Giacinta/Parte seconda/IX

IX

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IX.

Il cavalier Mochi s’era incontrato col Savani, mentre questi montava in carrozza davanti il portone della Banca nazionale.

— A che siamo?

— Con l’acqua fino al collo. Ma neppure questa volta annegheremo.

Tre giorni dopo, quando la crisi scoppiò, egli non era più così sicuro.

La gente accorreva in folla a la Banca agricola assai prima dell’apertura degli sportelli: facce pallide, occhi rossi dal pianto, bocche urlanti bestemmie e minacce, braccia che agitavano rabbiosamente cambiali e libretti di deposito: un po’ di carta imbrattata!

Andavano attorno le voci più strane:

— Il Savani era scappato! — La cassa e il cassiere non si trovavano più! — Il Savani era arrestato! — Gli arrestati eran parecchi!

E se ne dicevano i nomi.

Si vedeva bene che, con le promesse di grossi guadagni, la Banca aveva fatto delle retate in tutte le classi sociali. Qua e là, dei fattori — col loro costume campagnolo che dava negli occhi — volgevano [p. 134 modifica] attorno certi visi scuriti, ancora increduli, e domandavano informazioni, o guardavano fisso quelle finestre rimaste sinistramente chiuse e quel portone che opponeva alla loro impazienza la sua dura faccia di legno.

— Una manata di ladri!

— Bisognerebbe impiccarli ai fanali, per dare un esempio!

— Signori, un po’ di largo!

Il delegato di pubblica sicurezza stentava a farsi strada, seguito da una ventina di questurini.

— Bella giustizia! Proteggono gli assassini della povera gente!

Ai colpi del martello di bronzo che picchiava al portone, prorompeva una salva di fischi e di urli.

— Sì, sì, picchiate pure! Son scappati!

— Abbasso i ladri!... Vogliamo il sangue nostro!

— Signori, un po’ di calma!

Il delegato gesticolava, si sgolava, mentre le guardie, un po’ con le buone un po’ con gli spintoni, facevano indietreggiare la gente.

— Calma, calma, signori!

E tentava di persuaderli che forse si allarmavano a torto:

— La cassa verrà aperta all’ora solita. Non dubitate... Fate coda, a due, a tre, gli uni dietro gli altri. Vorreste rovesciarvi dentro tutti ad una volta? Calma, signori!

Al secondo piano, nel salotto della Marulli, era un andare e venire di amici che entravano pel cancello del giardino, dalla parte di dietro.

Il Porati, bianco come un cencio lavato, col pancione che scoppiava fuor della poltrona, si asciugava continuamente il sudore e guardava attorno come un ebete: [p. 135 modifica]

— Ah, questa volta finiva male!... Se il Savani avesse dato retta a lui! Aveva voluto fare di sua testa!

Anche la signora Teresa si mostrava abbattuta.

— Sfido io! — disse Ratti al Villa in un orecchio. — La Banca era una bella poppa!

L’ingegnere scoppiò a ridere: l’idea della poppa gli parve buffa. Molti si voltarono a guardarlo.

— Che c’era da ridere in quel frangente? Quel Villa era un cretino! Che ne capiva del credito e degli affari che andavano giù a rotta di collo?

— Vi confondete? L’importante è che la Banca paga, da tre ore. Duri un’altra oretta, e sarà salva.

— Pare lo facciano apposta! La maggior parte dei libretti di depositi presentati alla riscossione sono con cifre grosse.

— Meglio. Infatti, vedendo che si continua a pagare, l’effervescenza è scemata.

Entrò il giovane Porati, che andò difilato da suo padre e cominciò a parlargli sotto voce. Il signor Ottavio scrollava la testa, passandosi il fazzoletto sulle labbra asciutte, rianimandosi un pochino. E quando Ernesto ebbe finito, tutti lo circondarono fra una tempesta di domande.

— Le cose andavano bene. Quel povero diavolo del cassiere si batteva come un eroe, freddo, imperterrito, tirando le operazioni in lungo, più che poteva, con gli occhi all’orologio. La Banca nazionale aveva mandato dei soccorsi. Giù c’era un contabile di essa e il Gerace in conferenza col commendatore. S’aspettava il direttore della Banca popolare. Bella questa solidarietà dei diversi istituti di credito!

