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Egli aveva appena sporto il capo, quando vide una bella bambina di otto o dieci anni precipitarsi, dal balcone aperto, nello studio e quasi trincerarsi, con aria tra spaventata e trionfante, dietro di lui; mentre una donna, fermatasi sulla soglia, esclamava ancora, ma con voce più concitata:
— Torna a casa, monella!... — e, alla vista del pittore, soggiungeva confusa: — Scusi, signore... scusi... Questi benedetti bambini!...
L’artista s’alzò, prese per mano la fanciullina, le diede una chicca e con belle maniere la rappattumò con la mamma. Giacchè era proprio la mamma, come egli seppe durante un breve scambio di nuove scuse e di complimenti.
Così fece conoscenza con la vicina. Da quel giorno, la bambina che aveva guardato con grandi occhi attoniti le tele disseminate per lo studio, cominciò a fare qualche visitina al suo protettore d’un momento. Si metteva a sedere sopra uno sgabello e restava estatica a guardare il lavoro dell’artista, così tacita e tranquilla che spesso Hauptig ne dimenticava la presenza; finchè la madre, comparendo un momento dal balcone, chiamava:
— Rosetta!... Ancora a disturbare il signore?... — e la piccolina, salutato gravemente il suo vecchio amico, andava via. La madre era molto bella; alta, bionda, ben fatta; ma Hauptig, dopo averla conosciuta, era rimasto più calmo di prima: non aveva neppur pensato di farle una visita, e la vedeva appena un istante, quelle rare volte che Rosetta, indugiatasi nello studio, la costringeva a venirla a chiamare. Nè, tanto meno, la donna mostrava d’esser rimasta turbata dall’artista; non aveva neppure avuto la curiosità, tante volte che s’era affacciata sulla soglia dello studio, di entrarvi.
Un giorno che il pittore lavorava, solo, ella apparve dinanzi al balcone, col cappellino in testa e l’ombrellino in mano, come se stesse per andar fuori o rincasasse proprio allora. Disse:
— Rosetta, ancora qui?... — ma la bambina non c’era. Hauptig si levò e andò a salutarla