Gastronomia/Notizie sulla vita di Archestrato

Domenico Scinà

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Archestrato di Gela - Gastronomia (Frammenti) (Antichità)
Traduzione dal greco di Domenico Scinà (1842)
Notizie sulla vita di Archestrato
Gastronomia Frammenti
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NOTIZIE


SULLA VITA


D I   A R C H E S T R A T O


DI


DOMENICO SCINA’



Famose, come è noto ne’ tempi antichi, e celebrate furono in ogni parte la cucina di Sicilia, la nostra mensa, e le nostre vivande. Gli stranieri veniano tra noi ad apprender l’arte di condire i cibi, e il nostro Labdaco fu il maestro de’ cucinieri i più rinomati della Grecia 1: anzi da Sicilia quasi per moda, e a segno di grandezza chiamavano i loro cuochi i personaggi più ricchi tra i Greci, o in grazia degli Ateniesi scrisse Miteco il Cucinier Siciliano 2. Era così comune e generale il pregio, in cui si tenea la nostra cucina, che i comici, i quali sogliono gli usi motteggiare e i costumi de’ tempi, spesso ricordano le vivande preparate alla maniera di Sicilia, e d’ordinario recano in iscena de’ cuochi siciliani, o in Sicilia ammaestrati. Alessi, fra gli altri, introduce un cuoco, che menando gran vanto, va egli dicendo: «Ho io appreso così bene a cuocere le vivande in Sicilia, che per il piacere farò ai commensali morsicare i tegami ed i piattelli 3.„

Quest’arte venne tra i Siciliani a tanta fama, perchè erano opulenti e pieni di lusso: mangiavano essi due volte al giorno, e sempre a sazietà, ricercavan de’ manicaretti, e la varietà amavan de’ cibi 4; ma come erano coltissimi le arti e le scienze volgeano a loro comodo, e raffinavano col favore di queste gli stessi piaceri della vita. Sibari e Siracusa vivenno forse con eguale mollezza, ma questa, e non quella, facea coll’ingegno e la coltura più lieti i desinari. Panfilio sedendo a mensa non parlava che in versi 5, Carmo adattava alle vivande, non senza grazia, un verso di Omero o di Euripide o d’altro poeta 6, e in Sicilia furono trovati alcuni giocolini, che poteano dopo cena tenere in festa la brigata 7. Non è dunque da [p. 7/8 modifica]maravigliare se gl’ingegni i più gentili tra i nostri, sia che coltivasser le muse o pur la filosofia, non abbiano preso a sdegno di vogliersi alla cucina, e al piacer dei conviti. Nette, decenti, odorose erano le stanze, nelle quali si preparavano le vivande: All’odor che si sente, dice Cratino, o vi è chi vende incenso, o un cuoco di Sicilia8. I filosofi stessi, che non amavano in quei tempi la severità, dettavano ancora sull’arte di condire i cibi delle lezioni nelle cucine de’ grandi. Aristippo, ch’era, come oggi dicesi, un uomo di spirito e di mondo, tenea gran cura della mensa del giovine Dionisio, speculava della nuova vivanda ed occupavasi del loro condimento. Si filosofava dunque in Sicilia anche cucinando, e bella mostre faceasi di sapere, e di leggiadria parlando di cibi di leccumi. Però ad Eraclide, e un certo Dionisio, e tanti altri si ricordan tra noi che presero a scrivere dell’arte di raffinar la cucina, e ben condurre le vivande.

Tra questi tutti levò principalmente il grido Archestrato, che scrisse un poema col titolo di Gastronomia o Gastrologia, del quale ci restano ancora non pochi frammenti presso Ateneo. Fu egli un colto e spiritoso poeta, il quale di eleganza vestì e di vaghezza l’armamento della cucina; ma, già famoso a’ suoi tempi, non fu poi presso alcuni in egual pregio tenuto.

Archestrato fu certamente Siciliano, ma ignorasi se di Siracusa, o pur di Gela: forse era egli da Siracusa; ma Ateneo sulle prime ne dubita, e più presto quindi lo chiama Geloo per pigliare il destro di pungerlo, come si fa, con una arguzia, dicendolo di Gela o piuttosto di Catagela9, che vale, degno di riso: vano giuoco di parole, ed epigramma, per quanto pare, non molto faceto.

