Gli orrori della Siberia/Capitolo VIII – Da Omsk a Tomsk

Capitolo VIII – Da Omsk a Tomsk

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Capitolo VIII – Da Omsk a Tomsk


Omsk, già capitale ufficiale della Siberia occidentale, è situata sull’Irtish, larga ed impetuosa fiumana che nasce sui monti Altai e che gettasi nell’Obi, dopo un corso di ben settecento verste.

Come quasi tutte le città siberiane, Omsk si divide in due cittadelle: una riservata ai funzionari ed alle autorità, e che rinchiude le carceri ed il palazzo governativo; l’altra agli abitanti siberiani che appartengono per lo più alla grande orda dei ghirghisi.

Essa è circondata da bastioni di terra, sufficienti per resistere ad un assalto delle turbolenti orde delle steppe, e contiene, nella sua parte alta, una cittadella ben munita.

La sua popolazione ascende a circa dodicimila anime, ma non è stabile e subisce degli aumenti e delle diminuzioni considerevoli.

Ad Omsk, i due prigionieri non subirono alcun interrogatorio. Furono rinchiusi nelle carceri per ventiquattro ore, poi ripartirono colla medesima scorta per Cainsk, stazione situata a breve distanza dal lago Cian, nel mezzo degli acquitrini della Baraba, i quali cominciano veramente dopo Omsk. L’ultimo corriere aveva recato la notizia che la catena dei forzati aveva già oltrepassato quella borgata, dirigendosi sopra Kolwan per raggiungere Tomsk.

La sera istessa la slitta faceva alto alla mezza tappa, piccolo fabbricato costruito in legno, immondo, nauseante e che serve di ricovero e di prigione alle catene di forzati e di esiliati, quando non possono giungere alla tappa che si trova solamente nelle borgate situate sulla Wladimirka.

Al mattino la corsa fu ripresa con un freddo veramente siberiano: il termometro doveva segnare trentaquattro o trentasei gradi sotto zero. Un pesante nebbione che ondeggiava sulla steppa, cacciato innanzi da un furioso vento del settentrione, impediva all’jemskik di mantenere la slitta sulla Wladimirka, non scorgendosi più i pali. La scorta bestemmiava su tutti i toni, e faticava assai a mantenere in piedi i cavalli, che di quando in quando s’impegnavano fra le altissime e rigide graminacee della steppa.

Attraverso al nebbione si udivano, ad intervalli, echeggiare gli ululati dei lupi. Quei feroci carnivori, udendo tintinnare il campanello della duga, correvano sulle tracce della slitta, immaginandosi di trovare una facile preda, ma ben presto si dileguavano scorgendo quel grosso gruppo di cavalieri.

Alle nove del mattino, mentre i cavalli divoravano la via, dinanzi alla slitta apparvero improvvisamente delle masse oscure che parevano volessero impedire il passo.

L’jemskik, non sapendo di che cosa trattavasi, cercò di trattenere i cavalli con quello strano tremolio delle labbra che produce una specie di fischio e che i soli cocchieri russi sanno mandare, ma era troppo tardi. I tre cavalli, trasportati dallo slancio, proseguirono la corsa, inciamparono contro un ostacolo che non avevano potuto vedere e caddero l’un sull’altro di colpo, emettendo un triplice nitrito di dolore.

Il cocchiere, Iwan e Sergio furono scaraventati a destra ed a sinistra in mezzo alla neve, mentre si udivano parecchie voci a gridare con accento minaccioso:

– Alt!... Arrendetevi!...

Alcuni cavalieri, col capo coperto da alti berrettoni, le vesti ampie, le larghe cinture riboccanti di pistole e d’armi bianche, e tenendo in pugno dei lunghi fucili, apparvero fra la nebbia.

– I ghirghisi!... – esclamò l’jemskik, che si era prontamente rialzato.

– Ohe!... Addosso alla scorta!...

I cosacchi, che erano rimasti indietro, non avevano ancora scorto i predoni, però avevano udito i nitriti dei cavalli, il fracasso della slitta che si rovesciava ed il grido del cocchiere.

Il capo della scorta snudò l’jatagan e spronò risolutamente il cavallo, urlando:

– Addosso ai predoni!...

Gli otto cavalieri si scagliarono innanzi come un uragano, emettendo i loro formidabili urrah!...

Alcuni colpi di fucile partirono fra la nebbia, facendo più fracasso che danno. Un cavallo però, colpito a morte, s’accasciò, dopo d’aver fatto un brusco scarto e rovesciò fra la neve il cosacco che lo montava.

