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veda, che il dottor Balbi profondeva in quest’occasione con più frequenza del solito.

Il dottor Follini non rispose nulla: volle entrare dall’ammalato. E neppure lì aperse bocca.

I due vecchi colleghi si guardavano negli occhi, sorpresi dal silenzio di quel ciarlatano all’americana, com’essi già lo chiamavano fra loro.

Tornati in salotto, il Follini disse:

— A mali estremi, rimedii estremi; io, disperatamente, propongo il curare.

Quegli altri si ammiccarono malignamente, diffidenti:

— Il curare aveva detto?

— È un terribile veleno, — continuò il dottor Follini. — Preso per bocca, anche a grandi dosi, non produce cattivi effetti; è anzi, per le malattie nervose, un rimedio efficacissimo. Sciolto nell’acqua e iniettato nel sangue con la punta d’uno spillo intintovi dentro, uccide in pochi minuti. Stranissimi i sintomi. L’uomo o l’animale colpito prova una specie di stordimento, una stanchezza, e pare si addormenti. In una foresta del Brasile ho veduto morire così un indiano. La freccia avvelenata, tirata ad un uccello, gli era caduta addosso, ferendolo a un braccio. — È finita! — esclamò. E toltasi di spalla, insieme con l’arco e le frecce, la piccola scatola di bambù che conteneva il veleno, si adagiò sull’erba. Dieci minuti dopo era morto, senza il più lieve contorcimento.

Giacinta non aveva perduto una sillaba della strana narrazione.

Una settimana dopo la disgrazia del suo povero babbo, trovata nel taschino della veste la boccettina che il dottore le aveva affidato per somministrare il rimedio all’infermo, provò un brivido di terrore; e