L’incertezza, in cui fu posta la sua patria, non fu la sola ingiuria che ebbe a soffrire il suo nome e la sua memoria. Archestrato ebbe la disgrazia di cader nelle mani di alcuni melanconici, che affettando rigore e stoicismo in più modi Io straziarono; il sue poema fu chiamato da quel miserello di Crisippo la Metropoli della filosofia di Epicuro, e fu proscritto dal medesimo al par de’ poemi lascivi di Filenide; i suoi versi furono detti per derisione i versi dorati, o pur la Teogonia deli ghiottoni, e i tltoli, de’ quali venne onorato, furono tutti ingiuriosi e ridevoli: il Ghiotto, l’Emulator di Sardanapalo, l’ingegnoso cuciniere, il general delle mense l’Esiodo de’ leccardi, il Teognide de’ golosi’; o per ironia il sapiente, il sottile, il preclaro poeta, il Pitagorico, o altro simile. È sì continuo presso Ateneo l’uso di unire al nome di Archestrato una qualche villania, che alcuni son venuti nel sentimento Archestrato autore dell’opera de’ sonatori di tibia. essere stato diverso dal nostro, poichè senza aggiunta d’ingiuria quello vi trovano ricordato. Io non voglio definire di qual momento sia una sì fatta ragione, ma, egli è certo, che Archestrato solo si ebbe la mala ventura. — Egli corse per la Grecia e pe’ luoghi i più colti della terra allor conosciuta per istruirsi, come [p. 9/10 modifica]si costumava in que’ tempi; ma nel principio del suo poema, come suol farsi de que’ poeti che vogliono con facezia dare importanza alle frascherie, fa per ilarità cenno di recare intorno alla cucina le cognizioni acquistate ne’ suoi viaggi: bastò questo, perchè Ateneo lo pigliasse nella parola, e a niente altro dirizzasse i viaggi di lui, che ad apprender l’arte del cucinare. Oh l’illustre viaggiatore, dice egli, che girò la terra e il mare a cagione del ventre e della gola, e per conoscere ciò, che al ventre ed alla gola si appartiene10. Clearco fece ancora di più, gli diede a maestro un certo Terpsione, che avea scritto di Gastrologia11; chi l’avrebbe creduto? Clearco lo fa guattero di Terpsione, ed Ateneo lo fa girare per tutta la terra per venire in onore di famoso cuciniere. In somma tutti quelli che vantano sapienza e costume non lasciano di presentarcelo come un miserabile ghiottone; anzi Eliano ed Ateneo12 per dileggiarlo vieppiù ci narrano, ch’egli, sebbene di cibi ingordo, e voracissimo, era di corpo così magro e sottile, che appeso ad una bilancia a stento pesava un obolo. Buon per lui, che la dissero da pigliarle colle molle: un obolo? non bastava che fosse egli stato un tisicuzzo, nè tampoco un fantoccino, ci volea proprio una fantasima per pesare un obolo, ma tutto si raccogliea con piacere, e con piacere narravasi quando si trattava di dar la baja ad Archestrato: gli diedero una patria e un maestro, che forse non ebbe, opposero una straordinaria voracità unita ad una incredibile magrezza, e giunsero a guastare l’età, in cui visse, per farlo amico e compagno degli stravizzi di uno de’ figliuoli di Pericle13.