Gli altri proseguirono la corsa e si avventarono in mezzo alla banda, caricandola a colpi di jatagan ritenendo inutile adoperare le armi da fuoco con quei predoni che non ardiscono opporre resistenza, quando si trovano dinanzi ad un drappello d’uomini risoluti.

Quella carica a fondo, come prevedeva il capo della scorta, fu bastante. I ghirghisi, che sanno per esperienza quanto valgono i cosacchi, approfittando del nebbione, subito si dispersero, salutati da una scarica di sette fucili.

– Se ne sono andati, gli stupidi! – esclamò Iwan, furioso nel vedere ritornare i cosacchi presso la slitta. – Con un po’ d’audacia avrebbero potuto liberarci.

– Brutto cambio, Iwan, – disse il colonnello che si era rialzato sano e salvo. – Da forzati saremmo diventati schiavi.

– Erano ghirghisi?

– Sì, Iwan.

– Cattive persone?

– Predoni della più bell’acqua.

– Abitano questa regione?

– Abitano un bel tratto della Siberia, tutta la parte sud–est.

– E osano spingersi fin qui?

– Vivono di ladroneggi e la steppa è la loro patria. Toh!... ecco i nostri cosacchi che bestemmiano come fossero ubriachi di vodka. Che i cavalli della slitta si siano rotte le gambe?

– Lo temo, colonnello, – rispose lo studente. – Uno è in piedi, e gli altri due sono ricaduti. Saremo costretti a fare un’altra fermata sotto un bosco.

– Coi ghirghisi alle spalle non sarebbe un bel divertimento, Iwan.

Il colonnello non si era ingannato. I due cavalli di volata, che galoppavano ai fianchi di quello che era trattenuto fra le stanghe, si erano spezzate le gambe. Essendo collocati più innanzi dell’altro, avevano urtato violentemente contro un grosso tronco di pino gettato attraverso alla Wladimirka dai banditi, e non potevano più reggersi sulle gambe.

I cosacchi però non erano uomini da trovarsi imbarazzati. Attaccarono ai fianchi del cavallo portante la duga due di quelli della scorta, uccisero i due feriti, secondo il mezzo siberiano, cioè aprendo loro il petto con un colpo di jatagan e stringendo il cuore delle povere bestie in mano, dopo d’aver passato il braccio attraverso alla squarciatura. Ciò fatto, diedero il segnale della partenza.

Gli uomini rimasti senza cavalli, salirono dietro a tre compagni che montavano gli animali più robusti, e slitta e scorta si lanciarono nuovamente innanzi.

I cosacchi tenevano i fucili in pugno e cercavano di discernere, attraverso al nebbione, le alte erbe della steppa, che potevano nascondere un nuovo agguato.

Sapevano per esperienza che i ghirghisi non abbandonano tanto facilmente una preda, quando credono di potersene, presto o tardi, impadronire.

Quei nomadi vivono, si può dire, esclusivamente di rapina ed osano, quando l’inverno piomba sulla Siberia, inoltrarsi fino alle steppe della Baraba e sulla Wladimirka.

Divisi in numerose e popolose tribù, occupano tutto il sud della Siberia occidentale e parte della centrale, ma più specialmente quella parte che è compresa fra i monti Urali, il mar Caspio settentrionale, il lago d’Aral, il Turchestan e l’Irtish. Non hanno centri di riunione: errano a capriccio qua e là, piantando le loro tende di feltro dove credono, scorrazzano or questa ed or l’altra steppa, varcano sovente le frontiere e vanno a saccheggiare i siberiani, od i calmucchi loro vicini, o gli abitanti dei kanati di Khiva e di Bukara.

Forse quelli che avevano assalita la slitta provenivano dalla steppa della Fame e dovevano certamente essere numerosi, per osare mostrarsi a poche miglia dalle porte di Omsk.

Così la pensavano i cosacchi, e perciò affrettavano la corsa per non avere alle spalle il grosso dei predoni.

I ghirghisi, che forse credevano di essersi imbattuti in una grossa scorta, non si mostrarono però; nondimeno, la mancanza di lupi nella vicina steppa, indicava che quel terreno doveva essere stato scorrazzato di recente.

Alla sera la slitta faceva alto alla mezza tappa, che era guardata da una mezza compagnia di cosacchi. La scorta avrebbe voluto, dopo un riposo di alcune ore, proseguire il viaggio per raggiungere presto la catena degli esiliati, ma non osò avventurarsi di notte attraverso la steppa, per non subire un secondo attacco.

