Gismonda da Mendrisio/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto
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ATTO TERZO.


Nel castello.


SCENA I.


GISMONDA.


Non riede ancor. Da lui vendetta spero,
Alta vendetta! E se imitasse il padre....
Se indebolito da pietà obliasse
Anch’ei le ingiurie ricevute, e il proprio
Onore e i detti del monarca.... Ah, tutti
Deboli son fuor ch’io — Lassa! che dico?
Fortezza vera é questa? od è terrore
Non confessato? sentimento occulto
Di palpiti codardi e non mai vinti?
Volontà vana d’aborrire? e invece
D’aborrimento.... — Oh sventurata! oh vile!
Io l’amo ancora: e se colei non fosse
La cui vista m’uccide, ad Ariberto,
Riveggendolo, forse io perdonava.
Ma.... Gabriella al fianco suo è felice!
Felice! ed io?.... Nè i lunghi patimenti
In lei distrutta hanno beltà! Il fellone
Me attonito mirava: in faccia assai
Forse cangiata mi trovò. Men bella
Io di colei? — Da quel di pria diverso
Molto ei non é. Men baldanzosi ha gli occhi....
Ma non meno terribili! portanti
Nell’altrui core un tremito, un delirio....
Oh Ariberto! Oh me misera! Cangiato
Perchè si poco a me ritorna? Odiarlo
Non posso dunque? Il debbo; il vo’

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SCENA II.


ARIBERTO, IL CONTE E DETTA.


Ariberto.                                                                 Deh padre,
Lasciami: ecco Gismonda. A me s’aspetta
Placarla, io tanto l’oltraggiai!


SCENA III.


ARIBERTO E GISMONDA


Gismonda.                                                                 Chi veggo?
Ariberto.Donna....
Gismonda.                    Che ardisci?...
Ariberto.                                                  Di te in cerca il padre
E Gabriella ed io givam. Tuo sdegno
Nostre gioie avvelena; io più di tutti
Profondamente men rammarco. — Allora
Che a’guardi miei la milanese insegna
L’unica parve cui potessi il brando
Nobilmente sacrar, zelo soverchio
Trassemi a offenderer la tua stirpe, e avvolsi
Te ingiustamente nell’offesa. Or piaccia
A te scusar magnanima un furore
Che giovane commisi, uomo condanno.
Gismonda.Qual? non t’intendo. Il parteggiar pe’sogni
De’ribellanti?
Ariberto.                         No; arrossir non posso
D’aver seguito, ove il credetti, il giusto.
Bensì d’averti allor, men ch’io dovea,
Onoranza mostrato. Ed onoranza
Pur ti serbai nel core; e il dì ch’Ermano
Riparò il fallir mio, te a nostro padre
Nuora traendo, io consolato dissi:
«Ella sarà felice, e ad Ariberto
perdonerà.» — Se timido, se scarso
È il detto mio, non adirarti. Al labbro
Di chi fu reo, com’io fui teco, e pieno

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È di cordoglio e di desio di pace,
Mal la parola i sensi intimi svolge.
Gismonda, suora a me ti volle il cielo;
Immemor del passato, oh, a me sii suora!
Gismonda.Immemor del passato! — A me nè danno
Recavi tu nè oltraggio; ed in tua possa
Non era alcun recarmene. Io felice
Esser sapea, qualunque insania o colpa
Te strascinasse ad adorar gl’infami
Di Milano vessilli, e una sua donna.
Non che offesa tenermi io da Ariberto,
Benedetto anzi ho il dì che un nodo ruppe
Stoltamente promesso, e a non ribelle
Cavalier destinommi. — In te il nemico
Odio de’miei, di Cesare, d’Iddio:
Quindi a perdon qual siavi loco ignoro.
Ariberto.A’tuoi nemico e a Cesare, almen pensa,
Se scolparmi non vuoi, ch’io nella turba
Degl’infelici, de’proscritti or gemo.
Iniquo io fossi qual m’estimi — e iniquo
Non esser sento — il fulmin non ti basta
Che mi colpì? Non quell’Iddio, per cui
T’accende zel, non egli oggi palesa
Ch’ei mio lutto compiange e m’ama ancora,
Dacché pur dammi il riveder la fronte
Venerata del padre, e in questo padre
Trovar sì dolce di pietà conforto,
Dopo tant’ira che già l’arse? Ah, spero
Te pur placar. Verace, ossequïoso
In me un fratello avrai, Gismonda; e suora
Tenera a te sia Gabriella. — Ascolta,
Non mi fuggir.
Gismonda.                              Nominarla osi?
Ariberto.                                                           Oh cielo!
Che dici? ferma.
Gismonda.                                   Innanzi a me condurla!
Perfido!
Ariberto.               Degno di te fora, al tempo