Archestrato scrisse certamente dopo che Tindari era stata fabbricata ed accresciuta, poichè egli in uno de’ suoi frammenti suppone già in pregio e Tindari e la sua tonnara. E come questa città ebbe la sua fondazione nell’Olimpiade 96, così è da credere che abbia Archestrato fiorito molte Olimpiadi dopo la centesima, o sia in un tempo in cui i figliuoli di Pericle o più non viveano o si trovavano molto avanzati in età; poichè eran costoro già nati prima dell’Olimpiade 88, o della peste di Atene, in cui Pericle morì. Aggiungasi a ciò, che Archestrato motteggia ne’ suoi versi Diodoro Aspendio uno degli ultimi scolari di Pitagora, il quale visse a’ tempi di Tolomeo Lago, che dopo la morte d’Alessandro acquistò la signoria dell’Egitto; e quindi è ben naturale, non solo che Archestrato sia stato in fiore mentre vivea Alessandro, ma ancora che sul principio del regno di quel Tolomeo abbia egli pubblicato il suo poema. — A queste prove cavate da’ frammenti stessi di lui è concorde eziandio la menzione, che ne fanno alcuni degli antichi autori. Era certamente in istima il nostro poeta mentre viveano e Linceo di Samo, che fu scolare d’Isocrate, e Clearco, che imprese la filosofia sotto la dottrina e la scorta d’Aristotile, poichè l’uno e l’altro Linceo e Clearco fanno menzione di Archestrato, e del poema di lui. Isocrate, giusta la comune opinione, morì l’anno 3 della Olimpiade 110; e Aristotile nell’anno 3 dell’Olimpiade 114. Però intorno a questi tempi, o poco dopo dovea già Archestrato esser venuto in pregio, essendo che gli scolari d’Isocrate e di Aristotele lo citano, e si occupano de’ versi di lui. E se in fine Crisippo o altri chiamano il nostro poeta, e lo riguardano come il predecessore d’Epicuro, questo nè pure mal si conviene a’ tempi da noi indicati; poichè Epicuro, è già noto, che nacque il 3 anno dell’Olimpiade 109; e finì di vivere l’anno 3 dell’Olimpiade 127. Bastava che Archestrato avesse recato in luce il suo poema verso l’Olimpiade 115 o 116, perchè avesse potuto precedere i libri d’Epicuro. Dopo di ciò non corre alcun dubbio, che per accordare i tempi, sia ben da distinguere Archestrato l’amico dei figli di Pericle dal nostro Poeta: quegli visse prima, e questi fiorì dopo; il primo è colui, che solea dire, al riferir di Plutarco, che la Grecia non avrebbe potuto tollerare due Alcibiadi14, e quello, di cui ci restano i frammenti, è il secondo, che nacque e visse a’ tempi di Alessandro e Tolomeo, o sia a’ tempi che furono per sapere e per gentilezza prestantissimi così nella Grecia, come nella nostra Sicilia.

Questi tempi, che ci recano tanto onore, ci dichiarano come potè Archestrato non senza laude occuparsi di un poema intorno alla cucina. La coltura in Sicilia, e massime in Siracusa, era sparsa in tutti i ceti, e quando è generale ingentilisce tutti gli spiriti, orna tutti i soggetti. Siciliani furno Botri e Bintone, e la poesia burlesca e fu in Sicilia inventata, e qui più che altrove coltivata: quei carmi, che diconsi parodie, e i loro autori [p. 11/12 modifica]erano presso di noi in gran pregio, per testimonianza di Ateneo15. Beoto, che da Agatocle fu posto in bando, era carissimo a’ Siracusani e da costoro onorato per le sue poesie, i ciabattini, i ladroni sfacciati, l’assassino di strada che avea egli dettato colle sue parodie ad imitazione de’ più belli e famosi versi d’Omero16. Tutto spirava allora in Sicilia coltura, leggiadria e gentilezza. Non dee dunque maravigliare se lo spiritoso e bizzarro Archestrato invitò le muse alla mensa e alla cucina. Non ha guari in Francia è venuto alla luce un poema, che al par di quello di Archestrato porta il titolo di Gastronomia, e canta del pari la cucina a la tavola; ciascuno lo legge, tutti se ne divertono, e niuno osa calunniare l’autore di epicureismo e di ghiottoneria. Così immagino essere avvenuto al poema d’Archestrato presso i Greci, penso che sia stato applaudito in Siracusa, che sia stato applaudito in Siracusa, che sia divenuto famoso nella Grecia, ito per le bocche di tutti in Atene. La disgrazia del nostro poeta fu che nella sua età vi era quella mala lanuzza di stoici e di sapienti melanconiosi, e però la sorte del francese Berchoux è stata e sarà molto diversa da quella del nostro poeta.

