Gli amori di Alessandro Magno/Nota storica
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NOTA STORICA
L’anno comico 1758-59 si era chiuso al teatro di San Luca con un triste bilancio: nessuna delle nuove commedie del Goldoni aveva ottenuto l’approvazione del pubblico, tolta la Dalmatina (v. Nota Storica della Scuola di ballo, vol. XVI della presente edizione, pag. 509). Di ciò si rammaricava l’autore che trovavasi da alcuni mesi a Roma; e di là scriveva a S. E. Vendramin, proprietario del teatro veneziano e suo “padrone”, in data 17 marzo 1759: “Venezia è stanca dei caratteri famigliari, Venezia vuol novità; cerchiamo di soddisfarla” (D. Mantovani, C. Goldoni e il teatro di S. Luca a Ven., Milano, 1885, pag. 106). E con l’amico Gabriele Cornet così si sfogava, in una lettera del 29 aprile: “La Commedia si abbevera ad un vasto fonte, ma alcuni rivoli più fecondi non soffrono esser toccati, e alcune volte le convien soffrire l’astinenza nell’abbondanza” (alludeva agli abati romani e non a quelli soli!). “Quindi è che, esaurite le comuni sorgenti, conviene che si volga all’Oriente o all’Occaso, e gli spiriti, annoiati della verità ripetuta, si conducono a desiderare o il sorprendente o il ridicolo sciagurato”. Poi continuava con malinconia: “Se dalla volubile inclinazione del pubblico sarò strascinato fuori del mio sentiero, non si dirà essere ciò provenuto dal mio capriccio, ma dalla necessità di piacere” (Lettere di C. Goldoni per cura di E. Masi, Bologna, 1880, pp. 128-129). Si badi che il Goldoni non aveva scritto ancora i suoi più grandi capolavori dialettali pareva piangesse fra sè di non poterli scrivere.
Anche il Vendramin lo ammoniva poco dopo: “...La prego a riflettere che le comedie in presente piacciono quando sono teatrali, e non di parole, o di solo carattere” (Mantovani cit., pag. 117). Il 17 luglio il buon dottor veneziano annunciava da Bologna a Sua Eccellenza che nel lungo viaggio dalle rive del Tevere al piccol Reno aveva avuto “campo di pensare molto al teatro e aveva “concepito un’idea di novità” che sperava farebbe “dello strepito”: intendeva cioè presentare al pubblico ben nove opere nuove assegnandone una per ciascheduna delle nove muse con vari metri e vari pensieri e l’introduzione sarà il Monte Parnaso (Mantovani, pag. 115: v. Nota storica della Scuola di ballo, l. c., e A. Zardo. Versi e prosa nelle commedie del Goldoni, estratto dalla Nuova Antologia, 1 maggio 1925, pp. 3-4). Ai 7 agosto spediva la prima, già pronta: “Questa non è quella ch’io ho principiato a Roma, ma l’ho qui ideata, dopo la idea che ho concepito per viaggio”: (pag. 120). Erano proprio gli Amori di Alessandro Magno, tragicommedia in versi endecasillabi e settenari, “appoggiata all’Istoria, tratta da autori classici” (pag. 123) e composta “sul gusto corrente” (pag. 120).
Non restò il Vendramin troppo persuaso, preoccupandosi della spesa per la messa in scena, delle famose etichette dei comici e così via (Mantovani, pag. 150 e sgg.); si che dovette il Goldoni, in un letterone del 21 agosto. pure da Bologna, spiegargli il progetto delle nove composizioni e dissipare i dubbi sull’opera spedita allora: "Ella ha letto la tragicommedia, e le ha cagionato de’ gran pensieri. Veggo dove sono appoggiati, e spero rasserenarla. Ho pensato di dare al pubblico per prima rappresentazione una di quelle che corrono in voga a di d’oggi. Non creda, che per eseguirla vi vogliano grandi spese. Il campo di Alessandro si fa con dei Padiglioni; di questi alla Compagnia non ne mancano. Il seguito delle Amazzoni ho detto se si può; per altro per la scena bastano le due che parlano. Il tempio i comici l’hanno, e un Mausoleo di carta dipinta non costa molto. Io sono avvezzo a far le cose con poca spesa" (pag. 127). Poi aggiungeva: "L’azione mi par nobile e interessante. La critica dei novellisti mi par ridicola ecc.... Lo stile Drammatico, creda pure, che in teatro fa bene. Ne abbiamo avuto l’esempio per tanti anni, ed ora il popolo par che torni a desiderarlo" (pp. 127-128). Per la distribuzione delle parti il Goldoni si rimetteva al Vendramin "ed ai comici stessi, desiderando che le cose vadano bene, e che siano tutti contenti" (pag. 130). Solo temeva che il revisore non approvasse una certa scena: "Vi è una scena, dove il revisore potrebbe sottilizzare. Se ci fossi io, si accomoda subito" (lett. 28 agosto. pag. 141). L’11 settembre spediva anche il Prologo al Pitteri, perchè fosse tosto stampato.
