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atto terzo. — sc. vi. 241

Onorato era ne’ lor petti i ferri
Scagliar di tue falangi? Onorato era
Non poter trïonfar, se non a danno,
Ad ignominia d’un fratel, d’un padre?
Ariberto.Onorato era il pianger di tai cari
L’errore e non dividerlo, e sforzato
Da coscïenza a battagliar contr’essi
Mostrarsi di lor degno, esercitando
Le virtù della guerra.
Ermano.                                             Io della guerra
Chiamo virtù le forti imprese, allora
Che non è scellerata: in un campione
Di fellonia, le forti imprese aborro,
E misfatti le chiamo.
Ariberto.                                           In un campione
Di fellonia! Non invitarmi a esame
Che a mio disdor non torneria, — che sparmio
Per reverenza del miglior de’padri.—
Chi tradì Federigo? i generosi
Che a’ suoi furori s’opponeano, o quelli
Che a tai furor plaudean, che suscitando
La sua superbia, trasformaro in mostro
Un grande spirto? Io non di ciò v’incolpo:
L’intento guardo; e puro, alto l’intento
So ch’era in voi. Ma zel d’amor vi spinse
A cooprar con molte tigri il lutto
Della misera terra onde siam figli;
E la vittoria che v’arrise, ahi, gronda
Di tali stragi, ch’esultarne è obbrobrio.
Ermano.Se mai fu strage glorïosa, è quella
Che una città di perfidi atterrando
Salva l’imper.
Ariberto.                         Per voi l’impero è Svevo,
Non per me, no. Per voi l’impero è il cenno
Di Barbarossa: per me impero è quello
Della giustizia. A sostenerlo il sangue,
A ristorarlo io sparsi.
Il Conte.                                            O figli miei,