Il poema di Archestrato è intitolato a due dei suoi amici, Mosco e Cleandro, perchè ora all’uno, e ora all’altro indrizza i suoi precetti. Per disgrazia non essendo a noi pervenuti che pochi frammenti, non abbiamo tutti i serviti della cena, nè possiamo giudicare di tutte le vivande, che avea recato in mezzo il nostro poeta. Un frammento ci accenna le varie maniere di pane, un altro parla de’ vini, un altro della carne di lepre; ma per lo più i frammenti che ci restano, fanno parola del servito de’ pesci. Erano questi più d’altro cibo graditi nella mensa de’ Greci; tale gusto passò quindi in Sibari e in Siracusa, anzi i Siciliani pigliavano vanto, al dir di Cleareo, che il mare della nostra isola era anche dolce a cagione de’ gustosi cibi, che loro porgea17; e appunto per questo il nostro poeta de’ pesci parla alla distesa, e Ateneo appunto per questo molti e molti luoghi ne ricorda. Ora leggendo sì fatti frammenti, è a chiunque palese, che Archestrato non seguì gli usi e le pratiche de’ tempi, ma speculò sulle vivande e sulla cucina. I Siciliani erano in que’ dì famosi nell’arte delle paste e de’ confortini, e degl’intingoli, e degli altri saporetti con cui condivano le vivande18; e come il cacio di Sicilia era allora pregiato19, così l’adopravano a condimento quasi in ogni cibo, e vi aggiungevano olio ed altri untumi. Archestrato disapprovò tale uso, e volle rendere più semplice la cucina levando tutte queste imbratterie; ma prima d’ogni altro ebbe gran cura di scegliere tra i cibi quelli che erano i più eccellenti, ovvero più saporiti ne’ diversi paesi, e nelle diverse stagioni. Però va percorrendo e tutte le isole, e le terre marittime, e i fiumi per indicare in quali luoghi fossero i pesci i più squisiti. Ciascun paese della Grecia così può conoscere quali de’ suoi pesci erano più stimati, e la nostra Sicilia può risapere, che le anguille e murene del Faro erano così pregiate allora, quanto oggi lo sono; che Selinunte era in que’ dì famosa per le orate; Lipari per le locuste, e tutta la Sicilia per li tonni, pel pesce spada, e pe’ salumi. Fu egli così diligente nell’assegnare tai luoghi, anzi le particolarità de’ medesimi, e i tempi ne’ quali erano da comprarsi i pesci nelle diverse regioni, che i suoi precetti passarono quasi in adagi. Linceo di Samo nella sua arte di comprare i cibi adirato, contro i pesciajuoli, che vender voleano a caro prezzo, insegna le astuzie come avvilire la loro merce, citando i versi e le sentenze d’Archestrato20. Se compri il mormile, dice egli, sprezzalo, come se fosse di spiaggia, e va gridando:

Pesce è malvagio il mormile di spiaggia,
In alcun tempo non si trova buono.

Se nella primavera, soggiunge Linceo, vuoi comperare l’amia, cita Archestrato.

L’amia in autunno quando son calate
Ver l’occaso le Plejadi;

Ma se nella state ti stai a comprare il muggine, recita il verso:

Il muggine è gustoso a maraviglia
Sull’entrar dell’inverno.

Il divisamento dunque di Archestrato di descrivere i luoghi, e i tempi, in cui più squisiti si trovassero i pesci, e fu applaudito presso gli antichi, e valse a rendere famosa la sua Gastronomia. Il suo nome da’ Greci passò ancora a’ Romani. In [p. 13/14 modifica]uno de’ frammenti di Ennio abbiamo nella lingua del Lazio parecchi versi di Archestrato, ne’ quali si fa parola di alcune città marittime, e de’ loro pesci gustosi21.

Scelta così la qualità de’ cibi, tutta l’innovazione, che portò nel prepararli, si ridusse a levare de’ condimenti. Non reca d’ordinario che la salsa di triti aromi, nè suol far uso che di sale ed olio, di cimino alle volte, e più di ogni altro d’erbette odorose. Però parlando del modo di arrostire la carne di lepre, vuol che soltanto si sparga di sale, e nulla più, anzi riprende colore, che la soleano imbrattare di olio, e cacio, ed altri grassumi, come, dice egli, non senza grazia,

Come se a gatti s’imbandisse mensa.