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Che tante cose cancellò, i passati
Torti non chieder d’Ariberto.
Gismonda.                                                            I torti
Tuoi cancellar tempo non può.
Ariberto.                                                            Ammendati
In parte fur.
Gismonda.                            Da te?
Ariberto.                                        No; dagli eventi
Che ti fean moglie al fratel mio; che tutti
Ad altre cure, ad altri sacri affetti
A poco a poco ne avvezzò.
Gismonda.                                                       Avvezzarmi
Ad esecrarti potev’io: non posso
A sostener l’aspetto tuo, l’aspetto
Di colei che di mia stirpe a’nemici
Figlia nascea; di colei ch’ami, e ardisci
Suora propormi. Anzi che al seno accòrre
Tal serpe mai, con queste mani io stessa....
Trema! la mente mia celar non degno!...
Vo’soffocarla.
Ariberto.                                Oh atroce! eppur sovente
Proprio de’forti spirti è nobil varco
Dal furor più tremendo a generosa
Salda amistà. Più d’una volta al dolce
Sogno m’abbandonai, che se a te noto
Di Gabriella un dì fosse il modesto
Animo schietto e la pietà, odïarla
Più non potresti, e ch’ella ed io a Gismonda,
Al suo interceder, al suo esempio andremmo
Di domestica pace debitori.
Gismonda.Pace? pace osi chiedermi? Chi pace
A me togliea?
Ariberto.                              Gismonda.... io.... tue parole....
Gismonda.Che? mie parole? e creder osi...
Ariberto.                                                                 Sdegno
Orrendo ardeati: in te ragion lo spenga.
Gismonda.Spegnerlo? E foco mortal forse è questo?
Chi di spegnerlo mai balia mi tolse? —

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Vaneggio? — Il guardo in volto a che m’affiggi?
Ermano aspetto; in pugno il brando porgli
Vo’contro te; vo’ che di qui te scacci,
O me fuggiasca seco tragga.... ovunque,
Pur ch’io più mai tal traditor non miri!


SCENA IV.


ARIBERTO.


Seguirla più non oso. Inorridisco..
Ah non è dubbio! amor, gelosa rabbia,
Non odio è quello.


SCENA V.


GABRIELLA E DETTO.


Gabriella.                                    Ermano è giunto.
Ariberto.                                                                     È giunto?
Gabriella. Si; ma che ti conturba?
Ariberto.                                             In quest’istante
Al fratel presentarmi? — Odi. — Gismonda
Qui mi parlò. Se tu sapessi.... Insano
È l’intelletto suo: fuggila sempre;
Tutto da lei pavento!


SCENA VI.


IL CONTE, ERMANO, GISMONDA E DETTO.


