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— Voi portate fortuna.

Ma Andrea girava attorno al tavolino, fermandosi dietro le spalle di chi teneva la mano, lasciando sul tappeto la sua posta, che si raddoppiava ad ogni colpo.

Trovatosi vicino al Ratti, questi lo afferrò per la falda del vestito:

— Senza di voi, sarebbe stato un vero disastro per me. Non vi lascio più andare.

Le carte erano ritornate in mano al Porati, che le mescolava, ne faceva dei mucchietti da rimescolare a parte accuratamente, per rompere la sua disdetta. Quei tre biglietti da cento, che Andrea lasciava lì, sul tappeto, gli facevano gola e se li divorava con gli occhi. Ma come perdette anche lui, buttò via le carte e si alzò dal tavolino sbuffando. Si alzarono tutti.

— Badate, Gerace — venne a dirgli il Mochi. — Da qualche tempo in qua voi vincete spessissimo... Non è buon indizio. Fortunato in amor non giochi a carte, insegna il proverbio... E quel povero Merli! Dev’essersi ridotto noioso parecchio, col suo romanticismo, se neppure l’Ernesta non ne ha potuto più.

— È un bravo ragazzo — rispose Andrea.

— Certamente. Ma noioso. Buona notte, signori.

E il Mochi andava via, aggiustandosi la lente all’occhio sinistro, sorridendo appena, con le labbra un po’ contorte.

Nel tornare a casa, Andrea s’era sciorinato, come per scuotersi d’addosso nella frescura notturna l’opprimente, indefinito malessere portato via da casa Grippa di San Celso. Nell’anticamera accese un cerino e infilò l’andito in punta di piedi. Ma, passando davanti l’uscio a cristalli della camera d’El-