I teatri si aprirono a Venezia l’8 ottobre (Gradenigo. Notatorj presso il Civico Museo Correr). Alla recita degli Amori d’Alessandro precedette quella del Prologo, ossia del Monte Parnaso, dove parlano in verso Apollo e le Nove Muse, e ogni Musa annuncia una commedia nuova. Apollo accusa blandamente il pubblico, avido di novità: "Spirto talor di novità inquieto — Rende il popolo, è ver...". Poscia dice Clio;
Nella Scenica arena
Prima dunque discendo, e ai Spettatori
Vo’ d’Alessandro figurar gli amori.
Tragiche azion fin’ora
Del Macedone Eroe cantaro i Vati.
Io rallegrare intendo
Senza tradir la Maestà del nome,
Senza mentir, senza far torto al vero,
Il genial spettacolo primiero;
A render mi lusingo
L’opra che Tragicomica si appella
Col Dramatico stil più vaga e bella.
Non sappiamo se tale Introduzione annoiasse i Veneziani o se la stampa di questo canto e la promessa del poeta fossero gradite (un esemplare del Monte Parnaso trovasi presso la Marciana di Venezia: fu rist. nel t. X, cl. 3. dell’ed. Zatta, prima degli Amori d’Alessandro Magno). Una consimile idea, non nuova nei teatri musicali del seicento, aveva avuto l’ab. Chiari nell’autunno del 1751 sul teatro di San Gio. Grisostomo (G. Ortolani, L’ab. Chiari e il Settecento. Venezia, 1905, pag. 450; e Zardo, l. c., pag. 4). ma in luogo d’Apollo faceva parlare con le nove Muse il personaggio principale della commedia. Carlo Gozzi, come il solito, rise (v. Opere. ed. Colombani, t. VIII, pag. 196):
Fegejo è insuperbito e rigonfiato,
Che questo Carnovale è stato fermo;
Con le sue nove Muse ha fatto schermo;
Del tutto il Sacchi non l’ha sbaragliato ecc.
Non ricorderemo qui, a proposito di questi infelicissimi Amori, le leggende pullulate nel Medioevo intorno alla figura dell’eroe macedone (P. Meyer. Alexandre le Grand dans la littérature française du moyen âge, Paris, 1886; D. Carraroli, La Leggenda di Al. Magno, Torino, 1891; V. Crescini, Il poema cavalleresco, in Storia dei generi lett., ed. Vallardi, cap. III). Degli amori e della generosità d’Alessandro risonava da gran tempo il teatro tragico e melodrammatico in Europa. Un numero grandissimo di recite ebbe nel Settecento il famoso Alessandro nell’Indie (1729) del Metastasio, musicato dal Sarro, dallo Schiassi, dal Siroli, dal Bertoni e da altri maestri, che deve certo la prima ispirazione all’Alexandre (1665) di Racine, tradotto fin dal 1697 a Bologna (L. Ferrari, Le traduz. del teatro tragico francese ecc., Paris, 1925, pag. 11). Ma probabilmente il Goldoni si ricordo di un’"opera tragicomica" di Giacinto Andrea Cicognini. Gli Amori di Alessandro e di Rossane o Le Glorie e gli Amori A. M. e di Rossane ecc. (Genova 1652. Modena e Napoli 1654: v. L. Grashey, G. A. Cicogninis Leben und Werke, Kirchhain N.