Marietta trasse in disparte la signora Marulli per avvisarla che il signor commendatore l’attendeva nel salotto della signora contessa. [p. 136 modifica]

— Vengo subito.

Ma continuò altri cinque minuti a ragionare col cavalier Mochi e con due azionisti della Banca, per non insospettir questi; poi uscì.

Giacinta, in piedi, appoggiata alla spalliera di una seggiola, seguiva con lo sguardo il commendatore che andava su e giù pel salotto, tirandosi nervosamente le fedine grigie, lanciando delle torve occhiate di traverso.

— Pover’uomo! Le faceva compassione. Senza la compra della palazzina... Ma già, forse, avrebbe fatto una grossa corbelleria.

All’arrivo della mamma, Giacinta si accostò alla finestra dove il conte Giulio stava a guardare la folla, dietro la persiana, divertendosi come un ragazzo.

— Teresa, — disse Savani concitato, andandole incontro e prendendola familiarmente per una mano; — Teresa, quelle trenta mila lire? Ricorro a voi proprio all’ultimo.

— Quali? — rispose la Marulli.

Savani capì il vero significato di quell’accento di sorpresa, e disse subito:

— Oh, non le perderete!... Uno, due giorni soltanto... Ve lo giuro.

— Ma, ecco...

— Non le perderete! Manca un quarto d’ora alla chiusura. Venticinque, trenta mila lire possono salvar la banca da un disastro. Abbiamo fatto miracoli. Ho buttato tutto il mio nell’abisso; lo ripescherò più tardi. Se oggi si chiudesse la cassa senza arrestare i pagamenti... Teresa, quelle trenta mila lire! Ve ne prego!

— Non le ho più, da tre giorni.

— Non le avete più? [p. 137 modifica]

Il commendatore la guardò fisso, incredulo. Ma quella alzò fieramente la testa, mostrandosi offesa dal sospetto:

— Domandatene al Porati. Ho fatto un’operazione con lui. Volevo anzi consultarvi. Ma in questi giorni siete stato così occupato!...

Savani sentì mancarsi il terreno sotto i piedi.

— Non le avreste perdute! — mormorò, lasciandosi cadere sopra una poltrona.

La signora Teresa si guardava le punte delle dita, impassibile:

— Ha buttato il suo nell’abisso? — pensava. — Una ragione di più per non buttarvi anche il mio.

— E così? — domandò Savani, affannosamente, al Gerace comparso sull’uscio.

— Si è chiuso pagando.

Il commendatore, levatosi in piedi, diè una occhiata di rimprovero alla Marulli, e uscì come un lampo dal salotto.

— Il pericolo è dunque scongiurato? — domandò la signora Teresa.

— Tutt’altro — rispose Andrea. — Domani è domenica. Un giorno, in questi casi, è un enorme guadagno. Ma, che amministrazione! Un vero caos. Temo che il marcio sia troppo.

— Ah! — ella esclamò dandosi ragione.

Giacinta e Andrea s’erano scambiata una stretta di mano.

— Ha chiesto del denaro anche a te? — domandò la Marulli alla figlia.

— Povero commendatore! Mi fa pietà. Se non avessi comprata la palazzina...

— Ma è il fallimento! — le diè sulla voce la madre.

Entrava dalla finestra il confuso rumore della folla che cominciava a disperdersi. [p. 138 modifica]

— Verrai domani? — disse Andrea, appena la signora Teresa fu andata via.

— Sì.

— C’è qualcosa per aria.

— Che mai?

— Oh! finora, dei sospetti soltanto.

— Sospettino pure!

— Ti fidi troppo.

— Eh, via!

Giacinta sorrideva. Quelle paure di Andrea solleticavano, eccitavano il suo orgoglio di donna.

— Bravo! Benone! — esclamò il conte all’improvviso.

I due amanti trasalirono. Egli applaudiva una guardia di questura che dava, a diritta e a manca, scappellotti ai ragazzi.

— Oh! tu? — disse, scorgendo Andrea. — Che congiurate costì? Vorreste spartirvi i milioni della Banca... fallita?

E rideva.