Giacinta/Parte terza/VIII

VIII

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VIII.

— Oh, ecco Gerace! — esclamò il Ratti, che s’accorse il primo dell’entrata di lui.

In quella stanzetta sul mezzanino del Caffè della Pantera, col pretesto di bere fra amici un bicchiere di Chianti o di vino marchigiano, si faceva quasi ogni sera un giochetto d’azzardo, da vincervi o perdervi belle centinaia di lire. [p. 215 modifica]

Andrea mancava di rado; un’aura di fortuna lo favoriva, dopo una disdetta di parecchi mesi. Quella sera però non si sentiva in vena; era di cattivo umore.

— No, non seggo, — rispose al Ratti, che voleva fargli posto accanto a sè.

E andò vicino al cavalier Mochi, da cui gli era stato accennato d’accostarsi.

— Sapete? L’ha messo alla porta il povero Merli.

— Come ne sarà contento! — rispose Andrea.

— Ah, questa è carina!

— Che c’è di nuovo? — domandò Porati, alzando il suo faccione apoplettico, rimescolando le carte.

Mochi ripetè la risposta d’Andrea.

— Non è carina?

— Perfetta!

Mentre tutti ridevano, il Mochi s’era piegato verso l’orecchio del ricevitore, che si mangiava i baffi zitto zitto.

— Un giorno o l’altro, — gli disse, — Giacinta farà lo stesso con lui. Il dottor Follini sta per dargli il gambetto.

Colui continuò a rodersi i baffi, senza rispondere; perdeva.

— Ecco il vostro fante di cuori! — esclamò il Porati, rivolgendosi a Gerace.

Andrea, dopo aver risposto col capo che quella sera non giocava, a un tratto, mutato parere, cavò dal portamonete un biglietto da cinquanta, lo avvolse a pallottola e lo buttò sul tappeto verde. Il fante di cuori vinceva.

— E bisogna anche pregarvi! — disse il Porati con stizza.

Ratti insisteva perchè Andrea andasse a sederglisi accosto: [p. 216 modifica]

— Voi portate fortuna.

Ma Andrea girava attorno al tavolino, fermandosi dietro le spalle di chi teneva la mano, lasciando sul tappeto la sua posta, che si raddoppiava ad ogni colpo.

Trovatosi vicino al Ratti, questi lo afferrò per la falda del vestito:

— Senza di voi, sarebbe stato un vero disastro per me. Non vi lascio più andare.

Le carte erano ritornate in mano al Porati, che le mescolava, ne faceva dei mucchietti da rimescolare a parte accuratamente, per rompere la sua disdetta. Quei tre biglietti da cento, che Andrea lasciava lì, sul tappeto, gli facevano gola e se li divorava con gli occhi. Ma come perdette anche lui, buttò via le carte e si alzò dal tavolino sbuffando. Si alzarono tutti.

— Badate, Gerace — venne a dirgli il Mochi. — Da qualche tempo in qua voi vincete spessissimo... Non è buon indizio. Fortunato in amor non giochi a carte, insegna il proverbio... E quel povero Merli! Dev’essersi ridotto noioso parecchio, col suo romanticismo, se neppure l’Ernesta non ne ha potuto più.

— È un bravo ragazzo — rispose Andrea.

— Certamente. Ma noioso. Buona notte, signori.

E il Mochi andava via, aggiustandosi la lente all’occhio sinistro, sorridendo appena, con le labbra un po’ contorte.

Nel tornare a casa, Andrea s’era sciorinato, come per scuotersi d’addosso nella frescura notturna l’opprimente, indefinito malessere portato via da casa Grippa di San Celso. Nell’anticamera accese un cerino e infilò l’andito in punta di piedi. Ma, passando davanti l’uscio a cristalli della camera [p. 217 modifica] d’Elvira, al vederlo socchiuso, si fermò: e accese un altro cerino.

— Era una dimenticanza?... O la povera ragazza, sentitasi venir male, aveva aperto l’uscio, chiamato al soccorso, e nessuno aveva udito?

Stava per affacciarsi dentro, ma si trattenne:

— No; poteva sembrare una sconvenienza.

E, sempre in punta di piedi, passò oltre.

