Galateo ovvero de' costumi/XI
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Cap. XI. Di quali materie dobbiamo astenerci di favellare per non recar noia.
46. Nel favellare si pecca in molti e vari modi; e primieramente nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola, nè vile perciocchè gli uditori non vi badano; e perciocchè non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti ed il ragionatore insieme. Non si dee anco pigliar tema molto sottile, nè troppo isquisito; perciocchè con fatica si intende dai più. Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale, che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta. Nè di alcuna bruttura si dee favellare (comechè piacevole cosa paresse ad udire); perciocchè alle oneste persone non istà bene studiar di piacer altrui, se non nelle oneste cose.
47. Nè contra Dio, nè contra Santi, nè daddovero, nè motteggiando, si dee mai dire alcuna cosa; quantunque per altro fosse leggiadra e piacevole. Il qual peccato assai sovente commise la nobil brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne’ suoi ragionamenti sì, che ella merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona. E nota che il parlar di Dio gabbando, non solo è difetto di scellerato uomo ed empio, ma egli è ancora vizio di scostumata persona; ed è cosa spiacevole ad udire: e molti troverai che si fuggiranno di là dove si parli di Dio sconciamente. E non solo di Dio si conviene parlare santamente; ma in ogni ragionamento dee l’uomo schifare quanto può, che le parole non siano testimonio contra la vita e le opere sue; perciocchè gli uomini odiano in altrui eziandio i loro vizi medesimi. Simigliantemente si disdice il favellare delle cose molto contrarie al tempo ed alle persone che stanno ad udire eziandio di quelle che per sè, ed a suo tempo dette, sarebbono e buone e sante. Non si raccontino adunque le prediche di frate Nastagio alle giovani donne, quando elle hanno voglia di scherzarsi; come quel buon uomo, che abitò non lungi da te vicino a s. Brancazio, faceva.
48. Nè a festa, nè a tavola si raccontino istorie maninconose; nè di piaghe, nè di malattie, nè di morti o di pestilenzie, nè di altra dolorosa materia si faccia menzione o ricordo: anzi se altri in sì fatte rammemorazioni fosse caduto, si dee per acconcio modo e dolce scambiargli quella materia; e mettergli per le mani più lieto e più convenevole soggetto; quantunque, secondo che io udii già dire ad un valente uomo nostro vicino, gli uomini abbiano molte volte bisogno sì di lagrimare, come di ridere. E per tal cagione egli affermava essere state da principio trovate le dolorose favole, che si chiamarono tragedie; acciocchè raccontate ne’ teatri, come in quel tempo si costumava di fare, tirassero le lagrime agli occhi di coloro che avevano di ciò mestiere; e così eglino piangendo, della loro infirmità guarissero. Ma, come ciò sia, a noi non istà bene di contristare gli animi delle persone con cui favelliamo; massimamente colà dove si dimori per aver festa e sollazzo, e non per piagnere: che se pure alcuno è che infermi per vaghezza di lagrimare, assai leggier cosa fia di medicarlo con la mostarda forte; o porlo in alcun luogo al fumo. Per la qual cosa in niuna maniera si può scusare il nostro Filostrato della proposta che egli fece piena di doglia e di morte a compagnia di nessun’altra cosa vaga, che di letizia. Conviensi adunque fuggire di favellare di cose maninconose, e piuttosto tacersi.
49. Errano parimente coloro che altro non hanno in bocca giammai, che i loro bambini e la donna e la balia loro: — Il fanciullo mio mi fece iersera tanto ridere: udite: voi non vedeste mai il più dolce figliuolo di Momo mio: la donna mia è cotale: la Cecchina disse: certo voi nol credereste del cervello che ell’ha. — Niuno è si scioperato, che possa nè . rispondere, nè badare a sì fatte sciocchezze; e viensi a noia ad ognuno.