili, russando rumorosamente a fianco dello studente, quando da una delle nove buche si vide uscire una testa, poi, dopo qualche istante, scivolare fuori un corpo intero.
Quell’uomo che vegliava, mentre tutti dormivano, stette qualche minuto immobile, curvo sulla neve, cogli occhi fissi sui cosacchi di guardia, poi si mise a strisciare verso la buca vicina che era occupata dal pellegrino.
– Bogadoroff, – mormorò allora quell’uomo.
Il pellegrino, che doveva avere un sonno leggero, udendosi chiamare per nome, sporse il capo fuori dal buco e mormorò con sorpresa: – Uno degli esiliati!...
– Silenzio: sono un compatriota, un polacco come te, un uomo che un giorno ha combattuto per la libertà della nostra patria: il colonnello Sergio Wassiloff.
– Wassiloff!... – esclamò il pellegrino. – Io l’ho udito ancora questo nome!...
– Abbassa la voce... i cosacchi possono svegliarsi.
– È vero... dite... parlate... ma il vostro nome l’ho udito... dove... non ricordo...
– A Ostrog, – disse il colonnello. – Ho delle terre laggiù... ed una sorella giovane assai.
– Dai capelli castani?...
– Sì.
– Dagli occhi splendidi e che sembrano sempre umidi?
– Sì... sì...
– Dalla taglia elegante... alta...
– Sì... sì...
– Si chiama Maria Federowna... e la veglia Dimitri... un vecchio soldato...
– Sì... Bogadoroff... sì, – mormorò il colonnello con voce rotta.
– Che cosa volete?... Parlate!...
– Io voglio che tu ti rechi da lei, più presto che puoi e che tu le dica che suo fratello è stato esiliato e condannato a vita nelle miniere di Vercholensk.
– Lo ignora ancora?
– Sì, perché nessuno sa dove ella si trovi. Va, in nome della nostra patria.
– Ve lo giuro, colonnello, a meno che i lupi non mi divorino prima di giungere a Jekaterimburg.
– Bisogna che tu viva e che ritorni presto.
– Camminerò finché mi rimarrà un atomo di forza.
– Per tornartene laggiù a piedi, sarebbe necessario un anno. Farai il viaggio in slitta fino a Tiumen, e di là prenderai la ferrovia per Jekaterimburg e Mosca. Prendi: vale mille rubli.
Così dicendo, il colonnello si levò dal dito un anello adorno d’un grosso brillante, che aveva, fino allora, potuto sottrarre all’avidità dei carcerieri.
– Che cosa vorrà fare vostra sorella? – chiese il pellegrino.
– Ciò che crederà: è una ragazza energica, una vera donna polacca, chissà!... Grazie, Bogadoroff, tengo il tuo giuramento.
– Sulla Vergine Santa protettrice della Polonia.
– Grazie ancora.
Si ritirò strisciando sulla neve, raggiunse la buca e vi si cacciò dentro, mentre la burrasca di neve continuava ad infuriare con maggior lena sulla Wladimirka.
L’indomani, ai primi albori, i cosacchi rimontavano a cavallo ed i due prigionieri sulla tarantassa, impazienti di giungere a Camisceuk. Il pellegrino li aveva già lasciati da qualche ora dirigendosi verso Iscim, che è l’ultimo villaggio che s’incontra sulla strada di Tiumen.
La neve aveva cessato di cadere, però ve n’era già tanta sulla Wladimirka, che i cavalli affondavano fino alle ginocchia e la tarantassa non poteva avanzare che con grande fatica, quasi al passo, non ostante le frustate e le grida dell’jemskik.
Fortunatamente il freddo era intenso e rassodava rapidamente quell’immenso manto candido, permettendo agli animali di trovare un appoggio meno soffice e mobile. Per di più la borgata non era lontana che una mezza dozzina di verste2.
Alle dieci del mattino, dopo un ultimo sforzo, la scorta e la tarantassa giungevano al villaggio, ma non si arrestarono che poche ore. I cosacchi avevano fretta di raggiungere la catena dei forzati, per tornare a Tobolsk.
Alla tarantassa, che ormai non poteva più servire, fu sostituita una slitta fornita dal mastro di posta; cambiarono i cavalli e ripresero la corsa sfrenata verso il sud, attraverso alle steppe nevose.
Alla sera pernottarono a Tincalinsk, piccola borgata abitata da due o trecento mugik, ed il giorno seguente, dopo una corsa più rapida dei giorni precedenti, giungevano a Omsk.