Appena Elvira, agitandosi sul letto, fu ripresa dalla tosse, Andrea si mise ad origliare dietro l’uscio chiuso a chiave, che separava le due camere:

— Povera ragazza! Dorme così poco la notte!

Al tossicchiare dell’ammalata egli provava, ogni volta, un senso di oppressione al petto, un’intima commozione dolorosa, della quale, intanto, si compiaceva. Quella sera però, il ricordo della scena con Giacinta lo spingeva, negli intervalli di silenzio, a divagare:

— Come s’era impigliato da sè stesso in una rete più fitta! Gli accadeva sempre così! Geloso, lui? Nemmeno per sogno. Avrebbe abbracciato con gratitudine chi fosse riuscito a soppiantarlo... Sì? Menti. Alle strette, diventi vile! — egli s’interrompeva, apostrofandosi a bassa voce. — Perchè non era stato coi volontari di Garibaldi? Non gli era bastato l’animo. La sua schiavitù, in fondo in fondo, non gli dispiaceva!

Se la rinfacciava, spietatamente, per incitarsi con la vergogna, insistendo, ecco nell’altra camera un lieve rumore di tazza o di bicchiere posato sul marmo:

— Povera ragazza! Ingoia tanti intrugli!... E sarà inutile: morrà consunta!

Al brivido che gli corse per la schiena restò immobile, cogitabondo. [p. 218 modifica]

E mentre la gentile figura d’Elvira gli sorrideva pietosamente nella fantasia, come una bella visione inondata di mite luce argentea, ecco l’altra, quella di Giacinta, che gli si piantava di faccia, muta, senza un gesto, terribilmente irta di rimproveri...

— Che colpa n’aveva lui? C’entrava forse la volontà nel mutamento del suo cuore? Non si ama quando si vuole, ma quando si può. Ah! La sua vera e sola colpa era il mentire! Che vita!... Che catena!... Dio, come le si spezza il petto a questa povera ragazza!

Lo scricchiolio del lettino ad ogni scossa di tosse, gli pareva proprio quello di tutte le costole del magro corpicino dell’ammalata.

Stette ancora un pezzo in ascolto; poi, sentendosi intirizzire, cominciò a spogliarsi. E così in maniche di camicia, aperto senza far rumore un cassetto per riporvi delle carte, trasalì alla vista del ritratto di Giacinta, che, ora tenuto nascosto, gli era balzato sotto gli occhi come un’improvvisa apparizione.

La testa china da una parte un po’ indietro, con lo sguardo intento che pareva volesse penetrargli sino al fondo del cuore, la bocca ingrandita dall’esagerazione delle ombre, le labbra quasi sarcastiche, il mento rilevato, che spiccava sul nastro di velluto nero attorno al collo; l’atteggiamento della persona, con quella tunica di felpa bianca, dal largo bavero, allacciata con grossi cordoni, il gesto con cui teneva fra le mani il ventaglio; tutto le dava un aspetto civile e superbo che in realtà non aveva.

Andrea la guardava, scrollando il capo:

— Era ben cambiata!... Ah! I bei giorni del loro amore non sarebbero tornati più... Ed eran passati così presto!... Che sbaglio per tutti e due! [p. 219 modifica]

Al rapido risvegliarsi di tanti dolci ricordi, s’impietosiva per lei e per sè.

— Quell’attaccamento, quella sommissione d’animale domato, non l’avrebbe mai vinta? Mai?

E alzava rabbiosamente gli occhi al soffitto.

— Aveva torto!... Era un ingrato!... Fatalità! La sua liberazione però doveva arrivare!

E il portafoglio di bulgaro ch’egli contorceva tra le mani, mandava un leggiero scricchiolìo, facendo le boccacce dagli scompartimenti foderati di seta celeste, pieni di biglietti di banca.

— Settecento lire!

Lo buttò con disprezzo nel cassetto e si dispose a entrare in letto. E intanto che finiva di spogliarsi, i suoi occhi neri e grandi, luccicanti d’avidità, erano abbagliati da una confusa fantasmagoria di carte febbrilmente rimescolate, di mucchi di biglietti di banca e di monete d’oro, che apparivano e sparivano sopra un tappeto verde, continuamente.