Il Conte.                                         Ecco Ariberto.
Non arretrarti, Erman. No, da mie braccia
Non ti potrai sottrarre: al fratel tuo
Ti voglio amico.
Ariberto.1                              Mi respingi? Oh, farti
Dal genitor vuoi tu diverso? Appena
Ei mi rivide, in lui proruppe intero
L’antico amor. Gli scórsi anni d’angoscia
Cessò d’apporre a colpa mia. Non colpa

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D’alcun di noi, ma ineluttibil opra
Fu degli avvenimenti e del leale
Nostro desio di vera gloria il vario
Da noi preso cammin. Per quella causa
Che a ciascuno di noi santa parea
Combattemmo sinceri. Oh! se la mia
Cader dovette, e profugo, inseguito,
Fra vostre braccia asilo cerco, un nome
Da delitti oscurato io pur non reco.
Quando alle orecchie tuo rimbombo alcuno
De’miei fatti giungea, di vili fatti,
Dimmi fu mai?
Il Conte.                              No, il padre tuo l’attesta;
Il padre tuo, che mentre inesorato
Malediceati, udia con gioja in campo
Il tuo valore e tua pietà sui vinti.
Ariberto.Ed io con gioja udia come tra i sommi
Di Barbarossa eroi, fulgean di gloria
Il padre mio e il fratello, e presagiva
Stagion di pace e di perdono, in cui
Giusto fra noi tributo alterneremmo
D’amorevole encomio. Ermano, ignori,
Ignori tu ch’a me i prigion sovente
Ridicean tue parole, e ch’io superbo
Era, allorchè intendea che m’appellavi
Nelle falangi milanesi il primo?
Ignori tu, ch’io spesse volte irato
Delle stolte discordie popolari,
Usciva in campo senza ardore, e fiacco
Sarebbe stato il braccio mio, ma il padre
E il fratel sovvenianmi, e lor memoria
Erami sprone ad onorate imprese?
Ermano.Ignoro come il padre affascinato
Abbian tue voci astute: inverecondia
È in esse tal che a sdegno move. A imprese
Onorate spronavati memoria
Dolce d’un padre, d’un fratel che in guerra
Nemico aveanti formidabil, truce?

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Onorato era ne’ lor petti i ferri
Scagliar di tue falangi? Onorato era
Non poter trïonfar, se non a danno,
Ad ignominia d’un fratel, d’un padre?
Ariberto.Onorato era il pianger di tai cari
L’errore e non dividerlo, e sforzato
Da coscïenza a battagliar contr’essi
Mostrarsi di lor degno, esercitando
Le virtù della guerra.
Ermano.                                             Io della guerra
Chiamo virtù le forti imprese, allora
Che non è scellerata: in un campione
Di fellonia, le forti imprese aborro,
E misfatti le chiamo.
Ariberto.                                           In un campione
Di fellonia! Non invitarmi a esame
Che a mio disdor non torneria, — che sparmio
Per reverenza del miglior de’padri.—
Chi tradì Federigo? i generosi
Che a’ suoi furori s’opponeano, o quelli
Che a tai furor plaudean, che suscitando
La sua superbia, trasformaro in mostro
Un grande spirto? Io non di ciò v’incolpo:
L’intento guardo; e puro, alto l’intento
So ch’era in voi. Ma zel d’amor vi spinse
A cooprar con molte tigri il lutto
Della misera terra onde siam figli;
E la vittoria che v’arrise, ahi, gronda
Di tali stragi, ch’esultarne è obbrobrio.
Ermano.Se mai fu strage glorïosa, è quella
Che una città di perfidi atterrando
Salva l’imper.
Ariberto.                         Per voi l’impero è Svevo,
Non per me, no. Per voi l’impero è il cenno
Di Barbarossa: per me impero è quello
Della giustizia. A sostenerlo il sangue,
A ristorarlo io sparsi.
Il Conte.                                            O figli miei,

