Gli amori/Anacronismo
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ANACRONISMO
Cara Contessa
Hauptig di Mannheim, celebre artista tedesco di cui ella avrà sentito qualche volta parlare, fu, anni addietro, in Italia, e precisamente a Roma. Abitava in una casa mobiliata, in via Margutta, dove stavano altri artisti; ma egli non aveva neppur veduto i suoi vicini, occupato com’era tutto il giorno a lavorare. Il lavoro di questo mutabile ed inquieto dilettante al quale nessuna forma dell’arte è sconosciuta consisteva allora nella pittura. Il suo studio, un immenso stanzone al quarto piano, riceveva luce, dalla parte del cortile, da due balconi aperti sopra un ballatoio che girava lungo tutti i quattro muri interni del fabbricato e sul quale si aprivano tutti gli altri balconi delle stanze di quel piano. Siccome non era diviso da cancellate, i casigliani potevano comunicare facilmente gli uni con gli altri; ma Hauptig, nascosto dietro le sue tele, non aveva notizie del resto del mondo. Un giorno, mentre disegnava un paesaggio, udì grida infantili e un rumore affrettato di passi e un esclamar minaccioso:
— Monella!... monella!...
Egli aveva appena sporto il capo, quando vide una bella bambina di otto o dieci anni precipitarsi, dal balcone aperto, nello studio e quasi trincerarsi, con aria tra spaventata e trionfante, dietro di lui; mentre una donna, fermatasi sulla soglia, esclamava ancora, ma con voce più concitata:
— Torna a casa, monella!... — e, alla vista del pittore, soggiungeva confusa: — Scusi, signore... scusi... Questi benedetti bambini!...
L’artista s’alzò, prese per mano la fanciullina, le diede una chicca e con belle maniere la rappattumò con la mamma. Giacchè era proprio la mamma, come egli seppe durante un breve scambio di nuove scuse e di complimenti.
Così fece conoscenza con la vicina. Da quel giorno, la bambina che aveva guardato con grandi occhi attoniti le tele disseminate per lo studio, cominciò a fare qualche visitina al suo protettore d’un momento. Si metteva a sedere sopra uno sgabello e restava estatica a guardare il lavoro dell’artista, così tacita e tranquilla che spesso Hauptig ne dimenticava la presenza; finchè la madre, comparendo un momento dal balcone, chiamava:
— Rosetta!... Ancora a disturbare il signore?... — e la piccolina, salutato gravemente il suo vecchio amico, andava via. La madre era molto bella; alta, bionda, ben fatta; ma Hauptig, dopo averla conosciuta, era rimasto più calmo di prima: non aveva neppur pensato di farle una visita, e la vedeva appena un istante, quelle rare volte che Rosetta, indugiatasi nello studio, la costringeva a venirla a chiamare. Nè, tanto meno, la donna mostrava d’esser rimasta turbata dall’artista; non aveva neppure avuto la curiosità, tante volte che s’era affacciata sulla soglia dello studio, di entrarvi.
Un giorno che il pittore lavorava, solo, ella apparve dinanzi al balcone, col cappellino in testa e l’ombrellino in mano, come se stesse per andar fuori o rincasasse proprio allora. Disse:
— Rosetta, ancora qui?... — ma la bambina non c’era. Hauptig si levò e andò a salutarla che la sua piccola amica non s’era vista. Restarono così un poco a parlare del lavoro del pittore; senza che nessuno dei due sapesse come, si trovarono vicini alla tela già quasi finita.
Dinanzi al quadro, la donna espresse, con parole che parevano sincere, la propria ammirazione; e Hauptig, solleticato nella sua vanità d’artista, mostrò gli altri suoi studii. Per osservare con agio un grande cartone pendente da una parete, ella sedette un poco sul divano. Hauptig si mise al suo fianco, spiegandole il soggetto. E a un tratto, vicino a quella donna bella ed elegante che gli parlava il dolce linguaggio della lode, dal cui corpo esalava un profumo acuto e turbatore, l’artista che non le aveva ancora dedicato un pensiero sentì la vampa del desiderio salirgli alla fronte; ma d’un desiderio violento, furioso, che gli annebbiò la vista e gli fece allungare le mani... E quella donna che non s’era mai occupata di lui, che non aveva ancora avuto neppure la curiosità di varcare la soglia dello studio, si lasciò prendere come da amante amato...