E sebbene i cuochi di Sicilia, e quei di Siracusa in particolare portassero allora il vanto per la maniera saporita, con cui apparecchiavano i pesci22; pure gli sgrida per l’abbondanza, che adoperavano de’ leccumi.

Ma non vi assista, dice egli parlando dell’apparecchio de’ pesci, alcun di Siracusa o d’Italia,

Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
O di liquido aceto, e di salato
Silfio spargendo....

E pel condimento dell’aceto reca a generale precetto, che si adoperi solo per que’ pesci, che han carne tosta. Sia ammollito in aceto, dice egli,

Qualunque pesce la cui carne è dura,
Ma quel, che ha carne dilicata e pingue,
Basta soltanto che di fino sale
L’aspergi e l’ungi d’olio, perchè tutta
Tiene in se la virtù di bel sapore.

Scelte adunque nella qualità de’ cibi, e semplicità nel condirli furono le due innovazioni che portò Archestrato nella cucina, e queste furono ben accolte da’ più rinomati cuochi della Grecia, e passarono nelle mense de’ Grandi. Sofone e Damosseno, uno di Acarnania, e l’altro di Rodi, furono scolari del nostro Labdaco che avea già adottato i precetti di Archestrato, ed ambidue rigettarono gl’imbratti di cacio, di silfio, di coriandro, e d’altri simili antichissimi condimenti, che erano in uso, come essi dicono presso il comico Antippo, nell’età di Saturno23. Il cuoco vantatore presso il comico Sotade24, si fa pregio d’apparecchiare il pesce amia alla maniera di Archestrato, il quale con poco rigamo, e involto in foglie di fico, vuole che semplicemente si cuocesse sotto il cener caldo. Anzi fra i comici sempre quasi troviamo, che i cucinieri da loro in iscena recati non in altro modo vantano la loro virtù, e l’arte loro, che preparando le vivande giusta i precetti d’Archestrato. E se Dionisio il comico introduce un cuoco, che per millanteria disprezza Archestrato, ed i suoi insegnamenti, ciò fece perchè vieppiù risaltasse il carattere baldanzoso, che sulla scena gli dava25. Parea che sprezzando il solo Archestrato avea già disprezzato tutti gli altri maestri della cucina: tanto sonava chiara la fama del suo poema e de’ suoi insegnamenti.

Un’altra innovazione portò il nostro poeta alla seconda cena, che direbbesi ora dessert. Nelle vivande aveva egli tolto le imbratterie, e gli untumi, e qui seguendo gl’istessi principj in quanto al condimento, vi aggiunse inoltre degli altri cibi, e ne rese più solido e più gustoso il servito. Beveano, egli è vero, i Siracusani al dessert, ma se la passavano a rosicchiar fave, ceci, e fichi secchi; Archestrato gridò contro un sì fatto costume e v’introdusse ventre e vulva di scrofa, e augelletti fatti arrosto. Nè questi, dice egli,

Nè questi abitator di Siracusa
Tu cura, i quali, come fan le rane,
Senza nulla mangiar bevono solo.
Non seguir l’uso loro....
E fave, e ceci cotti, e fichi secchi
Per se di turpe povertà son mostra.