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Che val contender di diritti? Ognuna
delle due parti da tant’anni grida
«Meco sta Dio!» Vanta fautore ognuna
Un romano pontefice; rimbrotta
All’altra ognuna atrocità e perfidie.
Sciorran la lite i posteri, ne forse
Sciorla sapran, se non com’or, qual l’una
Parte, qual l’altra condannando.
Ariberto.                                                                  E i savi
Compiangendole entrambe.
Il Conte.                                                        Ed in entrambe
Delitti ravvisando a virtù misti.
Ermano. Dio la lite sciogliea: Milano è polve.
Ariberto. Dio dalla polve suscitar può vita.
Ermano. Indomita la speme è de’superbi.
E tu serbala, iniquo; il dì vagheggia
Che Milano risorga, il dì che oltraggio
Drizzar tu possa, d’umil prego invece,
E al padre novamente ed al fratello
Minacciar ferri e morte. Oggi frattanto
Qui non tu signoreggi, e ogni minaccia
Risibil suona.
Ariberto.                          Di Mendrisio il conte
Qui signoreggia, il padre mio, cui pari
Sudditi sono i figli suoi.
Ermano.                                                 Che? pari
Sudditi sono un figlio obbedïente
E un traditor?
Il Conte.                             Tacete, io ve l’impongo!
Soverchio orgoglio è in ambo voi. Temprarlo
In te, Ariberto, dee la rimembranza
De’falli tuoi: temprarlo dee in Ermano
La rimembranza che dai veri prodi
Vietata è ogni villana ira sui vinti.
Temprarla in ambo dee la rimembranza
Dell’antica amistà, del comun sangue.
Ermano. Dover mi spinge.
Il Conte.                                    Obbediente figlio

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Ti vanti; il fosti: d’esser tale or cessi?
Ermano.Inaudita ingiustizia! Uno consacra
Al filïale ossequio ed all’onore
Tutti i suoi giorni, al tradimento l’altro,
E agli occhi di lor padre eguali sono.
Il Conte.La pecora perduta era del gregge
Or la racquisto, non degg’io esultarne?
Deggio perché ritorna io maledirla?
O Ermano, chiudi a bassa invidia il core;
Aprilo a sensi generosi. Io nulla
Dell’amor mio ti tolgo e della lode
Che mertano tuoi giorni intemerati,
Se ad altro figlio che fallìa perdono. — 2
Che fia? Quel suono ospiti annuncia. — Come?
Di sveve aste un drappello?
Gabriella.                                                       O sposo, io tremo.
Dove siam noi?
Ariberto.                              T’acqueta. A si buon padre
Posare a fianco può securo un figlio.
Il Conte.Ermano, Erman, chi son color? che festi?
Sul padre, sul fratello ardito hai forse
Quelle spade invocar?
Ermano.                                             Da me invocate
Non contra te, contra il ribelle furo
Che a fascinarti venne.
Il Conte.                                             Empio!
Ermano.                                                            Le guida
Il Margravio d’Auburgo: egli udì il messo
Che d’Ariberto m’annunciò il ritorno;
Meco fremé, seguimmi. Eccolo.3
Gabriella.                                                                 Il figlio
Sottraggi, il cela.
Il Conte.                                   Uso a mentir non sono:
Apertamente il figlio mio proteggo.

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SCENA VII.


IL MARGRAVO E DETTI.


Margrav.Onore al Conte di Mendrisio e al prode
Suo figlio Ermano e a queste donne. — O Conte,
Del nostro augusto imperador t’è ignoto
Esser divieto il dar ricovro o passo
A ribellanti? Chi al tuo fianco innalza
Baldanzosa la fronte? Ei tal nemico
Fu, che nè a voi perdoneria il monarca,
Nè a me il lasciarlo: prigionier vel chieggo.
Ariberto.Che?
Il Conte.          Margravio d’Auburgo, errasti. Io, passo
Non concedo o ricovro a ribellante:
Questi del Conte di Mendrisio è figlio.
Margrav.Che intendi?
Il Conte.                         Figlio ei più non m’era allora
Che contra il signor mio rotava il brando.
Inerme or vien, d’obbedïenza e pace
Ed onor desïoso; egli è mio figlio.
Margrav.Bada....
Il Conte.          Ragion dell’oprar mio al regnante
Renderò piena.
Margrav.                         Qual potere io m’abbia
Pur su’lombardi feudatari — leggi —
Tel dirà questa carta.
Il Conte.                                        Ho letto. Augusto
Per molti casi ampio poter ti dava,
Ma in altro tempo. E il caso io qui non veggo
In cui ricetto chiegga a padre un figlio,
Un figlio inerme al dover suo tornato.
Ospizio or t’offro; al signor nostro poscia
Reca le mie parole: io a lui mi rendo
Mallevador per Ariberto.
Margrav.                                             Duolmi
Che tua proposta rigettar m’è forza.

