Gli orrori della Siberia/Capitolo IX – Un compagno d'armi
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Capitolo IX – Un compagno d’armi
Le tenebre non si erano ancora diradate, quando i cosacchi, impazienti di raggiungere la catena dei forzati e degli esiliati che sembrava sfuggisse loro costantemente, malgrado le rapidissime corse, svegliarono i prigionieri, facendoli salire sulla slitta.
Un fitto nebbione copriva la città e le steppe circostanti, rendendo maggiore l’oscurità; il freddo però, quantunque fosse ancora acuto, non era così intenso come i giorni precedenti.
La slitta, attraversate le vie della città, già coperte da un alto strato di ghiaccio, uscì dai bastioni orientali, lanciandosi a corsa precipitosa sulla Wladimirka. L’jemskik e la scorta eccitavano i cavalli colla frusta e colla voce.
Volevano raggiungere la colonna prima che giungesse alla tappa di Marünsk, per tornare, il giorno stesso, a Tomsk per ubriacarsi, molto probabilmente, coi loro camerati.
Galoppavano da dieci ore, con crescente rapidità, sempre in mezzo al nebbione, non concedendo ai cavalli che brevi riposi, quando si udirono in lontananza un cigolare di carrette, un nitrire di cavalli e delle grida umane.
Pareva che una moltitudine di ruotabili, di animali e di persone marciasse sulla Wladimirka.
– Bada alla retroguardia, jemskik, – gridò il capo della scorta. – Puoi storpiare qualche camerata.
– Stiamo per raggiungere la catena? – chiese Iwan, che non poté nascondere un forte brivido.
– Sì, – rispose il colonnello, con un sospiro. – Preparatevi a vedere delle scene orribili, Iwan.
– Io non so se sia l’emozione, colonnello, ma mi sento stringere il cuore.
– Vi credo... il nostro martirio sta per cominciare.
– E... ditemi... colonnello... metteranno la catena anche a noi?...
– Sì, mio povero amico, e forse domani mattina, nel cortile della tappa.
– Io mi ribellerò!... – esclamò Iwan, con furore.
– A qual pro esporsi a degli inutili maltrattamenti?... Nessuno può resistere a loro... Una domanda, Iwan.
– Parlate, colonnello.
– I vostri carcerieri vi hanno lasciato qualche rublo?
– Mi hanno rubato perfino l’ultimo kopec1.
– Fortunatamente ho potuto salvare la mia borsa, – disse il colonnello. – Non hanno osato mettere le mani addosso al colonnello Wassiloff. Disgraziatamente è leggera, ma basterà per noi.
Si frugò sotto il panciotto, come meglio glielo permetteva la catena, levò quattro rubli e li diede a Iwan che li nascose sollecitamente dicendo:
– Grazie, colonnello; cosa dovrò farne?
– Li farete scivolare in mano al fabbro che vi salderà la catena.
– Perché?... Forse che non salderà bene l’anello?
– Non sperate tanto, però non ve lo stringerà troppo attorno al collo del piede e lascerà uno spazio sufficiente per cacciarvi dentro degli stracci. Eviterete in tal modo una corrosione pericolosa, che col tempo vi farebbe zoppicare o delle bruciature dolorose quando il freddo diventerà più acuto. Voi già saprete che quando la temperatura discende a venticinque o trenta gradi sotto lo zero, il ferro, posto a contatto colla carne, produce delle vere ustioni.
– Grazie del consiglio, colonnello, – disse lo studente, che era assai commosso.
Poi, ricacciando in fondo al cuore l’emozione, disse, alzando le spalle:
– Bah!... Sono fuggiti altri; fuggiremo anche noi, presto o tardi.
L’jemskik e la scorta avevano rallentata la corsa. Il rotolare dei carri, i nitriti e le voci umane diventavano sempre più distinti, ma il nebbione impediva di scorgere la catena marciante sull’interminabile Wladimirka.
Ad un tratto, apparvero confusamente delle persone che marciavano su diverse linee, occupando tutta la larghezza della via.
– Poh!... – gridò l’jemskik, trattenendo i cavalli che stavano per passare addosso a quelle persone. – Largo!... largo!...
– Chi vive? – gridarono parecchie voci.
– Cosacchi con prigionieri, – rispose il capo della scorta.
– Passa.
– Dov’è il capitano Baunje?
– A Marünsk.
