Giacinta/Parte seconda/XIX

XIX

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XIX.

Dalla stanza dove i dottori aspettavano il loro collega pel consulto, si sentiva di tanto in tanto un urlo, un guaito del povero signor Paolo divorato dalla podagra. Questa volta era troppo! Quei cani arrabbiati che gli pareva d’aver dentro, dopo aver rose le estremità, montavano su, su, per finirlo!

— No, babbo è un accesso come gli altri: lo ha detto il dottore.

Giacinta, accorsa a installarsi da infermiera al capezzale del malato, lo andava confortando così; ma non era sincera. [p. 171 modifica]

— Povero babbo! La sola persona che non m’abbia mai fatto del male! — ella pensava, guardandogli le mani deformate, i piedi rigonfii, stirati sopra un monte di cuscini.

— Povero babbo! — tornava ad esclamare internamente, vedendo la mamma che non si fermava mai più di qualche minuto in camera del malato, perchè — assicurava — non poteva reggere a tanto strazio!

Di là, i dottori attendevano, consultando spesso l’orologio, in compagnia di Andrea e del conte. Mentre questi, seccato, mettevasi a guardare le stampe in cornice appese alle pareti, Andrea batteva il tamburo con le dita sulla spalliera d’una sedia.

— È stato cinque anni in America — disse il dottor Balbi al vecchio collega seduto accanto a lui.

— Medicina americana! — rispose l’altro.

E Andrea, vedendogli fare quella smorfia di disprezzo, pensò:

— Hanno paura che il nuovo arrivato non ammazzi la gente più alla spiccia di loro!

Il dottor Follini, preceduto dalla contessa, giunse all’ora precisa, e i due dottori, salutatolo, lo squadrarono da capo a piedi. Quel giovane, alto, snello e biondo, non prometteva nulla di serio. Ma il Balbi, con la sua aria di dottore che la sa lunga, non fu meno cortese per questo. E cominciò la relazione ab ovo, parlando lentamente, riposatamente, con pause soffiate di naso, e citazioni latine. Il dottor Costa, rovesciata indietro la testa di bulldog, con la bocca e gli occhi socchiusi, pareva mezzo addormentato dalla monotona voce del collega. Il dottor Follini ascoltava attentamente, con deferenza. E di tratto in tratto, i guaiti del signor Paolo arrivavano, strazianti, a interrompere l’intercalare: veda, [p. 172 modifica] veda, che il dottor Balbi profondeva in quest’occasione con più frequenza del solito.

Il dottor Follini non rispose nulla: volle entrare dall’ammalato. E neppure lì aperse bocca.

I due vecchi colleghi si guardavano negli occhi, sorpresi dal silenzio di quel ciarlatano all’americana, com’essi già lo chiamavano fra loro.

Tornati in salotto, il Follini disse:

— A mali estremi, rimedi estremi; io, disperatamente, propongo il curare.

Quegli altri si ammiccarono malignamente, diffidenti:

— Il curare aveva detto?

— È un terribile veleno — continuò il dottor Follini. — Preso per bocca, anche a grandi dosi, non produce cattivi effetti; è anzi, per le malattie nervose, un rimedio efficacissimo. Sciolto nell’acqua e iniettato nel sangue con la punta d’uno spillo intintovi dentro, uccide in pochi minuti. Stranissimi i sintomi. L’uomo o l’animale colpito prova una specie di stordimento, una stanchezza, e pare si addormenti. In una foresta del Brasile ho veduto morire così un indiano. La freccia avvelenata, tirata ad un uccello, gli era caduta addosso, ferendolo a un braccio. — È finita! — esclamò! E toltasi di spalla, insieme con l’arco e le frecce, la piccola scatola di bambù che conteneva il veleno, si adagiò sull’erba. Dieci minuti dopo era morto, senza il più lieve contorcimento.

Giacinta non aveva perduto una sillaba della strana narrazione.

Una settimana dopo la disgrazia del suo povero babbo, trovata nel taschino della veste la boccettina che il dottore le aveva affidato per somministrare il rimedio all’infermo, provò un brivido di terrore; e [p. 173 modifica] se la lasciò cascar di mano, quasi avesse potuto inavvertitamente avvelenarsi.

— Sciocca! Che pericolo c’è?

Ripresa la boccettina, accostatasi alla finestra, osservò in pieno sole, con viva curiosità, quel pezzettino di roba scura simile a un chicco di canapuccia.

— La morte! Pare impossibile!

E pensava a quell’indiano che, toltisi di spalla l’arco, le frecce e la scatola di bambù, s’era sdraiato sull’erba per morire. Le pareva di vederlo, sotto gli alberi della foresta, con tanta evidenza come lo aveva descritto, il Follini.

— La morte! Una morte rapida, sicura, dolce come il sonno!... Ma che me n’importa? Oh, la vita è troppo bella; io l’assaporo appena. È fin bella anche quando è trista.

Ma intanto voltava e rivoltava la boccettina contro il sole, intenta, affascinata dal chicco nerastro che poteva dare una morte dolce al pari del sonno.