Fosca/Capitolo VI
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VI.
Perchè noi ci amavamo diversamente da tutti gli altri. I nostri piaceri più ardenti consistevano spesso in alcune fanciullaggini senza nome, in alcune puerilità che ci avrebbero fatto sorridere se non ci fossimo amati sì ciecamente.
Una delle sue soddisfazioni più vive era di far colazione con me, di mangiare con me dei confetti, di mangiarne molti, e tutti metà per uno; di ravviarmi i capelli, di guardare, come i bambini, la sua immagine riflessa nelle mie pupille.
Conoscevamo tutti i più piccoli sentieri di queste praterie tristi e monotone. Vi facevamo delle lunghe passeggiate; quando si toglieva la mantiglia e il cappello, ne piantava gli spilli in qualche foglia d’ellera abbarbicata ad un salice, e nelle nostre scorrerie venture andavamo poi a cercarli. Non sono più di pochi mesi che sono riuscito ancora, dopo quattro anni, a trovarne due irrugginiti dalle pioggie e dal tempo.
Ci sedevamo spesso lungo i ruscelli a veder scorrere l’acqua; e strappavamo alcuni steli di erba che avevano in fondo una cannuccia tenera di sapore quasi dolce, e ce ne offrivamo a vicenda, dicendoci scherzevolmente:
— Assaggia questo.
— Oh, il mio è molto più saporito!
— Questo è eccellente.
— Eccone uno che è squisitissimo.
E ridevamo, ed esclamavamo di noi stessi: «Che fanciulli!»
Fuori di Porta Magenta, vi è dal lato destro della via un bel torrente, e un ponticello di tavole non più largo di due spanne. Le piaceva di andare su e giù di quel ponte. Lì vicino avevamo anche trovato una capanna disabitata, il cui uscio era aperto; e vi passavamo volontieri alcune ore benchè fosse piena di topi e di lucertole. La chiamavamo il nostro tabernacolo.
Tutti i contadini ci conoscevano e ci facevano mille dispetti. Alcuni fanciulli ci gridavano dietro: «Oh gli amorosi! gli amorosi!»
Una domenica, vistici sedere in un prato, alzarono una tavola che chiudeva lo sbocco d’un canale d’irrigazione.
— Mi pare d’esser tutta in un bagno!
— Ed io!
Prima che fossimo balzati in piedi, il prato era interamente allagato; le sue sottane, il suo scialle erano immollati; salvai a stento il suo cappello e i suoi guanti che galleggiavano. Essa ne rideva come una pazza. Quante volte ci siamo ricordati di quell’avvenimento!
Quella donna sì forte, sì ricca di buon senso, in alcune cose sì seria, aveva tutte le velleità, tutti i gusti pazzi e bizzarri di una bambina. «La mia non è che una rivendicazione; diceva ella qualche volta mezzo tra il serio e il faceto; non mi hanno lasciato il tempo di essere una fanciulla, e me ne rivendico adesso. Meglio esserlo a venticinque anni che mai!»
E lo era in fatto, e me ne dava tutte le prove possibili. La mia stanza era divenuta un caos, piena di uccelli, di fiori, di nastri, di frastagli di carta, di cartocci di confetti, di scatole. Essa vi metteva tutto a soqquadro. Chiudeva di giorno le imposte, e vi accendeva tutte le candele. Spesso diceva sentire il bisogno di gridare, di gridar forte, di urlare, «non posso fare a meno, mi sento una cosa nel petto, qui;» e gridava, e si turava la bocca colle mani.
Mi portava delle farfalle, e mi mandava a regalare delle nidiate d’uccelli che era obbligato ad allevare per non dispiacerle. Nell’ultimo inverno che ci conobbimo, mi portò ella stessa un gattino bianco nel manicotto.
Tutto ciò mi pareva allora assai puerile; pure ho pensato soventi a queste cose, anche in anni nei quali aveva già conosciuto più positivamente e più spaventosamente la vita, e ho dovuto sempre esclamare: «Felici coloro che amarono a questo modo!»