Ma sia che parli delle diverse qualità dei cibi o del diverso loro condimento, sia che venga al dessert, sparge sempre il poema di scherzi e d’ilarità. Parla egli delle vivande in modo, che par gli venga l’acquolina a’ denti; ma non è perciò da crederlo come tanti han fatto per un puro e semplice ghiottone, e nulla di più. Dovea per sollecitare i lettori abbellire il suo poema con venustà, e farla ancor egli da ghiotto per invogliar l’appetito in qualunque più ne fosse stato svogliato. Chi vorrà tassare d’ubbriachezza il Redi, e il nostro Meli, perchè ne’ lor ditirambi parlano e scrivono da [p. 15/16 modifica]bevoni? È la natura del soggetto, che lo vuole; anzi tanto più riescon leggiadri e questi, ed Archestrato, quanto più gli uni sanno la lingua imitare e i modi de’ bevitori, e l’altro quelli de’ leccardi: il tutto sta a farlo con eleganza. Ma in ciò al pari del Redi e del Meli ha riportato Archestrato laude e pregio di elegante e festevol poeta. Io non parlo già di quelle storiette che da qualche scrittore26 si narrano, e per poeta ce lo danno a vedere; tenuto a’ suoi tempi di grido e di leggiadrìa, parlo bensì de’ frammenti, che ci restan di lui, i quali chiaro ne mostrano il suo valore nella poetica. La disposizione de’ suoi versi, la frase, la maniera degli epiteti, le parole, l’armonia, sono tutte Omeriche; Omero aveva egli studiato, d’Omero avea fatto tesoro, e lui ritrae in tutti i suoi versi. Ingegnoso, ardito bizzarro trasporta, e sempre con grazia e venustà, a’ cibi e alle vivande quelle voci vaghissime colle quali il greco idioma solea esprimere la bellezza e le cose belle. Di modo che Archestrato fanno spirito ornato e gentile, che per coglier vanto di leggiadria un argomento scelse bizzarro e piacevole. Nel tempo in cui in Sicilia abbondavano e gli storici ed i filosofi e più d’ogni altro i poeti, che per porger sollazzo si occupavano di vaghi soggetti, e sin anco di parodie, dovette Archestrato venire in gran fama, e grande onore acquistarsi recando in belli e puliti versi le leggi e il codice della cucina. Da questo poema ritraevano gli abitatori della bella Siracusa, che era piena di opulenza e di commercio, in qual parte della terra erano alcuni cibi più squisiti, e ne ornavano le loro mense. I versi di Archestrato si doveano spesso ricordare ne’ banchetti, e nei conviti alla vista delle vivande, e i cucinieri ed il popolo li doveano in varie occasioni recitare, però gli scrittori ne fecero di continuo menzione, e la sua fama e i suoi frammenti sono pervenuti sino a noi.

Che bei tempi eran questi per la nostra Sicilia? Ricca, elegante, fioritissima di arti e di scienze, impresso mostrava il bello eziandio nelle monete, ne’ vasi, nelle lucerne, e il suo buon gusto nelle stoviglie e nella cucina. Mentre rinomata era ella per li suoi cuochi27, per le vesti vajate, per li letti e per li guanciali28, lodati erano i suoi caci, ricercate le sue colombe29, pregiati gli interiori de’ tonni pescati in Pachino30, in onore i suoi cuochi, Archestrato la rendeva più ornata pe’ nuovi raffinamenti che portava alle mense e al cucinare, e per i bei leggiadri modi con cui esprimeva i cibi, e l’arte di condirli con sapore. Ma resteremo noi nello stato di quelle illustri famiglie, che decadute a vile fortuna si confortano della miseria colla vita degli antichi diplomi, che fondano i titoli della loro nobiltà? Sono da emularsi non che da celebrarsi i tempi della nostra grandezza. Sono da studiare i resti onorati de’ nostri sommi uomini, e gli avanzi preziosi delle nostre antichità per acquistare il sentimento quanto più pregevole, tanto men comune, il sentimento del bello, che distingue ed onora le colte e polite nazioni.