Quella fermata doveva però far perdere la speranza di raggiungere la colonna a Kolywan e fors’anche a Tomsk.

Il giorno seguente, con una marcia forzata, la slitta e la scorta giungevano a Cainsk. ma uomini e cavalli non ne potevano più. Due giorni dopo toccavano Kolywan, borgata situata sull’Obi, uno dei più grandi fiumi che solcano la Siberia occidentale.

È l’Obi una vera fiumana gigante, avendo un corso di ben millecinquecentosessanta miglia. I tartari lo chiamano Umar, gli ostiaki invece Emè od Ossè, e si forma nel governo di Tomsk, dall’unione di due grossi fiumi, il Bica e la Katunia che nascono negli Altai, presso la frontiera cinese.

È un fiume rapidissimo, ingrossato da numerosi affluenti, largo parecchie verste, con cateratte nel corso inferiore. Attraversa il governo di Tomsk, poi quello di Tobolsk, bagna le cittadelle di Barnaul, di Kolywan e di Narym, Surgut e Berezov, riceve grossi affluenti fra i quali l’Irtish, il Conda e l’Issel sulla sinistra, il Cialim, il Ket ed il Vach sulla destra, e si scarica, per numerose bocche, nello stretto e profondo golfo d’Obi, fra la penisola di Jamai e quella del golfo di Tas.

I due prigionieri e la scorta passarono la notte a Kotywan, al mattino attraversarono il largo fiume su di un ponte di chiatte e proseguirono per Tomsk, alla cui città giungevano poco prima del tramonto.

Tomsk è una delle più importanti città della Siberia occidentale ed una delle più vicine alle frontiere cinesi, poiché non dista che sei giorni di marcia dalla Dzungaria. È situata presso il Tom, affluente di destra dell’Obi, che nasce sui contrafforti dei monti Tanna, presso la frontiera Mongola. Dopo l’ukase del luglio 1882, era stata nominata capitale della Siberia occidentale, affidandole l’amministrazione d’un territorio di 1478000 verste quadrate, ma ora ha perduto tale titolo.

Nondimeno è rimasta ancora una delle città più popolose della Siberia, poiché conta ancora un quindicimila anime. È però assai brutta, mal fabbricata, difesa da pochi bastioni di terra e gran parte delle sue abitazioni sono ancora in legno. Colà i cosacchi della scorta appresero, con molto malcontento, che la catena dei forzati diretta ad Irkutsk era partita il giorno precedente per la tappa di Marünsk, non essendosi arrestata che poche ore a Tomsk.

I capi che la conducevano verso il lontano Baikal, avevano ricevuto l’ordine di procedere a marce forzate, per non farsi sorprendere ancora in cammino dai grandi freddi. Prima di giungere nella capitale della Siberia orientale dovevano camminare ancora molto, forse due mesi, avendo da percorrere ben millecinquecento verste e sempre a piedi, e la neve era già caduta, annunciando l’avvicinarsi del rigidissimo inverno.

Nemmeno a Tomsk nessuno si occupò dei due prigionieri, i quali passarono le dodici ore di riposo accuratamente chiusi nella vecchia prigione. Il colonnello aveva chiesto di parlare col governatore e con uno dei capi della polizia, per poter almeno avere delle vesti più pesanti per sé e pel compagno, prima di raggiungere la colonna degli esiliati, ma non aveva potuto ottenere nulla. Nessuno ormai si occupava di lui, che pure aveva occupato un così alto grado nell’esercito russo e che aveva sparso del sangue per una patria non sua. Per le autorità altro non era che un nichilista, condannato a vita nel duro lavoro delle miniere, non era infine che un esiliato, un semplice numero.

Sergio però non era tale uomo da accorarsi; quel completo abbandono da parte di tutti non fiaccava la sua grande energia.

– Bah! fuggiremo un giorno, – disse a Iwan, che si sfogava contro le autorità. – Non rimarremo a lungo in fondo alle miniere.

– Voi avete ora una speranza? – chiese lo studente. – Prima non l’avevate.

– Ora sì.

– Su chi contate?

– Sul pellegrino, – gli mormorò in un orecchio il colonnello.

– Ah!...

– A voce bassa, Iwan.

– Dunque voi?...

– L’ho incaricato d’informare mia sorella del mio luogo di destinazione. Mentre voi ed i cosacchi dormivate io gli ho parlato.

– E voi credete che vostra sorella?...

– Ci invierà delle persone devote per facilitarci la fuga. Ella è energica, è una polacca e tutto tenterà, Iwan.

– Confidiamo in Dio, colonnello, e nella sagacia di vostra sorella.