– Una trottata ancora!... Il diavolo porti all’inferno tutte queste canaglie. Frusta, jemskik, non badare se storpi qualcuno di quei cani incatenati.
Il cocchiere spinse i cavalli alla carriera, tenendosi però prudentemente sull’orlo della strada. La retroguardia della catena, formata da una compagnia di cosacchi, incaricata di raccogliere le donne dei forzati, o degli esiliati che avevano voluto seguire i loro mariti o padri o fratelli in quel terribile e disastroso viaggio attraverso le nevose steppe, si era aperta per lasciare il passo.
Dinanzi alla retroguardia apparvero subito, confusamente, essendo la nebbia sempre assai fitta, delle lunghe file di carretti carichi di casse, di cassette e di fardelli, i bagagli degli esiliati e dei forzati, tirati a gran pena da brutti cavalli dal pelame lungo, magri, sfiniti; poi apparvero dei gruppi di donne lacere, smunte, che si trascinavano dietro dei ragazzi traballanti, quindi altri soldati che percuotevano, colla brutalità leggendaria dei figli del Don, altre disgraziate; poi, in mezzo ad un fragore di ferraglie, delle lunghe file d’uomini, guardati ai fianchi da altri cosacchi che urlavano come ossessi.
I due prigionieri, impietriti dall’orrore, pallidi, commossi, avevano veduto tutto ciò confusamente, attraverso alla nebbia, trasportati dal rapido galoppo dei tre cavalli! Quando videro dinanzi a loro disegnarsi ancora la bianca via della Wladimirka e udirono perdersi in lontananza i cupi fragori di tutte quelle catene e le grida rauche dei cosacchi di guardia, emisero un lungo sospiro.
– E noi fra poco faremo parte di quella turba!... – esclamò lo studente. – Ah!... Costa cara un’idea di libertà in Russia!
Il colonnello non disse nulla; pareva assai preoccupato.
La slitta e la scorta intanto proseguivano rapidamente per Marünsk, onde consegnare al capitano che guidava la colonna a Irkutsk, i due prigionieri e le carte relative al loro luogo di destinazione e alla condanna.
Verso le quattro pomeridiane, già sul nebbioso orizzonte cominciavano a disegnarsi le prime case della borgata; l’umido velo, alzandosi lentamente, permetteva di distinguerle.
Un quarto d’ora dopo la slitta entrava nel villaggio e s’arrestava dinanzi ad una grande costruzione in legno, racchiusa da una cinta assai alta, pure di legno: era la tappa.
Il colonnello e lo studente furono fatti scendere, spinti nel recinto ed introdotti in una stanza pianterrena, riscaldata da una stufa monumentale.
Un capitano dei cosacchi, alto, magro, dall’aria dura, ma con due occhi azzurri che avevano un non so che di dolce e di mesto, con due baffi rigorosamente impeciati, stava seduto accanto alla stufa, fumando una grossa pipa di porcellana.
Scorgendo i due prigionieri s’alzò, senza rispondere al loro saluto ed a quello dei cosacchi, li considerò alcuni istanti in silenzio, come se volesse bene imprimersi nel cervello i loro volti, poi prese le carte che il capo della scorta gli porgeva, gettandovi sopra uno sguardo.
Ad un tratto un trasalimento nervoso alterò i suoi lineamenti ed una profonda ruga si disegnò sulla sua fronte. Con un gesto congedò i cosacchi, dicendo loro:
– Va bene.
Poi si mise a passeggiare per la stanza, stringendo nervosamente le carte, col capo curvo sul petto, senza più occuparsi, almeno in apparenza, dei due prigionieri. Pareva in preda ad una viva inquietudine. Il colonnello e lo studente non fiatavano: ritti dinanzi alla porta, senza spavalderia, ma senza umiltà, aspettavano che quel supremo comandante della catena si degnasse di rivolgere loro qualche parola o che li facesse tradurre nella prigione.
– Ebbene, signore? – chiese Sergio, impazientito. – Spero che non avrete la pretesa di farci rimanere qui fino a domani. Siamo affranti dal lungo viaggio.
Il capitano gli indicò la propria sedia che poco prima occupava, dicendogli con un tono di voce che era leggermente alterato:
– Accomodatevi, colonnello.
– Non sono più colonnello, signore; sono ora un semplice esiliato.
– Che importa?... – rispose il capitano. – Per me, qui, fra noi, siete il colonnello Sergio Wassiloff.