-L., 1908. pp. 27 e 35) o del dramma per musica dello stesso autore, (rappresentato a Venezia, nel teatro dei Ss. Apostoli, l’anno 1651 e l’anno dopo a Genova, e nel ’54 a Modena e nel ’56 a Bologna e replicato nel ’67 a Venezia nel teatro di San Moisè, col titolo di Alessandro amante: v. continuatori Drammaturgia Allacci. Ven. 1755): sebbene altro fosse l’intreccio da lui immaginato. Anche nella tragicommedia goldoniana troviamo Rossane, ma abbandonata e dimenticata dal re macedone che qui si innamora di Statira, figlia di Dario. Così più tardi, nella tragedia del veronese Andrea Willi (1733-93), intitolata Alessandro il Grande, il re di Macedonia sposa Statira (v. Opere Teatrali del Willi, vol. XI, Venezia, Rosa, 1796). Convien rammentare che fin dal 1741 il Goldoni scrisse una Statira, musicata dal maestro Chiarini e rappresentata nel teatro di S. Samuele durante la fiera dell’Ascensione (Spinelli, Bibliografia goldoniana, pag. 196), ma essa è la vedova di Dario che sposa Arbace, nè vi compare Alessandro; mentre nella nota tragedia di Pradon (Statira, 1679: trad. da Pier Jac. Martello, come si vede a pag. 199 dei suoi Versi e prose, Parte II. Bologna, 1724, pag. 199; e recit. a Bologna, fin dal 1711: Ferrari, l. c., 245) Statira è figlia di Dario e vedova d’Alessandro.
Un’opera più misera e assurda non compose il Goldoni nemmeno ai tempi del Belisario e del Rinaldo. Come mai potevasi illudere di aver trovato un’azione nobile, uno stile eroico (“mi sono servito in questo dello stile Drammatico più confacente all’istoria, e al carattere di Tragicomedia”: Mantovani, 123) e una satira spiritosa dei cosidetti novellisti? Siamo nel regno dell’abate Chiari: si vuol commuovere gli spettatori con la carta d’oro e d’argento della scenografia, facendo sfilare sul palcoscenico "al suono di strumenti militari i soldati d’Alessandro” e Talestri, regina delle Amazzoni, con la schiera delle succinte compagne (forse ricordava il G. di aver letto di recente le Amazzoni della Boccage: Mém.es, II. ch. 34 e presente vol., pag. 89). In fine appare l’ombra del re morto (Dario), come nella Semiramide di Voltaire o nell’Amleto. Sembrano gli annunci lontani non del Romanticismo, si dell’arte futura del cinematografo. A eccitare l’applauso serve l’effetto assordante di qualche verso frugoniano. I personaggi, senza un fil di vita, paiono fantocci scheletriti che perdano a ogni scossa la stoppa dall’abito sdrucito.
Le accoglienze del pubblico furono, io credo, fredde, se non ostili. Vero è che nè al Pitteri nè al Pasquali il Goldoni diede da stampare gli Amori d’A., ma solo nell’età senile li affidò allo Zatta insieme con gli altri suoi manoscritti, e uscirono nel tomo XXXI della grande edizione, ossia X della il serie, nel 1793 (furono ristampati a Lucca l’anno stesso nel tomo XXXI dell’ed. Bonsignori). Ben fecero i biografi e critici del Goldoni a dimenticare del tutto questo insulso saggio poetico che il povero autore scrisse contro natura e contro voglia per soddisfare i capricci del pubblico. Solo il Meneghezzi lo condannò tutt’insieme con le Ircane, con le Georgiane, con le Dalmatine, con le Selvagge, col Terenzio e con l’Enea nel Lazio (Della vita e delle opere di C. G., Milano, 1827, pag. 131). L’autore stesso ne tacque pietosamente nelle sue Memorie.
Povero Goldoni! Egli volle vendicarsi di queste brutture a cui nemmeno i Veneziani innamorati d’Ircana fecero buon viso, e creò sorridendo per l’ottobre seguente la Compagnia de Salvadeghi ossia i Rusteghi, e subito dopo con magnifico furore d’arte la Casa nova, la Bona mare, le Villeggiature, Sior Todero e le Baruffe, che da tempo gli si agitavano confusamente dentro il petto. E poi abbandonò l’Italia.
G. O.