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13 DI ARCHESTRATO 14


uno de’ frammenti di Ennio abbiamo nella lingua del Lazio parecchi versi di Archestrato, ne’ quali si fa parola di alcune città marittime, e de’ loro pesci gustosi1.

Scelta così la qualità de’ cibi, tutta l’innovazione, che portò nel prepararli, si ridusse a levare de’ condimenti. Non reca d’ordinario che la salsa di triti aromi, nè suol far uso che di sale ed olio, di cimino alle volte, e più di ogni altro d’erbette odorose. Però parlando del modo di arrostire la carne di lepre, vuol che soltanto si sparga di sale, e nulla più, anzi riprende colore, che la soleano imbrattare di olio, e cacio, ed altri grassumi, come, dice egli, non senza grazia,

Come se a gatti s’imbandisse mensa.

E sebbene i cuochi di Sicilia, e quei di Siracusa in particolare portassero allora il vanto per la maniera saporita, con cui apparecchiavano i pesci2; pure gli sgrida per l’abbondanza, che adoperavano de’ leccumi.

Ma non vi assista, dice egli parlando dell’apparecchio de’ pesci, alcun di Siracusa o d’Italia,

Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
O di liquido aceto, e di salato
Silfio spargendo....

E pel condimento dell’aceto reca a generale precetto, che si adoperi solo per que’ pesci, che han carne tosta. Sia ammollito in aceto, dice egli,

Qualunque pesce la cui carne è dura,
Ma quel, che ha carne dilicata e pingue,
Basta soltanto che di fino sale
L’aspergi e l’ungi d’olio, perchè tutta
Tiene in se la virtù di bel sapore.

Scelte adunque nella qualità de’ cibi, e semplicità nel condirli furono le due innovazioni che portò Archestrato nella cucina, e queste furono ben accolte da’ più rinomati cuochi della Grecia, e passarono nelle mense de’ Grandi. Sofone e Damosseno, uno di Acarnania, e l’altro di Rodi, furono scolari del nostro Labdaco che avea già adottato i precetti di Archestrato, ed ambidue rigettarono gl’imbratti di cacio, di silfio, di coriandro, e d’altri simili antichissimi condimenti, che erano


  1. Ennio fragm. Phageuticorum nell’Apol. di Apuleio.
  2. Epicrate presso Aten. l. 14 c. 20, p. 655.
in uso, come essi dicono presso il comico Antippo, nell’età di Saturno1. Il cuoco vantatore presso il comico Sotade2, si fa pregio d’apparecchiare il pesce amia alla maniera di Archestrato, il quale con poco rigamo, e involto in foglie di fico, vuole che semplicemente si cuocesse sotto il cener caldo. Anzi fra i comici sempre quasi troviamo, che i cucinieri da loro in iscena recati non in altro modo vantano la loro virtù, e l’arte loro, che preparando le vivande giusta i precetti d’Archestrato. E se Dionisio il comico introduce un cuoco, che per millanteria disprezza Archestrato, ed i suoi insegnamenti, ciò fece perchè vieppiù risaltasse il carattere baldanzoso, che sulla scena gli dava3. Parea che sprezzando il solo Archestrato avea già disprezzato tutti gli altri maestri della cucina: tanto sonava chiara la fama del suo poema e de’ suoi insegnamenti.

Un’altra innovazione portò il nostro poeta alla seconda cena, che direbbesi ora dessert. Nelle vivande aveva egli tolto le imbratterie, e gli untumi, e qui seguendo gl’istessi principj in quanto al condimento, vi aggiunse inoltre degli altri cibi, e ne rese più solido e più gustoso il servito. Beveano, egli è vero, i Siracusani al dessert, ma se la passavano a rosicchiar fave, ceci, e fichi secchi; Archestrato gridò contro un sì fatto costume e v’introdusse ventre e vulva di scrofa, e augelletti fatti arrosto. Nè questi, dice egli,

Nè questi abitator di Siracusa
Tu cura, i quali, come fan le rane,
Senza nulla mangiar bevono solo.
Non seguir l’uso loro....
E fave, e ceci cotti, e fichi secchi
Per se di turpe povertà son mostra.

Ma sia che parli delle diverse qualità dei cibi o del diverso loro condimento, sia che venga al dessert, sparge sempre il poema di scherzi e d’ilarità. Parla egli delle vivande in modo, che par gli venga l’acquolina a’ denti; ma non è perciò da crederlo come tanti han fatto per un puro e semplice ghiottone, e nulla di più. Dovea per sollecitare i lettori abbellire il suo poema con venustà, e farla ancor egli da ghiotto per invogliar l’appetito in qualunque più ne fosse stato svogliato. Chi vorrà tassare d’ubbriachezza il Redi, e il nostro Meli, perchè ne’ lor ditirambi parlano e scrivono da be-

  1. Presso Aten. l. 9, c. 15, p. 404.
  2. Aten. l. 7, c. 11, p. 293.
  3. Presso Aten. l. 9, c. 16, p. 405.