Poi, avvicinandoglisi rapidamente e conducendolo nel vano di una finestra, gli disse:
– Disgraziato!... Non bastava il sangue di tanti compatrioti sparsi su queste terre maledette?... Anche il vostro mancava!...
– Ma chi siete? – esclamò Sergio, stupito.
– Un polacco come voi, un soldato come voi che ha combattuto per una patria che non è nostra e che come voi, sotto Plewan, ha guadagnato un avanzamento. Non vi ho mai dimenticato, colonnello e vi vedo ancora salire alla testa del vostro battaglione, sugli spalti accanitamente difesi dai turchi di Osman pascià, fra un uragano di ferro e di fuoco. Là voi avete guadagnato il vostro grado di colonnello ed io quello di capitano e là, senza saperlo, m’avete salvata la vita.
– Io!...
– Sì, colonnello Sergio Wassiloff. Non vi rammentate più di quell’alfiere che si era gettato dinanzi a voi colla bandiera in pugno, per trascinare i vostri prodi al fuoco?... Non vi ricordate di averlo respinto nel momento preciso in cui una scarica micidiale partiva dal ridotto?... Voi cadeste ferito e quella palla era destinata a me.
– Sì... mi ricordo vagamente, – disse Sergio. – Ma voi, che cosa fate qui?... Voi, un polacco, aguzzino degli esiliati, dei vostri compatrioti, forse, poiché qui non ne mancano?...
– Aguzzino!... Ah no, colonnello. – disse il capitano, con orgoglio. – Sono qui non per tormentare, ma per reprimere le infamie dei cosacchi. Ho lasciato una casa, una famiglia, gli agi di Mosca e di Pietroburgo, per soccorrere gl’infelici colpiti, non sempre a ragione, dalla giustizia dello czar e per aiutarli, come posso, nella terribile marcia attraverso alla Siberia.
– Voi potete compromettervi, capitano.
– No, colonnello, e se voi lo chiedete ai cosacchi, vi diranno che io sono il capitano più burbero e più intrattabile della Siberia, – disse il polacco, sorridendo. – Ma quanti compatrioti e quanti condannati politici mi devono la vita e anche...
– Continuate, – disse Sergio che lo aveva però compreso.
– La libertà, – gli soffiò in un orecchio il capitano.
Il colonnello gli tese la mano, che il polacco strinse vivamente.
– Siete un brav’uomo, – disse Sergio, commosso. – I patrioti polacchi non dimenticano i connazionali colpiti dalle ingiustizie del colosso moscovita.
– Colonnello, – disse il capitano, dopo alcuni istanti di silenzio. – Comandate: che cosa posso fare per voi?
– Null’altro che dare a me ed al mio compagno, un condannato politico al pari di me, qualche veste più pesante per poter reggere al freddo. Non ci hanno lasciato che le nostre vesti leggere.
– Le avrete, ma...
– Parlate, capitano.
– Sarà necessario che indossiate la divisa dei forzati. Non potrei esimervi da tale...
– Lo so, capitano, come non potrete evitare di farmi mettere la catena degli internati a vita.
– È vero, colonnello, – disse il capitano, con dolore. – La Russia e la Siberia sono circondate da spie della polizia e il governatore non tarderebbe ad esserne informato. È necessario pel vostro bene e pel mio, che dividiate tutti gli orrori della colonna vivente ma... chissà... a Irkutsk od altrove potrò fare ciò che ho fatto per altri.
– Grazie ancora, capitano.
In quell’istante al di fuori echeggiarono delle grida ed in lontananza un sordo fragore di catene, un cigolare di carri e un nitrire di cavalli.
– Eccoli, – disse il capitano.
Aprì la porta ed assumendo una cera più arcigna del solito gridò:
– Astoff!...
Un maresciallo d’alloggio dei cosacchi, con una barba imponente, la taglia tozza, apparve salutando.
– Affiderai questi due uomini allo starosta, – disse il capitano, con voce dura. – Sono due politici dei più pericolosi e li farai sorvegliare accuratamente. Fa indossare loro delle vesti pesanti ed i caftani dei posselentsy e che domani, all’alba, abbiano la catena al piede. Va, ma guai a te se li batti o li fai battere; tale è l’ordine di nostro padre lo czar.
Scambiò col colonnello un ultimo sguardo e ritornò verso la stufa, mentre il cosacco traeva con sé i due prigionieri.
Note
- ↑ Moneta di rame che vale quattro centesimi.