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So dell’imperador qual sia la mente:
Fellon mi chiameria, s’io d’Ariberto
Qui non m’impodestassi.
Il Conte.                                                       Impodestarsi
Dato è a null’uom di chicchessia, ov’io reggo.
Margrav.Dato a null’uom quando sovrano è il cenno?
Il Conte.Sovrano cenno non è questo. Augusto
Benignamente udrà d’un padre il grido
Che il figlio suo protegge.
Margrav.                                                       Ospizio dunque
Da te accettar mi vieta onor. Matura
I tuoi consigli. Chi Milan distrusse,
Temeria d’un castel la tracotanza?4
Il Conte.A me si audaci modi?
Ermano.                                             O padre, il forte
Non irritar: lo placheran miei detti.5
Ariberto.D’assalirti il Margravio arrischierebbe?
Il Conte.Altre difese il castel mio sostenne.6

SCENA VIII.


GABRIELLA E GISMONDA.


Gabriella.Gismonda, non fuggirmi; odi: commossa
Io ti vidi un istante, allor che il padre
Fra le braccia un dell’altro i figli suoi
Spinger volea.
Gismonda.                              Commossa io?
Gabriella.                                                          Non m’inganno.
E allor ch’al fratel suo disse Ariberto:
«Di fatti miei che fosser vili, udisti?» —
«No!» sclamò forte il Conte; e «no!» sfuggia
Quasi dal labbro tuo: «no!» sfavillando
Gli occhi diceano.
Gismonda.                                   Insana! Odio negli occhi

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Di Gismonda sfavilla.
Gabriella.                                             Odio non era
In quell’istante: or sì! — Lo sguardo pure
Pósi io su di te, quando Ariberto disse:
«Ignori tu, fratel ch’a me i prigioni
Ridicean tue parole, e ch’io superbo
Era allorchè inteadea che m’appellavi
Nelle falangi milanesi il primo?»
No, non errai, Gismonda: impallidito
Era il tuo volto da pietà, anelava
Secretamente il petto, e dir parevi:
«Come non cede Ermano ancor?» — Ciò vidi,
E in me dolce speranza indi risorge
Che tu ad Ermano miti sensi ispiri.
Deh! il periglio tu scorgi; a dileguarlo
Sollecita t’adopra.
Gismonda.                                      E allor....
Gabriella.                                                       Da Ermano
Placato fia lo svevo duce, e quindi
L’imperador; in questo albergo pace
Regnerà tra’fratelli: a te di tanta
Felicità debitori essi e il padre
Ed io saremo e i figli miei....
Gismonda.                                                       Tuoi figli!
Tuoi figli i figli d’Ariberto!
Gabriella.                                                       Oh cielo!
Qual furor! che ti feci?
Gismonda.                                             Oh!.... che mi festi?....7
Gabriella.Così mi lascia? — Che sarà? In singhiozzi
Or prorompe....Infelice! Ah, ch’io la segua!

Note

  1. Ad Ermano.
  2. S’ode un suono di corno; il Conte va alla finestra.
  3. Al Conte.
  4. Parte.
  5. Parte.
  6. Parte e seco Ariberto.
  7. Parte.