Note

  1. Antippo presso Aten. lib. 9, cap. 15, pagina 404, ed. Casaubono.
  2. Plat. in Gorg. Il titolo era Όψοποιΐα Σικελικἡ.
  3. Presso Aten. I, 4, c. 20, p. 169.
  4. Lett. di Plat. presso Aten. l. 12, c. 6, p. 527.
  5. Aten. l. 1, c. 4, p. 4.
  6. Aten. loc. cit.
  7. Il più famoso tra questi giuochi era il Cottabo, il quale consistea in colpire col vino lanciato in alto artificiosamente un piccolissimo piattello attaccato alla estremità d’un’asta orizzontale in equillbrio. — S’alzava sopra un piede una colonnetta, che si chiamava il candelabro alla cui cima si tenea fermata nel mezzo per un perno quell’asta, la quale ad una estremità attaccato portava il piattellino, che era detto la plastinge; di modo che l’asta formava una bilancetta in equilibrio, le cui braccia si moveano intorno al perno. Attaccata al fusto del candelabro sporgea una piccola sbarra, sulla cui estremità al di sotto della plastinge era posata una statuetta di bronzo chiamata il mane, e sottoposto eravi un vaso di rame. Il candelabro, la plastinge, il mane, e quel vaso si diceano Cottabo. I bicchieri propri per questo giuoco erano gli anchili, e li chiamavano cottabidi. Ciascuno de’ giuocatori vi bevea prima il vino, e ne lasciava solamente sul fondo un picciolissimo residuo, che prendea il nome di lalage. Ora tutta l’arte era a lanciare il lalage in sì fatto modo in alto, che cadendo iva a colpire la plastinge, e questa il mane, che rovesciando nel catino col suono dava segno del colpo. Ma nella vittoria si avea pure riguardo all’eleganza, colla quale era il giuoco eseguito. Appoggiato sul gomito sinistro dovea il giuocatore curvare dolcemente la destra, stringendo l’anchile colle dita situate nel modo come fanno i sonatori di tibia, lanciava il lalage in alto. Questa maniera di cottabo si diceva anche cotacto per distinguerlo dall’altra che venia eseguita nel seguente modo. — si metteva nel mezzo della stanza un catino pieno d’acqua, in cui vuoti stavano a galleggiare de’ vasellini. Allora tutto il giuoco era diretto a lanciare da’ carchesii, che vi adopravano in vece di anchili, il lalage in modo, che cadendo colpisse e sommergesse quei vasellini. Chi più ne sommergeva era il vincitore. ― Tale ardore aveano i Greci pel cottabo, che fabbricavano delle stanze a questo oggetto, e le faceano rotonde, affinchè i giuocatori, sedendo in giro, fossero ad eguale distanza dal Cottabo situato nel mezzo. E vi erano di quelli, che della loro destrezza, e leggiadria in questo giuoco, pigliavano vanto più che altri non faceano della loro perizia nel saettare.
  8. Presso Aten. l. 15, c. p. 661.
  9. Aten. l. 3, c. 30, p, 116, e l. 7, p. 294.
  10. Aten. l. 3, c. 30, p. 116, e l. 7, p. 294.
  11. Aten. l. 8, c. 3, p. 337.
  12. Ælian. var. Hist. l. 10, c. 16, Aten. l. 12, c. 13, p. 552.
  13. Aten. l. 5, c. 20, p. 220.
  14. Plut. in Alcib.
  15. Aten. l. 15, c. 16, p. 699.
  16. Etolo presso Aten. l. 5, c. 16, p. 699.
  17. Presso Aten. l. 12, c. 3, p. 518.
  18. Antifane presso Aten. l. 14, c. 23, p. 661.
  19. Ermippo ed Antifane presso Aten. l. 1, c. 21, pag. 27.
  20. Presso Aten. l. 7, c. 18, p. 313.
  21. Ennio fragm. Phageuticorum nell’Apol. di Apuleio.
  22. Epicrate presso Aten. l. 14 c. 20, p. 655.
  23. Presso Aten. l. 9, c. 15, p. 404.
  24. Aten. l. 7, c. 11, p. 293.
  25. Presso Aten. l. 9, c. 16, p. 405.
  26. Plutarco in Alex. rapporta che vi fu chi, riguardando alla povertà, in cui era Archestrato, ed alla prestanza ch’egli avea nel poetare, gli disse: O Archestrato, se tu fossi stato presso Alessandro, avresti per i tuoi versi ottenuto in premio o Cipro o la Fenicia.
  27. Eubulo presso Aten. l. 1, c. 22, p. 28. Σικελικά Βατάνια.
  28. Crizia presso Aten. l. 1, c. 21, p. 28.
  29. Filemone presso Aten. l. 14, c. 22, pagina 658, loda le vesti, i vasi, i caci, le colombe di Sicilia, e Alessi presso Aten. l. 9, c. 11, p. 395, celebra in particolare le colombe siciliane.
  30. Aten. l. 1, c. 4, p. 4