Non c’era stato fra loro null’altro fuorchè l’incontro di due desiderii e l’appagamento di due appetiti: l’artista tornò alle sue tele, la donna... a che cosa? Hauptig non ne sapeva nulla. Non sapeva se era maritata o vedova o libera, se aveva altri figliuoli, che cosa faceva in casa e fuori. La bambina tornava spesso a veder lavorare il pittore, e la mamma s’affacciava a chiamare: «Rosetta!» col tono un po’ corrucciato che soleva prendere quando la scopriva nello studio. Due, tre, parecchie altre volte ella tornò quando la bambina non c’era; nell’andar via gli dava convegno per un altro giorno, ma spesso non manteneva la promessa. Quando finalmente appariva, inaspettata, non dava ragione della mancanza; nè Hauptig ne chiedeva, un poco per discrezione, ma più per indifferenza. Quelle visite gli facevano comodo, e nient’altro; nè la sua amica chiedeva giuramenti o promesse, nè parlava di sacrifizii o di rimorsi. In quattro o cinque mesi non si scrissero un rigo, non scambiarono una sola parola arola romantica. Finalmente, stanco della pittura e chiamato in Germania da gravi interessi, l’artista annunziò un bel giorno che doveva partire. Nessuno versò una lacrima; si strinsero la mano da buoni amici che si debbono reciprocamente molte ore piacevoli. Ci fu, invero, la promessa di scriversi, e anzi Hauptig lasciò il suo indirizzo di Mannheim; ma nè ricevette nulla, nè si ricordò della promessa.
I mesi passarono un dopo l’altro; passò un anno, ne passarono due. Dopo due anni egli aveva quasi dimenticato quella donna, la cui figura si perdeva in mezzo a tante altre incontrate un momento e scomparse, quando un giorno ricevette una lettera scritta con carattere sconosciuto. Era di lei. Gli si rammentava, sicura ch’egli l’aveva già obliata. Gli chiedeva sue notizie, glie ne dava di Rosetta e di sè stessa. Diceva d’aver sofferto, senza spiegare nè come nè perchè. Tutta la lettera era scritta con un tono d’affettuosità timida, umile e quasi paurosa. Sperava di ricevere una risposta.
Hauptig, molto stupito, sospettò una cosa volgare ma naturale: colei preparava una domanda di quattrini. Però, curioso com’è, rispose senza far trasparire il suo sospetto, mantenendosi sulle generali. Ricevette una seconda lettera più calda della prima, e senza che avesse ancora risposto a questa seconda, una terza ancora più appassionata. Quella donna non aveva bisogno di danaro, ma d’un po’ d’affetto; con espressioni amaramente dolenti gli diceva di non aver raccolto sul proprio cammino altro che disinganni e tristezze; solo il ricordo di lui non era avvelenato, ed a lui si rivolgeva in un momento di nero sconforto. L’artista, un poco intenerito, un poco lusingato, ma più che altro curioso, rispose secondandola; e in breve le lettere di lei si moltiplicarono, piovvero tutti i giorni. Esse erano traboccanti di passione, scottanti di amore, bagnate di lacrime: Hauptig non ne aveva mai lette di simili. Ella non spiegava nulla, non diceva perchè era rimasta tanto calma quando, avendolo vicino, gli si era data senza sentir nulla per lui; nè perchè aveva lasciato passare due anni senza scrivergli una parola, quando poi, tutt’ad un tratto, il ricordo di quest’uomo doveva brillare nelle tenebre della sua esistenza, sino a fugarle. Ma aveva ella veramente bisogno di spiegare queste cose; e, benchè ignorasse le circostanze speciali nelle quali quella donna si era trovata al tempo del loro incontro e nelle quali si trovava adesso che tanta distanza li divideva, l’artista non era in grado di comprenderne la natura? Forse, quando s’erano incontrati, ella amava un altro, ed aveva ceduto a lui per capriccio, per curiosità, per debolezza; forse, con l’anima libera e serena, non aveva ascoltato altra voce fuorchè quella dei sensi: chi sa? Sono tante le ragioni per le quali il cuore resta freddo! Più rare sono quelle che lo