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dall’altro, senza conoscersi, senza sapere che esistevamo, di quei bei giorni della prima gioventù che non avevamo potuto trascorrere assieme.

«Oh, s’io t’avessi conosciuto allora! quanto sarei stata felice di darti questo mio cuore puro ed intatto, di offrirti tutta la mia gioventù, tutta la mia freschezza — giovinetta, anch’io era bella!... Come tu avresti saputo formare il mio cuore, come t’avrei amato, come t’avrei ubbidito!»

Tali le parole che essa mi diceva soventi. Ella soffriva di non poter legare a me le prime e le più pure memorie della sua esistenza.

Come aveva preveduto, la mia salute era rifiorita, io era ritornato forte, lieto, sereno; ma mi pareva aver tolto a lei tutto ciò che aveva aggiunto a me stesso. Essa non avvizziva, ma deperiva con lentezza. Si era come tramutata, non era più quella di un tempo. Mi pareva fosse divenuta più alta, più gentile, più flessibile; la vedeva come fosse stata un’immagine di sè stessa.

Spesso essa mi diceva scherzosamente: «Ho voluto essere il tuo medico, e ho trascurato un po’ troppo me medesima.» Non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme col suo affetto. L’amore fa spesso di tali miracoli.

Del resto io non dirò come e quanto noi fossimo felici. Triste quella felicità che si può dire! Io mi era serbato fino allora eccezionalmente puro, essa eccezionalmente ingenua. Ci eravamo amati, ella per pietà, io per gratitudine; la stima, la simpatia, la conoscenza profonda delle nostre anime, più che la nostra stessa gioventù, ci avevano condotti alla passione. Ella a venticinque anni, io a ventotto, eravamo ancora due fanciulli. In un gran centro di corruzione come cotesto, noi eravamo rimasti illibati, puri, vergini, ricchi di illusione e di fede — e