infiammano; e la sofferenza della quale ella parlava non dava ragione del mutamento? Abbandonata, tradita, delusa, il bisogno di una cordiale consolazione era naturalmente nato in lei, ed ecco che la memoria di quell’uomo s’era ad un tratto svegliata. La rammentava egli ancora? Come pensava a lei? Perchè non le aveva mai detto una parola d’amore e non le aveva mai scritto? Aveva forse capito che, amando ella un altro, egli non poteva menar vanto del suo breve trionfo? L’amor proprio offeso lo aveva ridotto al silenzio? Forse egli era buono, diverso dagli altri, capace d’un sentimento sincero; forse anch’egli aveva sofferto... e non ci voleva altro che la spinta perchè, lavorando di fantasia, ella cominciasse ad attribuire tutte le qualità a quello sconosciuto e trovasse cento ragioni d’interessarsi a lui. Quando l’imaginazione aveva compito l’opera sua, ella aveva arrischiato la prima lettera; e per le risposte incoraggianti il sentimento era divampato, gagliardo e contagioso. Perchè, a leggere quelle lettere, a sapere quell’anima unicamente occupata dal suo ricordo, un turbamento profondo s’era prodotto nell’anima dell’artista; e quelle due creature che da vicino si erano amate al modo volgare, adesso che non si vedevano più e disperavano perfino di potersi mai rivedere, spasimavano entrambe d’ideale amore.
Le ho voluta narrare subito questa storia, mia cara amica, per rispondere alle sue ultime osservazioni.
Ella si compiace pensando che nelle anime grandi, ed anche nelle umili, che non siano però volgari, l’amore comincia con un puro commovimento. Se il poeta letterato compone il carme laborioso, il poeta contadino improvvisa la strofe ingenua, l’agreste stornello. Mentre l’istinto è aggressivo, impaziente, brutale; il sentimento è sommesso, delicato, remissivo. Dopo un tempo più o meno lungo la poesia dà luogo, ella dice, alla prosa; ma io non le farò il torto di dare al suo pensiero un significato che non ha e non potrebbe avere. Ella si lagna, è vero? perchè la prosa soffoca e disperde la poesia; ma riconosce, naturalmente, che non si può vivere di poesia unicamente. Ciò che ella chiama prosa, sopravviene necessariamente, e deve sopravvenire; ma senza soffocare la poesia, anzi alimentandola. La poesia che, se dapprima è purissima, è anche un po’ troppo nebulosa e inconsistente, diventa, dopo, mescolandosi alla prosa, un poco più torbida forse, ma anche più forte, più vera, più umana. Questo è l’ordine consueto delle fasi d’amore: un primo tempo di commozione tutta morale; un successivo risveglio dei sensi latenti, un periodo nel quale la poesia dà così strettamente la mano alla prosa che la prosa è tutta poetica. Ma non potrà accadere che la voce dei sensi predomini fin dal primo principio? Che l’istinto, troppo veemente, si manifesti subito com’è, senza alimentare il sentimento poetico? Certo, ciò non solo può accadere, ma accade ogni giorno; ed a lei che giudica così male l’amore degli uomini io non avrò bisogno di dire quante volte, anche dinanzi a donne che potrebbero nobilmente ispirarli, essi non provano altro che un semplice appetito. Certo è pure che con la repentina eccitazione dei sensi l’amore resta quasi sempre tutto sensuale; ma il sentimento mancato sul principio può sopravvenire.
Se, d’ordinario, la poesia iniziale si unisce più tardi alla prosa e anzi, secondo alcuni, si converte tutta in prosa, l’ordine delle fasi d’amore può capovolgersi e ad una prosa iniziale seguire una commozione poetica. Il caso di Hauptig di Mannheim mi pare un bell’esempio di questa specie di anacronismo morale, il quale non è molto frequente ad osservarsi; ma prova nondimeno, quando si avvera, che sentimento ed istinto non sono, come i materialisti vorrebbero dare ad intendere, la stessa e identica cosa, ma due diversi elementi della passione, che neppure si trovano sempre associati.